giovedì 30 maggio 2019

Io sto con Nicola Gratteri. E tu, con chi stai? Da solo, per conto tuo?



di Sergio Di Cori Modigliani

Non lasciamolo solo, per nessun motivo!!
Ieri mattina le forze dell'ordine hanno eseguito le disposizioni del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, arrestando 35 importanti 'ndranghetisti e requisendo loro decine di milioni in contanti, azioni, depositi, immobili di varia natura.
Ogni anno, sia a maggio che a luglio, si commemora con piatta e banale retorica gli assassini di Falcone, Borsellino e delle loro scorte. Già il giorno dopo non se ne parla più.

E' fondamentale da parte di tutti noi fornire segnali forti di partecipazione civica collettiva e di supporto all'azione di magistrati onesti, competenti e coraggiosi, che vivono sulla linea del fronte in prima linea ogni giorno della loro vita, a dispetto degli strateghi da tastiera che a tratti osano perfino criticarli.
Ciascuno di noi, nella consapevolezza del proprio piccolo, deve sentire forte dentro di sè l'imperativo categorico che impone una manifestazione pubblica di solidarietà, di sostegno e di ringraziamento sentito a Nicola Gratteri per l'eccellente lavoro che sta svolgendo nella martoriata, difficile e complessa realtà della Calabria.
Sosteniamo Nicola Gratteri.
Facciamo sentire alta la nostra voce di sostegno e partecipazione attiva.

Qui di seguito, il testo di "antimafia duemila" che racconta ciò che sta accadendo in questi giorni in quel di Calabria.

Scrive antimafia duemila



di AMDuemila
Le intercettazioni racchiuse nelle indagini sfociate nell’operazione “Malapianta” che ha portato a 35 arresti

Il procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri è temuto, e non poco, dalle ‘ndrine crotonesi e per questo oggetto di pesanti minacce e ingiurie (“questo è un figlio di p…”). Lo si evince dalle nuove intercettazioni racchiuse all’interno delle indagini sfociate nell'operazione “Malapianta” portata a termine stamani che ha portato al fermo di 35 persone nel crotonese. “Però te la posso dire una cosa. - diceva Remo Mannolo, uno degli arrestati figlio del boss di San Leonardo di Cutro Alfonso, ai suoi compagni - Io sono convinto che lui ne fa arrestare di cristiani però nella mente sua... (ride)”. E poi l’accostamento del procuratore al giudice assassinato da Cosa Nostra Giovanni Falcone, definendolo “un morto che cammina”. “Guaglio uno di questi... uno... na botta... uno di questi è ad alto rischio ogni secondo!! Un morto che cammina!!! Ma lui lo ha detto. Pare che non lo ha detto!! Io lo so che cammino con la morte sempre sulle spalle! Eh… Falcone come è stato. Quando ha superato il limite !! Se lo sono cacciato!!!”. Ma non finisce qui. I boss in quella conversazione, oltre a prendere di mira anche i mafiosi che avevano scelto di collaborare definendo la loro decisione come “vergognosa”, si erano soffermati sul luogo di domicilio di Nicola Gratteri celato per ovvi motivi di sicurezza. “Ma questo dove abita...? A Catanzaro?”. “Ma questo ha tutti posti segreti. Così!!”. “Vabbè volendo. lo scoprono!!”. Una frase allarmante che però, come ben specificato dal fermo di indiziato di delitto, “non contemplava alcuna concreta progettazione, né tanto meno costituiva prova di una concertazione volta a pianificare un attentato nei confronti del procuratore Gratteri”.

Il blitz “Malapianta”
L’operazione “Malapianta” contenete, tra i numerosi documenti di “alto livello probatorio”, le gravi minacce rivolte a Nicola Gratteri, è partita all’alba di oggi quando oltre 250 agenti delle fiamme gialle hanno eseguito un provvedimento di fermo disposto proprio dal procuratore Gratteri, dall’aggiunto Vincenzo Luberto e dai pm Paolo Sirleo, Antonio De Bernardo e Domenico Guarascio. In carcere sono finiti 35 affiliati alla cosca Mannolo di San Leonardo di Cutro. Tra questi è finito in carcere anche Alfonso Mannolo, 80 anni, considerato dagli inquirenti “il capo indiscusso dell’omonimo sodalizio mafioso” legato anche alla famiglia dei Grandi Aracri. Per gli inquirenti, “la sua caratura criminale - si legge nel provvedimento di fermo - appare manifesta ben oltre il notorio, quale essere il vero referente del comprensorio di San Leonardo di Cutro. La sua indiscussa carica ‘ndranghetistica ne fa uno dei principali protagonisti della ‘ndrangheta crotonese. Pianifica le estorsioni nei confronti delle diverse strutture turistiche del litorale crotonese, attua il reimpiego dei capitali lucrati dalla consorteria, discute della politica criminale della locale di ndrangheta con gli altri referenti della provincia quali Nicolino Grande Aracri”. Stando all’inchiesta, nonostante i suoi 80 anni, era attivo nel settore dell’usura che curava personalmente implementando la “bacinella” della cosca. Inoltre Alfonso Mannolo si recava “presso i domicili degli imprenditori vessati dalla consorteria spendendo chiaramente la matrice ‘ndranghetistica del sodalizio”. In manette anche i suoi figli, Dante e Remo Mannolo di 51 e 47 anni. Sempre nell’ambito dell’operazione della Guardia di Finanza sono stati sequestrati beni per 30 milioni di euro; 4 ville di lusso, sei autovetture, 4 società, 6 ditte individuali, rapporti bancari e assicurativi. Grande merito dell’esito dell’operazione è da attribuirsi alle coraggiose dichiarazioni dei testimoni di giustizia le quali si sono rivelate decisive. "Questa indagine - ha spiegato Gratteri - ha un valore aggiunto, che va oltre ogni piu' rosea previsione considerando che siamo in una provincia ad altissima densita' mafiosa, con una 'Ndrangheta di serie A come c'è in provincia di Vibo Valentia. E' successo un miracolo, e' successo che imprenditori turistici che gestiscono grosse strutture alberghiere hanno denunciato, si sono ribellati alla 'Ndrangheta. Questo per noi - ha continuato il capo della Dda catanzarese - è un grande evento, sul piano probatorio ma anche perché ci serve per misurarci e misurare la nostra credibilità come Dda e come polizia giudiziaria. Possiamo riempirci la bocca di parole, discorsi, frasi a effetto, ma i fatti - ha ribadito il magistrato - sono questi: i fatti cono che imprenditori, che hanno pagato negli anni tangenti anche per 700-800 mila euro e hanno subito estorsioni fatte in tanti modi, nell'acquisto di caffè e di tutto ciò che la merceologia prevede, che hanno subito imposizioni di ogni tipo, hanno denunciato". Gratteri ha quindi affermato: "Il fatto che questi imprenditori si siano rivolti alla Guardia di Finanza di Crotone e alla Procura distrettuale di Catanzaro ci inorgoglisce, ci carica, e' la benzina per andare avanti, ci dice che siamo sulla strada giusta, che in questi anni abbiamo seminato bene e fatto le cose sul serio: questa - ha rilevato il procuratore capo della Dda di Catanzaro - è la cartina di tornasole rispetto a tutti i proclami che possiamo fare".



Il clan
Quella disarticolata, secondo il procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri, si tratta di una potente “locale” di ‘ndrangheta, capace di "controllare il respiro di un intero territorio”. Nella conferenza stampa convocata per illustrare l'esito del blitz, Gratteri, insieme al procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e ai vertici della Guardia di finanza regionale e territoriale, ha ricostruito l'evoluzione e le dinamiche di una consorteria 'ndranghetista attiva da quasi 50 anni sulla costa jonica crotonese: "La 'locale' di San Leonardo di Cutro - ha spiegato il procuratore capo di Catanzaro - può sembrare piccola, insignificante, e invece già negli anni '70 Cosa Nostra aveva impiantato in quel territorio una raffineria per la lavorazione e la produzione dell'eroina: questo a conferma della credibilità criminale di questa organizzazione, perché vuol dire che già a quel tempo c'era una struttura ben radicata, al punto da confrontarsi con la Cosa Nostra di quegli anni, che - ha affermato Gratteri - non è quella di oggi ma è quella che dominava gran parte del territorio nazionale e persino negli Stati Uniti". Gratteri ha poi sottolineato: "Per decenni quell'organizzazione è stata quasi dimenticata sul piano giudiziario, ma oggi grazie a questa indagine abbiamo dimostrato c'era una 'locale' di 'Ndrangheta che era intervenuta nella parte vitale di un territorio, quella economica”. L’aggiunto Luberto, sempre in riferimento all’identità alla cosca Mannolo di San Leonardo di Cutro, ha evidenziato come il clan sia salito di prestigio criminale nella provincia di Crotone "al punto da avere un rapporto paritetico con il boss Nicolino Grande Aracri. Da rimarcare anche - ha sostenuto il procuratore aggiunto - il controllo che l'organizzazione esercitava sull'usura, gestita direttamente dai capi della consorteria e perpetrata anche lontano dalla Calabria, e i collegamenti che la cosca Mannolo aveva con altre cosche per il traffico di droga. Con questa operazione - ha riferito Luberto - chiudiamo il cerchio sul territorio di Cutro, impattando tutte le "locali" esistenti, oggi fortemente ridimensionate". 

