di Sergio Di Cori Modigliani
Mina Habib è una donna che davvero fa la differenza.
E’ una giornalista afgana, laureata in teorie e tecniche del giornalismo all’università di Kabul, attualmente in forze presso “Institute of War and Peace Reporting” una associazione internazionale che si occupa di monitorare la “autentica” situazione nelle nazioni in cui è presente un conflitto bellico. La corrispondente di Telemundo (Messico) e Asieh Namdar, giovane free lance che lavora per l’edizione internazionale di CNN in lingua spagnola, sono riusciti a intervistare questa coraggiosa collega, la quale, nel nome della sua passione professionale, rischia ogni giorno di essere sequestrata, torturata e uccisa dai suoi stessi connazionali “per il solo fatto che, in quanto donna, ho osato azzardarmi a fare il lavoro che mi piace, che voglio, che so fare”.
E’ un esempio di manifestazione di libertà. E’ una donna che merita visibilità.
Ci abbiamo parlato per telefono, ecco che cosa ci ha detto:
“Io volevo fare la giornalista da sempre, è sempre stata la mia vera passione. Volevo documentare la vita delle donne e dei bambini in Afghanistan. Volevo che il mondo sapesse. Ho sempre saputo che sarebbe stata dura, perché nel mio paese, una donna che fa la giornalista non è socialmente accettabile. Viene trattata come una prostituta di strada. Anzi, peggio, perché è considerata pericolosa perché può far scattare un principio di emulazione”.
Le ho chiesto se avesse mai avuto delle minacce o avuto paura di subire delle aggressioni nel suo lavoro. Mina Habib ha detto “nel corso della mia ultima inchiesta ho ricevuto minacce a casa dei miei genitori, e così ho dovuto “fingere” di interrompere la mia attività per qualche mese, provvedere a portare la mia famiglia in un luogo sicuro e clandestino e poi riprendere la mia attività con una copertura. Questi sono i piccoli vantaggi del fatto che sono obbligata, in alcuni villaggi, a portare il burka. Posso passare inosservata. Mi stavo occupando del traffico dei bambini che vengono rapiti dai talebani, drogati, programmati a compiere attacchi suicidi. Mi è capitato anche di lavorare con un ufficiale dei carabinieri italiano che sta qui e mi ha aiutato nel mio lavoro; è stato un bell’incontro. Quando non potevo andare ad alcuni appuntamenti perché era troppo pericoloso, ci è andato lui al posto mio”.
“Ma tu ancora vivi così?”
“Per fortuna no, perché adesso sto in una zona liberata. Ma la mia faccia e il mio nome sta sulla lista nera dei talebani e se ritornassero a prendere Kabul io verrei immediatamente arrestata e uccisa. Qui basta poco. Mi occupo, inoltre, di insegnare la professione a giovani donne che vogliono avviarsi alla carriera. Per noi, tutto è una novità. Fino a qualche anno fa non potevamo neppure andare in farmacia quando avevamo le mestruazioni per acquistare i prodotti necessari. E’ vietato alle donne”
Quando le ho chiesto la sua idea delle donne occidentali, pensavo che mi avrebbe detto che le invidiava, che avrebbe voluto stare al loro posto, che vederle vivere come vivono era per lei un sogno impensabile. E invece Mina Habib ha detto:
“Mi sembrano molto sofferenti e viziate, noi qui, nelle zone liberate stiamo vivendo una stagione di grande eccitazione perché ci stiamo conquistando il nostro posto al sole. A me il gossip o l’idea di fare la valletta in televisione non mi attira. Non credo che un paese con un governante come il vostro, di cui ho letto sui giornali, possa essere interessante per una giornalista di sesso femminile. Non lo capisco proprio. Parlare di pettegolezzi non è giornalismo. A me interessa fare le inchieste e denunciare ciò che non funziona nella società: questo è il senso del mio lavoro. Sarebbe possibile per una donna…è possibile per una giornalista farlo in Italia?”
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