Le attività
Una delle attività “madre” della cosca è il traffico di stupefacenti, fonte di grandi guadagni nelle tasche dei boss. Sin dagli anni '90 per le altre cosche del Crotonese, ma non solo i Mannolo, hanno costituito un punto di riferimento per il narcotraffico. In quegli anni venne addirittura impiantata una raffineria a San Leonardo, località giudicata idonea in quanto facilmente controllabile dalla cosca e quasi impossibile da controllare per le forze dell'ordine. Le indagini hanno dimostrato come i "san leonardesi" si sono approvvigionati di droga dalle cosche operanti in provincia di Vibo Valentia, Catanzaro e Reggio Calabria e, inoltre, si sono dotati di una ramificata rete territoriale per la commercializzazione del narcotico principalmente su Crotone, Isola di Capo Rizzuto, Botricello e zone limitrofe in provincia e Catanzaro, San Giovanni in Fiore in provincia di Cosenza. Le indagini hanno documentato l'acquisto e la successiva cessione di centinaia di chilogrammi di hashish, cocaina ed eroina. Altra fonte di guadagno era l’incasso di denaro proveniente dalle attività estorsive esercitate sui villaggi turistici del litorale ionico fra Crotone e Catanzaro i quali soggiacevano al controllo criminale posto in essere dalla cosca.


Le soffiate
Per nascondere le tracce ed eludere gli investigatori i Mannolo avevano fatto appello ad “un’oscura rete di fonti e connivenze” che permetteva agli affiliati di conoscere in anticipo le mosse della magistratura e forze dell’ordine. Nelle 560 pagine che compongono l'ordinanza eseguita stamane dalla Guardia di Finanza si evidenzia "la costante ricerca, da parte degli indagati, di fonti informative in grado di riferire su vicende giudiziarie di loro interesse". La diffusione tra i consociati di informazioni "sensibili", permetteva l'adozione di adeguate contromisure. "La ricezione di tali informazioni - si annota nell'ordinanza - determinava immediate reazioni, finalizzate ad attuare precauzioni per eludere misure restrittive, eventualmente, emesse nei loro confronti".

Foto © Imagoeconomica

lunedì 27 maggio 2019

Non è Matteo Salvini il nemico degli italiani.







di Sergio Di Cori Modigliani


Sono le ore 13 di lunedì 27 Maggio 2019.
Sono trascorse 14 ore dall'apertura delle urne.
L'unico partito, in tutta Europa, che ha vietato ai propri dirigenti di parlare è il M5s.
C'è da supporre che siano in attesa di elaborare i big data forniti dalla Casaleggio, che arriveranno intorno alle 14.30, non prima.
E' possibile che, a quel punto, forse, Di Maio dirà qualcosa.
Ma non sarà il suo pensiero.
Non saranno le sue idee.
Sarà l'opinione di un robot e il risultato di un algoritmo.
Perchè il M5s ha scelto di essere così.
E' il motivo principale per cui hanno perso il 58% del loro elettorato in un anno, circa 6 milioni e 200 mila voti.
Ma i dirigenti del M5s non l'hanno capito, e non se ne sono resi conto. Vivendo in uno stato di perenne illusione onirica, non sono in grado di affrontare nessuna tematica politica legata al senso della realtà. 

Non ce la fanno proprio, anche volendo, non ne sono capaci.

Come La Sinistra.
Salvini vince perchè irrompe sullo scenario politico con una piattaforma pragmatica anti-culturale, andando a raccogliere i frutti della semina pentastellata. Considerarlo un pericoloso fascista è una stupidaggine infantile, un gravissimo errore di miopia ottusa che porterà il paese in un baratro.
Matteo Salvini è soltanto un sintomo.
Niente più di questo.
Perchè "il grande malato" rimane la sinistra stracciona, quella composta da piccole rendite parassitarie, necessarie per controllare le clientele assistite improduttive e regressive, quelle che nei decenni hanno sequestrato l'intero immaginario collettivo utopistico delle brave persone senza potere, senza amicizie che contano, senza malleveria, senza amici degli amici, facendo loro credere che baroni corrotti e impresentabili sarebbero stati gli alfieri di un nuovo anti-fascismo militante.
Non è così.
Quel malato va curato subito.
Oppure va abbandonato al suo inevitabile destino, interrompendo questo accanimento terapeutico buonista, inutile quanto disastroso per l'intera collettività.
Perchè è sul terreno di questo autentico disagio censurato che Matteo Salvini pesca voti e nutre di energia dinamica la sua locomotiva elettorale.

Non saranno certo le solite facce spente e furbe di una sinistra impresentabile a spingere il Bel Paese verso il futuro che i nostri figli meritano di avere.

Il vero e solo nemico da battere è "l'italianità", quella mescolanza di omertà e carità spicciola, di assistenzialismo e sbarramenti anti-meritocratici, quel capitalismo di relazione che situa l'Italia in un luogo anomalo, il tecno-medioevo nazionale, perchè avvilisce lo spirito imprenditoriale, non nutre le ambizioni, impedisce di sognare un miglioramento della nostra vita. 
Quella va combattuta, con una nuova prospettiva culturale, totalmente chiusa (e ci si augura per sempre) all'inclusione dei falliti di successo: il vero cancro dell'Italia che amo.

giovedì 23 maggio 2019

Cambia il mondo. Il mondo ci cambia. Ma in Italia niente di nuovo sotto il sole. E in Europa?


Il 30 Maggio del 2015, accorgendomi con inquietante dolore che l'Italia e l'Europa non avevano subito neppure lo spostamento di un millimetro nei precedenti due anni, riproposi ai lettori di questo blog un post del 2013, proprio per sottolineare il fatto che la situazione era pressochè identica. 
Oggi è il 23 Maggio del 2019 e siamo alla vigilia delle elezioni europee, convinti di star vivendo una congiuntura attuale totalmente diversa da quella del 2016, 2015 o 2013.
Penso che si tratti di una pia illusione: altro non è se non il trionfo dei politici imbonitori che vogliono farci credere che la congiuntura dell'attualità sia completamente diversa da prima. Non stiamo meglio di quanto non stessimo quattro anni fa o sei anni fa. 
Ma neppure peggio. 
Siamo semplicemente immobili, sequestrati da uno status quo funebre, tanatogeno, che certifica, definisce e sigla la morte del Desiderio. 
E, di conseguenza, elude (e quindi condanna) i nostri intimi e autentici desideri.

Ripropongo, pertanto, oggi, il post del Maggio del 2013 (quando si annunciò l'inizio di un cambiamento epocale per l'Italia) con l'aggiunta del cappello scritto due anni dopo nel 2015.
Buona lettura.

Sosteneva Il sottoscritto due anni fa:
"Il 29 Maggio del 2013 l’Europa, sia a est che o ovest, sia a nord che a sud era molto molto diversa. Così come era molto diverso il quadro geo-politico internazionale. L’Isis ancora non esisteva. Non c’erano le sanzioni contro la Russia. Esisteva ancora l’embargo all’Iran, oggi divenuto alleato prezioso degli Usa. La Grecia annaspava guidata da un fedele e servile Samaras, piatto esecutore degli ordini della Troika. In tutta Europa, oggi, il dibattito è animato e ferve di contenuti stimolanti, due anni fa considerati impensabili.
Oggi al pomeriggio, mentre ripulivo il mio vecchio blog, mi sono imbattuto in un un post che avevo scritto a Giugno del 2013, quando il contesto politico mondiale era molto diverso da quello attuale. Già alle prime righe mi ha colpito accorgermi quanto ancora quel post fosse drammaticamente attuale, perché in Italia siamo rimasti al palo. Rispetto al Giugno del 2013, siamo nella stessa identica situazione esistenziale.
Sottoscrivo ciò che sostenevo allora e quindi mi auto-cito e lo riposto, 24 mesi dopo, con la stessa foto di copertina.

Sosteneva Di Cori Modigliani nel giugno del 2013:
Oscenità o seduzione? Questo è l'unico referendum che conta, altro che euro.
“Che noia, la vita in Italia.
Altro che euro! 
Bisognerebbe fare un referendum per scegliere tra “oscenità e seduzione”. 
Questo sì è un argomento serio che va a toccare la spina dorsale dell’esistenza di tutti.
Per mia fortuna, non sono single. Per come sono fatto di carattere, a me piace essere plural. Se non fossi accompagnato, mi cercherei una donna e quindi mi metterei a caccia di una femmina giusta per me. Il che non sarebbe facile. Data l’età, e una notevole serie di discriminanti, sia che fossi in Italia, a Parigi, New York o Buenos Aires, le difficoltà di azzeccare una compatibilità sessuale, affettiva, emotiva, sociale, culturale, politica, sarebbero le stesse. Magari, all’estero, aggravate dal fatto che le donne locali parlano un’altra lingua e hanno usi, norme e consuetudini molto diverse da quella mia di origine, smaccatamente italiana.
Così, in teoria.
In verità, in Italia, leggendo i più recenti dati statistici, si evince che sarebbe molto ma molto più arduo, perché in Italia è stata annullata la seduzione, e quindi l’erotismo. E’ stata sostituita dall’oscenità che è la morte dell’erotismo e dello scambio ludico esistenziale tra le persone.
Il danaro, nell’immaginario collettivo della nazione italiana, è diventato il primo valore assoluto, il secondo è il lavoro, il terzo è il cibo, il quarto è il turismo, il quinto è la salute, il sesto è il sesso, e la seduzione si aggira intorno al dodicesimo posto. Direi piuttosto in linea con il 69esimo posto della libertà di stampa.
La seduzione, da noi, è stata abolita, il che ci spiega la vera ragione per cui è molto difficile vedere uno splendido film italiano, leggere un’ammaliante romanzo italiano, rimanere avvinghiati dalle parole suadenti di un qualsivoglia ospite di talk show televisivo -indifferentemente maschio o femmina, di destra o di sinistra, meridionale o settentrionale, giovane o anziano- dato che l’erotismo dell’esistenza è stato sostituito dall’obbligo sociale di aderire al nuovo concetto di massa dell’oscenità. Basti pensare che hanno convinto l’intera popolazione italiana del fatto che gli economisti sono i veri depositari della chiave per risolvere il costante declino del Paese, il che è davvero ridicolo (oltre a essere davvero osceno, dal punto di vista intellettuale, in maniera inquietante). L’economia, infatti, non è una scienza, lo sanno tutti. La particolarità di tale disciplina, infatti, consiste nel fatto che la validità e la veridicità di una teoria viene confermata soltanto dopo la sua esecuzione pratica, e mai prima.  Con inevitabili potenziali sconquassi, come quello attuale. La signora Christine Lagarde, la segretaria che presiede il Fondo Monetario Internazionale, ieri mattina ha candidamente ammesso che “ci siamo sbagliati nelle nostre previsioni”. Ve lo vedete Galileo mostrare dei dubbi di fronte all’idea che forse il pianeta Terra non gira intorno al sole? La scienza vera, cioè la matematica, la fisica, l’astronomia, l’ottica, l’astrofisica, la biologica, la chimica, ecc, non applicano dei modelli teorici, perché sono esatte. L’economia, invece, è basata su modelli teorici, per lo più matematici, che non presuppongono di prendere in considerazione l’esistenza di quella che i sociologi definiscono “variabile impazzita”, altrimenti detto: il fattore umano. Non è roba da poco. Loro parlano di cicli, di grafici, di tendenze, di azioni e reazioni rispetto all’applicazione di certi specifici piatti algoritmi, che applicati producono il risultato “l’euro è una meraviglia” oppure “l’euro è uno schifo e ci distruggerà”. La differenza tra un economista e uno scienziato consiste nell’accuratezza esatta della previsione. Se andiamo a leggere gli articoli (e i libri) scritti dagli economisti (anche famosissimi) negli ultimi cinque anni non credo che troveremo molte previsioni azzeccate. Non è certo un caso che il più famoso economista in assoluto degli ultimi 100 anni, John Maynard Keynes, abbia goduto del suo clamoroso successo -da tutti riconosciuto all’unanimità- soltanto dopo che le sue teorie, una volta applicate, si sono rivelate vincenti. Non solo. Se andate a leggere una sua splendida relazione a un convegno economico tenuto nel 1926 a Londra (è lunga circa 60 pagine) ci si rende conto che ci si trova davanti a un personaggio davvero più unico che raro: parlava sempre e costantemente soltanto della “esistenza delle persone” e come trovare il sistema per allargare e diffondere il benessere a un numero sempre più alto di individui.
Intendiamoci, non sono gli economisti ad aver scelto e deciso di assassinare la seduzione in Italia.
Tutto ciò per introdurre, per l’appunto, quest’argomentazione: l’Italia non è diventato questo noiosissimo paese, privo di elementi di seduzione attiva, che è oggi, sequestrato da una banda di inetti incompetenti, dove non accade nulla, non si muove nulla, non cambia mai nulla, e non esiste dinamica né originalità “per colpa della crisi economica”. E’ il contrario.
Gli italiani hanno rinunciato collettivamente all’esercizio della seduzione scegliendo l’oscenità e creando le migliori condizioni per determinare una crisi economica. Su questo punto i pensatori (anche di scuole diverse) sono tutti d’accordo: una grave crisi economica è “sempre esistenzialmente oscena” e provoca distruzione, sofferenza, povertà e morte del desiderio.
Poco a poco hanno trasformato il lavoro da “espressione del proprio sé sociale” a “bisogno inderogabile di sussistenza”. Si è sostituito il Valore con la Visibilità, introducendo la quantità dell’apparenza come sostitutivo della qualità del merito. Si è diffuso nella società civile un nuovo modello di immaginario collettivo, quello del reciproco bisogno,  che ha finito per ridurre anche il rapporto inter-personale tra uomo-donna a una specie di vile contrattazione esistenziale.
La spudoratezza, l’humus dell’oscenità, ha sostituito l’evocazione, che è la base dell’erotismo.
E l’oscenità è dilagata anche nel campo etico, morale e sociale, inevitabilmente.
La seduzione è legata all’espressione onirica individuale.
L’oscenità, invece, è legata alla immediata necessità di soddisfare una urgenza. Che sia fisiologica (come nei film porno) economica (dacci i soldi subito cash e facciamo qualunque cosa) etica (conta il risultato pratico) sociale (lo fanno tutti, lo faccio anch’io) è uguale.
Ciò che conta è il fatto che tutto ciò presuppone la rinuncia alla trasformazione alchemica del proprio sogno interiore in realtà, quindi all’espletazione delle proprie ambizioni.
La seduzione, cioè l’erotismo della vita, è strutturata su un principio molto semplice e basilare; il seduttore vuole portare il sedotto nel proprio mondo interiore ma non violando la natura del sedotto, tutt’altro: il fine del seduttore consiste nello spingere il sedotto a trovare nel mondo del seduttore la chiave d’accesso alla propria liberazione individuale. L’idea di concepire il sedotto come una vittima inconsapevole di un seduttore/truffatore è una fantasia piccolo-borghese. Il sedotto è tale perché vede nel seduttore la possibilità realistica del proprio definitivo riscatto e trova qualcuno in grado di portarlo a essere se stesso.
L’oscenità, invece, è una modalità autoritaria che usa strumenti anche sofisticati per annullare la volontà di chi aderisce convincendolo alla soddisfazione immediata di un desiderio ma che si rivela ben presto quello del produttore di oscenità. Così funziona il meccanismo della pubblicità, che è sostanzialmente “la culla dell’oscenità”. Chi vende la bibita X non vuole che io mi disseti. Pretende che io mi disseti anche se non ho sete e soltanto bevendo la sua bibita.
Nella seduzione, contrariamente a quanto di solito si crede, il sedotto non viene convinto, sarebbe manipolazione.
Va accompagnato nel luogo X -che è esattamente quello che il sedotto voleva esplorare- e che corrisponde al mondo interiore del seduttore. Il sedotto, pertanto, accettando la propria condizione, inizia il suo percorso di liberazione.
Tant’è vero che nella cultura europea il Don Giovanni finisce all’inferno, mentre Casanova, come per esempio in USA dal 2003, è diventato invece un’icona del movimento femminista più evoluto. A Don Giovanni interessa la quantità di donne che riesce a possedere: ragiona come il produttore di bibite. La sua vita è basata sul catalogo e la donna è considerata preda passiva da abbindolare. Casanova, invece, non inganna mai nessuna donna. Non soltanto pretende di essere amato, ma vuole che la donna condivida la sua idea del mondo liberandosi delle norme piccolo-borghesi. Lui non la vuole convincere, non c’è nulla di cui essere convinti; lui la vuole complice di un progetto comune di libertà collettiva. Tant’è vero che mentre le sedotte da Don Giovanni sono disperate e si uccidono, le donne sedotte da Casanova lo amano per sempre, anche dopo decenni dall’incontro.
La pratica dell’oscenità è legata all’annullamento dell’anima.
La seduzione erotica, in contrasto, è basata sul via libera all’espressione individuale dell’anima.
L’oscenità è barbara.
La seduzione erotica è la civiltà.
Non è certo casuale che tutto il 700 francese sia stato condizionato da una proliferazione, presso le classi colte, di romanzi, racconti, novelle, saggi, studi, che ruotavano intorno alla necessità di affermare la seduzione come momento rivoluzionario di abbattimento di un noioso status quo opprimente.
Il trionfo del berlusconismo in Italia è l’irruzione dell’osceno -come condizione sociale dell’esistenza- nell’immaginario collettivo di cittadini inconsapevoli.
La società italiana è diventata la meno seducente tra tutte quelle occidentali.
Il ’68 esplose e si affermò perché denunciò l’oscenità dell’ipocrisia piccolo-borghese imponendo un nuovo modello esistenziale in cui la seduzione era predominante ed egemone.
L’immagine che vedete in bacheca è la locandina di un film francese, distribuito nell’autunno del 1958.
E’ un film considerato il prodotto culturale che ha dato il via ai cambiamenti epocali realizzati negli anni’60 in tutto il mondo. E’ tratto da uno splendido romanzo del più accurato, meraviglioso e squisito narratore e descrittore della ignominia piatta della squallida moralità piccolo-borghese europea, Georges Simenon. Il romanzo si chiama “En cas de malheur” pubblicato nel 1957. Tradotto qualche anno fa in italiano e pubblicato da Adelphi con il titolo “In caso di disgrazia”. Apparentemente è la consueta storia banale: una giovane ragazza spiantata, molto attraente, seduce un potente e ricco professionista attempato per scucirgli i soldi e sistemarsi. Invece non è così. E’ la storia di un avvocato di Parigi, principe del foro, il quale è distrutto da una “colpa interiore”: ha sposato una donna delle classi alte, grazie alla quale ha fatto una prestigiosa carriera diventando celebre, ricco e potente, ma è infelice perché sa di aver rinunciato a se stesso. Arriva nel suo studio questa giovinetta la quale dichiara subito di aver bisogno di un grosso legale perché è accusata di omicidio; siccome non ha soldi è disponibile a diventare la sua amante da subito. Gli propone un affare. Lui è indignato, da bravo moralista. Rifiuta la proposta di lei, ma accetta di difenderla gratis. E così, dovendosi preparare alla causa entra nel mondo folle, anarchico, spregiudicato, libero e selvaggio della sua assistita. E quel mondo gli piace. Riesce a farla assolvere. Poi lui diventa sedotto e sono amanti. Inizia così l’esplorazione da parte dell’uomo di un mondo a lui ignoto. Ma arriva l’ex fidanzato di lei, un giovane piccolo-borghese, che vuole convincerla a circuire il vecchio per fare il colpaccio. Lei si rifiuta: il suo fine non è il danaro, ma la libertà. E così finisce che il giovane la uccide a coltellate. Il romanzo è il diario dell’avvocato. I francesi rimasero sconvolti da questo rovesciamento dei canoni morali dell’epoca perchè la figura della giovane risaltava come una eroina, mentre la moglie dell’avvocato veniva fuori come una ipocrita ossessionata dalle cene sociali e dallo status. Dopo un anno ne fecero un film, diretto da Claude Autant Lara. Protagonisti, Brigitte Bardot e Jean Gabin. Fu un successo clamoroso che aprì un furibondo dibattito. Il film venne vietato in Usa perché considerato “osceno e contrario alla moralità pubblica”. Gli intellettuali francesi si indignarono e convinsero Brigitte Bardot e suo marito Roger Vadim ad andare a New York a perorare la causa. Ma il governo americano rifiutò il visto alla Bardot sostenendo che “si tratta di persona pericolosa per l’integrità morale della nazione americana”. In quel momento, De Gaulle -il presidente in carica- stava affrontando l’inizio delle contestazioni interne relative alla colonia Algeria e si era rifiutato di aderire alla Nato perché gli americani non gli davano il comando. Convocò l’ambasciatore americano nel suo ufficio. “Ho un messaggio personale per il presidente, come sa siamo amici e siamo stati compagni in battaglia avendo gestito insieme lo sbarco in Normandia”. L’ambasciatore era stato convocato alla presenza (rara e inconsueta) di tre giornalisti. Chiese quale fosse il messaggio. E Charles De Gaulle rispose: “Dica al generale Eisenhower da parte mia che è un vero imbecille. Tutto qui” e licenziò l’ambasciatore. Due giorni dopo invitò a cena “ufficialmente” all’Eliseo la Bardot e suo marito dichiarandosi entusiasta del film. In Italia venne distribuito con il nome “La ragazza del peccato”. Vi consiglio di vederlo. Lo trovate tutto intero su youtube, suddiviso in diverse parti. E’ in bianco e nero. E vale davvero la pena. Delle vere perle vintage sono i dialoghi tra l’avvocato e sua moglie, quando lui le comunica il suo disprezzo soprattutto per il fatto che lei non è neppure gelosa, ciò che conta è che venga salvaguardata l’ipocrisia borghese dello status. Nouvel Observateur pubblicò un ampio reportage sulla cena della Bardot e De Gaulle e sulla grandezza culturale della Francia rispetto alla miopia ottusa degli americani. Poche settimane dopo, Norman Maler e Truman Capote protestavano pubblicamente a New York e si facevano riprendere dalle televisioni mentre, a casa, insieme ad amici ospiti (la crema intellettuale di quegli anni) guardavano il film grazie a una copia clandestina acquistata al mercato nero. Il dibattito dilagò e uno sconosciuto politico salì sul cavallo per condurre una sua battaglia personale: John Fitzegerald Kennedy. Nel Massachussets, dove era governatore, tolse la censura al film e dichiarò in un celebre comizio (si era in campagna elettorale e il suo antagonista era Richard Nixon) che “l’America ha bisogno di gettarsi nella modernità e imparare dall’Europa; abbiamo bisogno di aprirci al nuovo e possiamo farlo soltanto con un nuovo modello di seduzione aderente ai tempi che stiamo vivendo”. Due anni dopo, nel suo trionfale viaggio in Europa, Kennedy volle conoscere a Parigi la Bardot. Ma l’attrice francese si sottrasse. Gli disse (frase rimasta famosa che fece il giro di tutto il mondo) “Lei è un Don Giovanni, non è il tipo di uomo che mi piace. Sua moglie è una donna deliziosa, davvero stupenda. Ma lei merita il mio rispetto perché mi risulta che lei sia un grande statista”. Sui giornali uscì ufficialmente soltanto la  frase di complimenti, soltanto 35 anni dopo venne resa pubblica dagli americani l’intera vicenda. Brigitte Bardot divenne un’icona in tutto il continente americano, non perchè facesse vedere le chiappe, ma perchè rappresentava un modello di donna libera e indipendente che aveva un imbattibile plusvalore: smascherava il gioco dei potenti e ne denudava tutta l’infelicità, l’atrocità, la disperazione esistenziale, proponendo un modello di vita diverso.
In California la definirono “l’indiana di Parigi”.
L’Europa ha cessato di proporre modelli seducenti.
Ha cessato di cavalcare la strada della seduzione.
Ha scelto l’oscenità.
L’euro, la finanza, i discorsi economici, i numeri, le statistiche, le percentuali, lo spread, infatti, sono osceni.
Non lo dico da economista, cosa che non sono, nè ho la minima idea se conviene tenercelo o uscire.
Sono osceni nel senso e nel significato etimologico del termine, che viene dal latino "obscenum". Significa "tutto ciò che si svolge al di fuori del palcoscenico sociale, che si trova fuori dalla scena collettiva esistenziale".
La vita vera, la nostra, di noi tutti e quindi anche di voi che state leggendo questo post, oggi è diventata, per l'appunto, oscena: siamo tutti costretti a occuparci di eventi che non hanno niente a che vedere con tutto ciò che qualifica le nostre ambizioni e ci lancia verso la nostra idea individuale della felicità, basata sugli affetti, sull'amore, sul calore umano, sulla possibilità di vedere realizzati i propri sogni e desideri.
Per l'appunto: desideri, i grandi incompiuti dell'Europa.
L’euro rimane, comunque, come concetto, un esempio lampante di oscenità: non produce erotismo. Sia per chi lo sostiene e lo vuole, sia per quelli che non lo vogliono e si oppongono, non fa alcuna differenza. La sola idea di aver fatto credere alle persone che l'affermazione dell'euro oppure la sua abolizione determinerà la nostra felicità risulta esistenzialmente oscena e impensabile.
E noi dobbiamo cominciare a combattere contro l’oscenità.
E possiamo anche cominciare a divertirci, liberandoci da questa noia davvero oscena.
In tutti i sensi.
Viva l'Europa dei desideri, e della seduzione.

venerdì 10 maggio 2019

"C'è la censura. Siamo al rogo dei libri". E' falso, non c'è alcun rogo. Eppure, fino a pochi anni fa, in Italia i giudici bruciavano i libri, eccome se lo facevano.






"Dopo i 40 anni ciascuno è responsabile della propria faccia"
Oscar Wilde



di Sergio Di Cori Modigliani

Nel commentare l'esito della vicenda legata al festival del libro a Torino, il ministro degli interni Salvini ha lanciato un allarme chiaro e netto: "Siamo al rogo dei libri".
Purtroppo per lui, si tratta di un delirio, quindi, di un legittimo falso.
Per nostra fortuna, infatti, ciò che lui ha detto non è vero, nè legalmente nè fattualmente. 
Il rogo "per opere del libero ingegno creativo degli autori" presente nel nostro diritto penale, è stato abolito nel 1982 dall'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Salvini non sa (si vede che nessuno glie lo ha ancora spiegato) che esiste il web e il libero mercato globalizzato, quantomeno in occidente. Il suo libro/intervista, infatti, pubblicato da una sconosciuta casa editrice della galassia neo-fascista, risulta primo assoluto nelle vendite sulla piattaforma di Amazon.  Vende molto di più del libro di Bruno Vespa.
Un vero affarone per chi ha costruito l'intera vicenda. 
Si è trattato di quello che nel business americano viene definito con il termine "augmented marketing by rogue sources", ovvero "decuplicazione del mercato grazie alle reazioni emotive provocate dalle fonti di oppositori e nemici".
Se il libro fosse stato pubblicato dalla Rizzoli, ad esempio, sarebbe passato inosservato e venduto soltanto ai comizi leghisti. Invece, così è stato un vero boom. 
Il rogo, quindi, è bene saperlo (la verità oggettiva ha ancora un suo rispettabile valore) non esiste.
Ma c'era.

Oggi è il 10 maggio. 
In questa data, nel lontano1933, a Berlino, le squadre naziste diedero vita a un raccapricciante evento: bruciarono in tutte le piazze in giganteschi falò, che andarono avanti per tutta la notte, centinaia di migliaia di libri di autori da loro considerati "pericolosi per la salute del popolo tedesco" prelevati dalle biblioteche comunali e da quelle universitarie.  I libri vennero accatastati in diverse montagnole sparse per la città, e finirono in fumo sotto gli occhi di tutti.
Da lì, da quell'evento, 10 maggio 1933, nasce e si sviluppa il Terrore. Che finisce per sedurre l'opinione pubblica, ai tedeschi piacque. Tanto è vero che alle elezioni politiche di dieci mesi dopo, il partito nazista vince alla grande presentandosi come "movimento pacifista anti-partitico, per il socialismo del popolo e per la sovranità nazionale". 
Così andò, allora.

L'ultimo libro andato al rogo in Italia (il rogo vero intendo non quello salviniano) con tutte le copie sequestrate e bruciate davanti a un notaio di stato, ahimè l'ho scritto io.
E' avvenuto nel settembre del 1978.
Si chiamava "Sarà per un'altra volta". 
Lo pubblicò Savelli, un editore romano che oggi non esiste più.
Era un romanzo giovanile con il quale esordivo, avevo 27 anni.
Nonostante zero pubblicità e zero recensioni, il libro ebbe un impatto molto positivo sul mercato diventando subito un cult book ma tre settimane dopo venne denunciato e sequestrato dalla polizia. L'autore venne denunciato e al processo per direttissima nell'aprile del 1979 il libro venne condannato al rogo. Vero, quello vero, non quello salviniano. Tre anni dopo, Sandro Pertini intervenne, comminò la grazia, e cancellò il rogo dalla giurisdizione della repubblica italiana.

Era una storia d'amore ai tempi delle brigate rosse.
La storia di un giovane rabbioso alle prese con una realtà che lui considera distopica, fatta di violenza quotidiana, di disoccupazione giovanile, di raccomandazioni, corruzione e malleverie politiche, di inseguimenti cittadini tra fascisti e antagonisti, di irruzione del femminismo nella gestione della relazione amorosa con tutte le implicazioni inerenti a un mondo che era cambiato e che stava cambiando. E lui si nutre di rabbia, perchè quella è la sua modalità di alchemizzare la sua disperazione e la sua solitudine esistenziale.
Un libro per i giovani (e sui giovani) di quell'epoca, quarant'anni fa a Roma.

Sei mesi fa, una giovane e coraggiosa imprenditrice marchigiana, Federica Savini, che ha lanciato una sua start up aprendo una casa editrice indipendente (si chiama "Aras" e ha la sua sede centrale a Fano) ha deciso di ripubblicare questo romanzo pensando che, nonostante il suo inevitabile e dichiarato sapore vintage, possa essere compreso e captato dai giovani di oggi.

E così, dai fumi del passato, risorge dalle sue vere ceneri "Sarà per un'altra volta".
Lo si trova anche su Amazon per chi non vuole andare in libreria.

Grazie per l'attenzione


giovedì 9 maggio 2019

Emma Bonino scelta come candidata commissario europeo per il gruppo lib-dem di Alde






di Sergio Di Cori Modigliani


Reduce da un entusiasmante incontro pubblico a Palazzo Santa Chiara a Roma, in cui una adorabile quanto commovente Stefania Sandrelli ha dato l'annuncio ufficiale che le centinaia di liste civiche nei 27 paesi europei che fanno riferimento al gruppo liberal-democratico di ALDE, hanno deciso di candidare come prossimo presidente della Commissione Europea al posto di Juncker, la sentarice Emma Bonino.
Per la sua indubitabile competenza in campo geo-politico, per la sua perfetta conoscenza dei meccanismi regolatori interni, per la sua impeccabile biografia e tenacia nel campo delle grandi battaglie per i Diritti Civili e i Diritti Sociali che hanno costruito quell'Europa che nasceva proprio oggi, 9 Maggio 1950 a Parigi con la celebre dichiarazione di Robert Schumann.
Per combattere contro Trump, Jingping e Putin che condividono la strategia millitare tuttora in atto per dividere l'Europa e spingerci verso l'ultima guerra mondiale della specie umana.
Nel nome dell'antifascismo e dell'anticomunismo, nel nome del laicismo e degli ideali libertari che ci hanno permesso di progredire attraversando 75 anni di pace ed evoluzione.

Un'unica citazione estrapolata dal suo bellissimo discorso di accettazione della impegnativa candidatura: "Non dovete cedere alle lusinghe di coloro che evocano i bei tempi andati; si tratta soltanto di una retorica e infantile illusione, per il semplice motivo che i bei tempi andati non sono mai esistiti".
Per gettare il cuore oltre l'ostacolo e costruire il futuro.
E restituirci quella giovinezza della partecipazione, che in un mondo popolato da cialtroni opportunisti è davvero ciò che serve all'Italia.
Finalmente orgogliosi di poter puntare a una piena rappresentanza dei bisogni collettivi autentici della nazione.

Vai Emma, vai a Bruxelles a perorare la nostra causa.

martedì 7 maggio 2019

Perchè gli italiani, nel 2019, amano il fascismo?





di Sergio Di Cori Modigliani

Un paese di ipocriti straccioni.
Stanno lì a discutere e stracciarsi le vesti sulla questione relativa alla casa editrice di casapound e alla questione "Torino", ma negli ultimi 20 anni nei più disparati talk show televisivi sono comparsi tutti i leader politici della sinistra e tutti gli intellettuali, scrittori, artisti, attori e attrici famosi - gli stessi che oggi fanno a gomitate per esibire la propria fiera indignazione- i quali sedevano accanto ad una esagitata Alessandra Mussolini che spiegava a el pueblo unido quanto grande fosse stato suo nonno, definito statista, senza che nessuno osasse dire mai una parola se non delle piatte frasi di banale circostanza prive di sostanza.
Quindi, di che cosa state a parlare?
Non vi piace la camorra?
Non vi piacciono la mafia e la 'ndrangheta?
Bene, allora piantatela di guardare ossessivamente i telefilm cruenti che trasformano criminali in modelli di identificazione (anche se, apparentemente negativi) sbavando dall'eccitazione perchè vi arrapate sentendo l'eccitazione del fascismo che alligna dentro di voi.
Appartengo a una generazione cresciuta negli anni'70 quando c'era soltanto -in campagna elettorale- una trasmissione che si chiamava "Tribuna elettorale" e mostrava leader politici che parlavano con i giornalisti, di solito moderati da un giornalista della Rai che si chiamava Ugo Zatterin.
Quando un giornalista fascista che rappresentava una testata mussoliniana poneva una domanda, i vari fu Berlinguer, Nenni, La Malfa, rispondevano con gentilezza ed educazione in maniera composta: "Mi dispiace per lei, non le rispondo. Con i fascisti io non ci parlo. Il fascismo è stata una vergognosa parentesi criminale che ha distrutto l'Italia e la costituzione della repubblica è nata proprio per combattere questa idea dell'esistenza. Passiamo alla prossima domanda con qualche altro giornalista".
Grazie a Silvio Berlusconi, quell'atmosfera rigida e severa, dal sapore vintage, è scomparsa, evaporando nella stagione del consociativismo ipocrita che ha finito per generare l'attuale generazione di ipocriti dirigenti politici.
Esistono attualmente decine di editori fascisti e centinaia di pubblicazioni fasciste che godono di sovvenzioni statali per l'editoria e nessuno ha mai protestato negli ultimi 20 anni.
Vi aggrappate alla punta dell'iceberg proponendo una vecchia retorica bolsa e insulsa fuori dal mondo. Su rainews 24 e su tutti i talk show compaiono regolarmente bloggers "dichiaratamente" fascisti e nessuno dice mai nulla.
La gente oggi crede che "striscia la notizia" o "le iene" facciano informazione e pensano che quello sia il giornalismo.
Non lo è.
Non lo è mai stato.
Ma gli italiani non lo sanno, perchè nessuno glie lo ha mai spiegato.
Peggio per voi che li guardate. Arrangiatevi.
Quindi, di che cosa stiamo parlando?
Beccatevi striscia la notizia, le iene, il grande fratello, l'isola dei famosi e tutti i seriali televisivi che vi propongono la sentimentalità e il privato di criminali assassini e state zitti.
E' più apprezzabile il pudico silenzio, utile per alzare il livello della consapevolezza, prendendo atto che il fascismo, in Italia, non è mai morto, perchè non è mai stato alchemizzato.
Non c'è quindi nessuna emergenza, nessun revival.
C'è una fisologica prosecuzione del livore sociale, dell'odio convulso e di un amore inconscio per la violenza, il sopruso e l'arroganza prepotente di chi conta, che nutre il cuore della nazione.
Perchè questo è un paese nel quale vale chi conta e chi vale non conta nulla.
Questa è l'Italia reale, che ci piaccia o non ci piaccia.
Alla maggioranza della popolazione piace così.
Porsi quindi la vera domanda negata e autocensurata:
"Come mai gli italiani nel 2019 amano il fascismo?"
O si cambia questa idea di mondo, fornendo risposte sensate e certe, oppure si chiacchiera alla meno peggio, fingendo una indignazione da campagna elettorale che altro non è che la consueta ipocrisia italiana sempre utile per ottenere un consenso immediato.
Sperando nel proprio intimo che il fascismo esistenziale interiore regga l'urto dei tempi: conviene.
L'Italia è diventato un paese dove la convenienza ha sostituito la convinzione.
Diventando la nuova convenzione della norma attuale.



venerdì 3 maggio 2019

Fabrizio Coscia ci mostra la via. E ci regala la password d'accesso verso un'estetica dell'erotismo liberatoria.

"Esilio, è anche vedersi esiliati dal proprio immaginario, è anche perdere un linguaggio"
                                                                                              Roland Barthes


di Sergio Di Cori Modigliani


Ogni libro è la continuazione di un altro libro, anche se l'autore, magari, neppure lo sa.
Intendiamoci, non è tenuto a saperlo, potrebbe anche trattarsi di un testo redatto 423 anni prima, e che l'autore ignorava fosse stato mai scritto.
Il grande Dostoevskij sosteneva (agli albori della sua carriera, dopo l'inatteso successo giovanile) di essere figlio di Eugene Sue, autore di un polpettone d'appendice, I misteri di Parigi, uscito a puntate sul Jounal des debats a Parigi, negli anni'40 del XIX secolo. I meandri della sua mente, per motivi francamente irrilevanti, avevano captato in quell'oscuro scrittore commerciale l'asse portante del clima della sua epoca, e come un poderoso fertilizzante aveva prodotto uno strabiliante frutto immortale.
Si è quindi, sempre, in quanto autori, figli di qualcuno, anche quando si è bastardi.
Stessa cosa per gli artisti visivi.
Lo sapeva molto bene Andy Warhol, un genio potenziale, che a metà degli anni'50 lavorava a Los Angeles come cartellonista per guadagnarsi da vivere: confessò a un suo intimo amico che non aveva nothing to look at and lo learn from (trad.it: "niente da guardare e da cui imparare"). E così, curioso e disperato come ogni artista è giusto che sia, si era licenziato, aveva preso tutti i suoi risparmi e si era fatto diecimila chilometri per andare a visitare la Galleria degli Uffizi a Firenze. Lì aveva trascorso ventuno giorni, andando ogni pomeriggio a osservare per ore le stanze del Botticelli. Quando decise di ritornare in patria, si trasferì direttamente a Manhattan in cerca di fortuna, ed è proprio in quel periodo che produce un centinaio di schizzi realistici che ritraggono Marilyn Monroe che esce nuda dalla schiuma dell'Oceano Pacifico. La nascita di Venere lo ossessiona e lui la vuole copiare di sana a pianta per celebrare la nascita di quello che lui sentiva avrebbe dovuto essere il rinascimento americano negli anni' 60, necessario strumento per andare oltre l'asfissiante maccartismo di quei tempi bui. Contrariamente alla vulgata corrente, che (in Italia) ha voluto vedere nel padre della pop art una specie di briccone ignorante con il cappello da cowboy, Andy Warhol era un artista di vasta cultura classica, che andava in giro per Manhattan portandosi in tasca delle cartoline dei quadri del Botticelli, in attesa di raccogliere gli insegnamenti del maestro fiorentino per adattarli ai suoi tempi. E' cosa nota che l'artista americano è considerato (anche se non da noi) il più colto conoscitore dell'arte italiana che l'America abbia mai avuto.
Anche Vincent Van Gogh aveva una sua personale ossessione che lo aiutava a lenire la sua sofferenza animica: le stampe giapponesi. L'arte dei suoi contemporanei ammetteva di non capirla nè lo interessava. Cercava qualcosa, ma non sapeva cosa, nè dove andare a cercarla. Era rimasto fulminato da due o tre immagini che aveva scovato per caso, mentre aiutava suo fratello Theo (reduce da un viaggio a Tokyo) a disfare le valigie; erano disegni stampati su un foglio di carta usato per avvolgere un paio di scarpe. Da lì inizia la sua ossessione per le stampe giapponesi e obbliga suo fratello a ordinargliele per posta. Quando arriva il primo pacco dal Giappone, prende le sue stampe e se le porta a letto, nascondendole sotto al cuscino. Trascorre lunghe settimane in preda a curiose allucinazioni prodotte dalla vista di quelle immagini. Erano gli antenati dei manga, disegnati con un tratto circolare (che in Europa non esisteva) e che Van Gogh trovò irresistibili. Non è certo un caso che il più costoso e famoso tra i suoi dipinti (I girasoli) da 40 anni si trova in Giappone dove è sempre stato sulla parete dell'ufficio privato del presidente della Mitsubishi Bank. Quando è morto, lo ha lasciato in eredità a una fondazione dell'imperatore che ha dato vita al Seiji Togo Memorial Sompo Japan Nipponkoa Museum of Art di Tokyo. In Giappone, a differenza che in Europa, Van Gogh è considerato il primo artista occidentale ad aver introdotto lo stile e il clima nipponico nel nostro continente. 
Quando un giapponese vede i suoi quadri pensa a casa sua.

Stessa cosa avviene con i libri, siano essi romanzi o saggi.
Alcuni offrono una sensazione e una sensività familiare calda, e regalano un ritrovato tepore amicale e parentale. Purtroppo mi capita di raro con gli autori italiani, categoria quasi inesistente ormai, soppiantati da gente che scrive, che è tutto un altro dire.
L'ultima pescata, avvenuta una ventina di giorni fa, mi ha fatto un immenso regalo. 

Si tratta di un autentico gioiello.
Il suo nome è "I sentieri delle ninfe" sottotitolo: "nei dintorni del discorso amoroso".
L'autore è Fabrizio Coscia.
L'editore è Exòrma di Roma.
Il prezzo è 14,90 euro.

A questo punto, di solito, è d'obbligo specificare subito la denotazione di appartenenza del libro: saggio, romanzo, pamphlet, memoriale, ecc. E' una direttiva perentoria degli editori.
E qui abbiamo subito la prima squisita sorpresa (lo si capisce già a pagina 3).
Siamo in presenza della perfetta esecuzione di una commistione di generi, che impone immantinente nel lettore una attività creativa soggettiva, tale da spingerlo verso l'immersione nel territorio liquido dei libri veri, ovverossia quei rari testi che dovrebbero essere definiti come una carta geografica dell'esistenzialità, una mappatura necessaria (nonchè imprenscindibile) per comprendere che si tratta di un viaggio, di un percorso, di una passeggiata colta nei meandri della sensualità letteraria.
Come dire: si va da qualche parte.
E' dotato anche di una sua poderosa magia originale, ragion per cui, se lo si legge alle ore 15 senza aver preso ancora il caffè del primo pomeriggio, si può pensare di star leggendo l'interpretazione di un critico d'arte, ma se si rileggono le stesse identiche pagine alle ore 23, magari dopo un'ottima cena e un'inattesa sorpresa di amorosi sensi soddisfatti, allora si pensa di star leggendo un sensuale romanzo di stampo sudamericano, forse un parente del Vargas Llosas de la ciudad y los perros (ciascun libro ha il diritto di di avere i parenti che gli va di avere) per poi accorgersi la mattina dopo alle 11 -nel riprendere le stesse identiche pagine- che si tratta invece di un pamphlet politico, decisamente un baedeker ispirato dal primo Wilhelm Reich su come educare se stessi per contrastare il fascismo oggi.
Nella dichiarazione di paternità familiare (confessata dall'autore nel sottotitolo) che annuncia di voler raccogliere l'eredità di quell'epico frammento di un discorso amoroso di Roland Barthes, c'è una proposta per i nostri tempi, robusta, e finalmente utopistica: riattivare le fila del nostro immaginario collettivo erotico, avendo identificato la mostruosa decadenza dei nostri tempi come un effetto della incapacità di saper leggere la realtà della nostra vita -e quindi gustare, godere, sorprendersi, fantasticare- perchè si vive immersi in una realtà sempre più sessuofoba dove l'idea di base della pornografia ha preso il sopravvento e  l'egemonia sull'erotismo e quindi sull'amore, cercando di eliminarli. 
Non a caso siamo quotidianamente pregni di odio convulso contro qualcuno.
Nel presentare la terza edizione del suo "la rivoluzione sessuale", nel 1935, a Vienna, poco prima di scappare via, il biologo-psichiatra Wilhelm Reich aveva definito lo stato dell'arte in quello specifico momento storico come un teatro in cui "il fascismo e il nazismo, che stanno per distruggere l'Europa, sono il frutto di una pianificata organizzazione strategica della repressione sessuale che allontana dall'erotismo e dalla ricerca dell'espressione della libertà dei sensi per offrire un panorama di odio e di violenza.....ci attendono tempi bui in cui la libertà di stupro e di accanimento fisico diventeranno norma consuetudinaria ai danni delle femmine, inevitabile esplosione dell'impotenza maschile generata dalla produzione di odio, da cui l'innamoramento per le armi piuttosto che per le modalità di seduzione".

In questo senso, il libro di Coscia, può essere letto anche come un pamphlet politico, un baedeker pedagogico per combattere la parte più pericolosa del fascismo in agguato oggi: quella dentro di noi. 
Perfettamente in linea con i suoi parenti austriaci (Reich) e francesi (Barthes) l'talianissimo Coscia legge per noi la Storia dell'Arte come la risoluzione di un enigma antico che ruota tutto intorno alla figura della imago, l'oggetto carnale della passione dell'artista.
Per aiutarci a penetrare nel discorso amoroso, l'autore usa come strumento di viatico conoscitivo l'idea delle "ninfe", entità semidivine, la cui caratteristica naturale consiste nel volersi sempre sottrarre ma contemporaneamente attrarre, diventando quindi il parametro sentimentale di un'ossessione della nostalgia, proprio perchè è giocata sull'assenza. Non soltanto riesce a non essere mai noioso o pomposo nella sua dotta esamina, tutt'altro. Ci fa vivere sulla nostra pelle (tanto per fare un esempio) l'ansia del pittore francese Pierre Bonnard per la sua compagna-modella, la donna più dipinta nella storia dell'arte, e noi ne seguiamo le tracce quasi si trattasse di un libro giallo, ma sul più bello, la storia vira e sfonda da un'altra parte fantasmagorica, finendo addirittura per diventare narrativa personale e sfondando nell'auto-biografico. Ma non si tratta di un volo pindarico, nè di un trucco letterario, bensì una necessità stilistica che l'autore firma con la sua propria carne e il suo proprio sangue, mostrandoci addirittura in maniera sfacciata la fotografia delle gambe di colei che siamo autorizzati a pensare si tratti di una certa Linda, essendo stato il libro dedicato a lei in quanto ninfa compagna musa amica.
E' anche una storia d'amore, quindi.
Forse, chi lo sa, è la storia d'amore dell'autore, perchè no?
E quando scatta nel lettore l'inevitabile meccanismo del curioso voyeur, il libro vira di nuovo e finiamo nella camera da pranzo della Lolita di Nabokov, la più proverbiale tra le ninfe del nostro tempo, ma non c'è tempo per accomodarsi a occhieggiare le sue moine perchè il viaggio ci porta invece dalle parti della eterea Laura del Petrarca e le immagini si susseguono vorticose e quando pensiamo di aver capito che cosa stia accadendo, siamo finiti dentro "Solaris" il celebre film di fantascienza russo e altre immagini (questa volta cinematografiche) si aggiungono senza mai confonderci. Perchè esse sono come un solvente, necessario per diluire la tela del nostro immaginario.
Dice, infatti, l'autore, verso il finale (pagina 155) per chiarire apertamente che cosa stia facendo: 
"Ancora un'altra foto (perchè è proprio di ciò che tratta questo libro, ovvero delle immagini e di che cosa si afferra, si percepisce, si scopre davanti alle immagini; che cosa si affronta e si rischia quando le guardiamo)....." 
e poco oltre....."chi si avventura nei dintorni del discorso amoroso sempre si espone a perdere una rotta. Lo fa, cioè, con la consapevolezza di potersi smarrire, perchè, in un certo senso, è quello il vero obiettivo dell'intrapresa del viaggio. Nella parola "discorso" è implicito il senso del movimento, del passare da un luogo all'altro; ma vi è anche quello dello "scorrere", del fluire. Qualcosa che ci riconduce, ancora una volta, alla natura liquida che hanno in comune la scrittura e le Ninfe, come se non si potesse scrivere d'altro se non d'amore".

Un bellissimo viaggio, questo libro, che consiglio a tutti.
Dotato di leggerezza calviniana e di corroborante utopia sentimentale.
Un prodotto italiano, anzi, decisamente partenopeo. Un po' come le porcellane di Capodimonte. Due sono gli echi di memoria che mi ha ispirato, uno di vita vera vissuta e l'altro mediato dalla tivvù perchè si trattava di una intervista che ho avuto la fortuna di vedere in diretta quando ancora vivevo e lavoravo in California. Accadde circa 25 anni fa, quando (già molto malato) Federico Fellini venne a Los Angeles a ritirare l'oscar alla carriera. Rilasciò al Larry King show una lunghissima intervista di un'ora e mezza, mai vista in Italia. Fu uno dei rari momenti in cui, all'estero, mi sono sentito orgoglioso di essere italiano. Fellini fu superbo. Alla fine, in chiusura, Larry King gli chiese: "In conclusione, se ci riesce a farlo con una frase perchè il tempo è scaduto, mi potrebbe dare la sua definizione di erotismo? Qual è, per lei, la punta massima dell'erotismo?". Fellini non ci pensò neppure un attimo. Rispose d'istinto: "Non ho alcun dubbio al riguardo. Il massimo, consiste nell'andare a un appuntamento con una nuova amante ardentemente desiderata, sperando proprio che lei non arrivi mai".
L'altro memento riguarda la mia interpretazione de "I sentieri delle ninfe" che mi ha ricordato i tempi, 40 anni fa, quando lavoravo come critico teatrale al corriere della sera e avevo incontrato uno dei più grande teatranti d'Italia, un autore e interprete meraviglioso che io avevo sostenuto e spinto considerandolo in Italia, nel 1977, il numero 1: Leo De Berardinis. Insieme alla sua compagna di vita e di palcoscenico, Perla Peragallo, era riuscito in una impresa a dir poco impossibile, oltre che impensabile: aveva costruito uno spettacolo sintetizzando in una armoniosa unità Eduardo De Filippo e Samuel Beckett, in una edizione epica per il teatro italiano.
Questo libro mi ha regalato quel particolare sapore partenopeo, l'imbattibile capacità della cultura napoletana di saper sintetizzare generi apparentemente incompatibili producendo un risultato originale, come aveva fatto in musica, ai suoi tempi, Pino Daniele.
A dimostrazione dell'invidiabile buon stato di salute della Napoli creativa che pensa, sempre in grado da secoli di sorprenderci.
Lo consiglio ai giovani millennials curiosi, amanti dell'arte e della vita.
E se qualcuno tra di loro, sempre così sintetici, mi incitasse a definirlo con un'unica frase, direi: finalmente un libro intellettualmente arrapante.
Cibo gourmet per i palati che verranno.
Scritto proprio comme il faut.

mercoledì 1 maggio 2019

Lavoro? Rende felici? Andrew Taggart ha qualcosa da dirci al riguardo.






di Sergio Di Cori Modigliani

Chi è Andrew Taggart?
E che cosa vuole da noi?

E' un filosofo pragmatico e un imprenditore. Insegna al Banff Centre di Montreal, Canada e all'università di Kaospilot, in Danimarca. I suoi studenti sono, per lo più "leaders d'impresa creativi" e, soprattutto, quelli che lui definisce "imprenditori sociali", ovvero una figura di industriale che considera il capitale umano e la relazionalità tra dirigenti e dipendenti la base strutturale per l'ottimizzazione del rapporto lavorativo. 
Si è occupato a lungo del Giappone, la grande società opulenta dell'Asia, la prima nazione nel pianeta ad avere eliminato (ma per davvero) sia la povertà che la disoccupazione. Nell'impero del Sol Levante, la disoccupazione nel 2018 ha raggiunto la cifra del 2,5%. La maggior parte delle aziende nipponiche devono rivolgersi alle nazioni vicine più povere (Laos, Vietnam, Cambogia) per assumere personale che verrà formato in Giappone. 
Il poblema principale, quindi, non è il lavoro, bensì un altro: nel 2012 si tocca il picco dei suicidi, soprattutto tra i giovani: 34.560. La media di 100 giovani al giorno che si uccidono senza alcuna motivazione spiegabile. La depressione si sta diffondendo a livello di massa, è crollata la libido tra i giovani dai 15 ai 35 anni, mentre è in grande ripresa (soprattutto tra le donne) la curiosità e l'attività sessuale tra persone oltre i 65 anni già in pensione. Oggi, per quanto riguarda i suicidi va un po' meglio, si sono ridotti a soli 24.000 all'anno. In compenso, però, sono aumentati di molto -e in misura esponenziale- i casi di morte "per eccesso di lavoro" di giovani e giovanissimi.
Questi dati statistici impongono una seria e acuta riflessione.
Nel giorno in cui si celebra il 1 maggio, la festa del lavoro e dei lavoratori, in una nazione come la nostra in cui il lavoro viene considerato ancora come un'utopia da raggiungere, ho pensato che potesse essere utile conoscere il pensiero di questo squisito filosofo dei nostri tempi, che parla dell'attualità e da noi è pressochè sconosciuto.

Buona festa del lavoro a tutti.



Sostiene Andre Taggart:
"Immaginatevi un mondo in cui il lavoro abbia preso il sopravvento su tutto. Le nostre esistenze graviterebbero attorno a questo nuovo centro, tutto il resto diventerebbe secondario. In modo quasi impercettibile, qualsiasi altra cosa – i giochi a cui giocavamo, le canzoni finora cantate, le passioni realizzate, le feste celebrate – finirebbe per assomigliare e infine diventare lavoro. Arriveremmo a un momento, anch’esso ampiamente ignorato, in cui le svariate realtà, che esistevano prima che il lavoro monopolizzasse le nostre vite, svanirebbero del tutto dal panorama culturale, precipitando nell’oblio.

Cosa penserebbe la gente in questo mondo di solo lavoro? Cosa direbbe? Come si comporterebbe? Ovunque si girasse, vedrebbe pre-impiego, impiego, post-impiego, sotto-impiego, e senza impiego – nessuno rimarrebbe fuori dalla categorizzazione. Ovunque si loderebbe e si adorerebbe il lavoro, ci si augurerebbe che la giornata fosse il più produttiva possibile, si aprirebbero gli occhi per svolgere compiti ben precisi, chiudendoli solo per andare a dormire. Ovunque una solida etica lavorativa diventerebbe il mezzo per eccellenza con cui raggiungere il successo, mentre la pigrizia diventerebbe il peccato più grave di tutti. Tra produttori di contenuti, divulgatori di sapere, architetti e direttori di nuovi filiali si sentirebbero chiacchiere incessanti su workflow, grafici, piani e benchmark, potenziamento, monetizzazione e crescita.


In un mondo simile, il semplice atto di mangiare, il sesso o lo sport, la meditazione, i viaggi da pendolare – tutto monitorato e ottimizzato con attenzione e costanza – sarebbero funzionali a un buono stato fisico, che, a sua volta, servirebbe a renderci sempre più produttivi. Nessuno berrebbe troppo, al massimo qualcuno userebbe il microdosaggio di sostanze psichedeliche per ottimizzare la propria performance, e l’aspettativa di vita sarebbe indefinitamente lunga. Si sentirebbe parlare occasionalmente di una morte o di un suicidio per il troppo lavoro, ma simili sussurri, dolci e indistinti, sarebbero giustamente considerati come semplice manifestazione dello spirito del lavoro totale, per alcuni addirittura come modi lodevoli di portare il lavoro ai suoi naturali limiti, compiendo il massimo sacrificio. In tutti gli angoli del mondo, quindi, la gente agirebbe in modo da soddisfare il desiderio più profondo del lavoro totale: manifestarsi in tutta la sua completezza.
Il mondo così rappresentato, però, non è il soggetto di un romanzo di fantascienza: è chiaramente molto simile a quello in cui viviamo.Il “lavoro totale”, termine coniato subito dopo la seconda guerra mondiale dal filosofo tedesco Josef Pieper nel suo libro Leisure: The Basis of Culture (1948), è il processo attraverso il quale gli esseri umani vengono trasformati in puri e semplici lavoratori. In questo modo, il lavoro diventa in ultima istanza totale quando diventa il centro attorno cui ruota la vita umana; quando tutto viene messo al suo servizio; quando il piacere, le festività e i momenti di gioco finiscono per assomigliare e infine diventare lavoro; quando non resta altra dimensione esistenziale che non sia quella del lavoro; quando l’uomo crede davvero che siamo nati semplicemente per lavorare; e quando altri modi di vivere, esistenti prima che il lavoro totale prendesse il sopravvento, spariscono del tutto dalla memoria culturale.

Josef Pieper
Siamo sulla soglia di realizzazione del lavoro totale. Ogni giorno parlo con persone per le quali il lavoro ha finito col controllare la loro esistenza, trasformando il mondo in un incarico, i loro pensieri in un silenzioso fardello. Perché, a differenza di una persona devota a una vita di contemplazione, ciascun lavoratore totale ritiene di essere alla base di un mondo costruito come una serie infinita di incarichi che si estendono in un futuro indefinito. A seguito di questa taskification (un termine che potremmo tradurre con “cottimizzazione”) del mondo, vede il tempo come una risorsa scarsa da utilizzare con parsimonia, ed è perennemente preoccupato da ciò che andrebbe fatto, spesso in ansia per la cosa giusta da fare in un determinato momento e angosciato dall’idea che ci sia sempre qualcosa in più da fare. Il punto cruciale è che l’attitudine del lavoratore totale non è compresa al meglio nei casi di lavoro eccessivo, ma piuttosto nel modo in cui tutti i giorni egli è totalmente focalizzato sui compiti che vanno portati a termine, cercando sempre di migliorare la produttività e l’efficienza. In che modo? Attraverso una pianificazione oculata, una scala di priorità razionale e una puntuale delegazione. Il lavoratore totale, in sintesi, è una figura di attività incessante, tesa, indaffarata: una figura il cui principale male è una profonda irrequietezza esistenziale, ossessionata dalla produzione dell’utile.Ciò che più inquieta nella prospettiva del lavoro totale non è soltanto la sofferenza inutile che causa, ma anche il fatto che sradica le forme di contemplazione spensierata che entrano in gioco nel momento in cui ci si pongono, si ponderano e viene trovata una risposta alle principali domande dell’esistenza. Per capire in che modo generi sofferenza non necessaria, basta pensare all’illuminante fenomenologia del lavoro totale nella consapevolezza quotidiana di due interlocutori immaginari. Tanto per cominciare, c’è una tensione costante, una pressione generale associata all’idea che ci sia qualcosa che ha bisogno di essere portato a termine, sempre qualcosa che dovrei fare in questo momento. Come dice il secondo interlocutore, c’è allo stesso tempo anche la seguente domanda che incombe: “È questo il modo migliore in cui impiegare il mio tempo?” Il Tempo – un nemico, un bene scarso – rivela i poteri limitati di chi agisce, la sofferenza per sfiancanti e irresponsabili costi-opportunità.




Insieme, i pensieri del “non ancora, ma deve essere fatto”, del “dovrebbe già essere stato fatto”, del “potrei fare qualcosa di più produttivo” e la “prossima cosa da fare”, sempre in agguato, cospirano come nemici per tormentare l’individuo che, di default, si ritrova sempre indietro in un adesso che non sarà mai completo. Inoltre, ci si sente in colpa non appena non si è il più produttivi possibile. Il senso di colpa, in questo caso, è diretta conseguenza del non essere riusciti a stare al passo o a gestire al proprio meglio le cose, travolti dagli incarichi per una presunta negligenza o un ozio relativo. Infine, il costante, assillante impulso a portare al termine i propri compiti implica che è empiricamente impossibile, proprio per questo modo di esistere, fare un’esperienza completa della vita. “La mia esistenza”, conclude il primo uomo del dialogo, “è un onere”, il che significa un ciclo senza fine di insoddisfazione.La condizione di fardello del lavoro totale, quindi, è definita da un’attività incessante e irrequieta, dall’ansia per il futuro, dalla sensazione di essere sopraffatti dalla vita, pensieri opprimenti sulle opportunità perse, e il senso di colpa legato alla propria pigrizia. Da qui, la taskification del mondo è legata al concetto di lavoro totale come fardello. Infine, il lavoro totale inevitabilmente causa dukkha, termine buddhista per l’insoddisfazione che nasce da una vita piena di sofferenza.
Oltre a causare dukkha, il lavoro totale impedisce l’accesso a livelli più alti di realtà. Perché ciò che si perde nel mondo del lavoro totale è la rivelazione artistica del bello, lo sguardo della religione verso l’eterno, la pura gioia dell’amore, il senso di meraviglia dato dalla filosofia. Tutto ciò richiede silenzio, calma e la completa volontà di imparare. Se il significato – inteso come interazione tra il finito e l’infinito – è ciò che trascende, nel qui e nell’ora, l’insieme delle nostre preoccupazioni e dei nostri incarichi mondani, permettendoci di avere esperienza diretta di ciò che è più grande di noi, allora ciò che si perde in un mondo di lavoro totale è la possibilità stessa di sperimentare un significato. Ciò che si perde è la ricerca del perché siamo qui.

Questo articolo è stato tradotto da Aeon e pubblicato sul sito The Vision il 7 marzo 2018


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