lunedì 30 settembre 2013

Magari ci fosse la crisi! Come ti organizzo la Grande Menzogna.


di Sergio Di Cori Modigliani

Non c'è nessuna crisi, nè all'orizzonte nè al presente.
Dice la nostra brava wikipedia: "crisi (dal greco κρίσις, decisione) è un cambiamento traumatico o stressante per un individuo, oppure una situazione sociale instabile e pericolosa".
Quindi, in Italia, non c'è alcuna crisi, se non per i singoli individui.

Lo spiega molto bene, con micidiale sintesi, il Nobel per l'economia Paul Krugman, in un suo recente articolo apparso sul New York Times il 17 settembre 2013, che qui trovate per intero, nel caso vi interessi: http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/09/17/this-is-not-a-crisis/ dove parla degli Usa, si intende.

Vale ancora di più per l'Italia. 

La crisi c'è in Grecia, in Portogallo, in Spagna, in Irlanda.
Sono tutte nazioni della Unione Europea e sono tutte nazioni che hanno l'euro come moneta.
Sono tutte nazioni in crisi.
In Portogallo sono almeno tre mesi che manifestano ogni santo giorno per le strade e la situazione sociale è davvero instabile e pericolosa. Così come lo è in Grecia, travolta dall'austerità ma anche dagli scioperi in massa, e dal rigurgito dell'inevitabile fascismo violento dell'estrema destra. A tal punto da mettere il governo greco nelle condizioni di applicare delle "immediate misure di emergenza per l'ordine pubblico" dando precise e specifiche disposizioni per far arrestare ben quattro deputati eletti in parlamento, di cui due in diretta televisiva mentre stavano per parlare, portati via in manette. Le loro leggi, in materia di incolumità parlamentare e salvaguardia dei diritti per gli eletti, sono uguali alle nostre, ma -per l'appunto, lì c'è la crisi- sono state fatte valere misure immediate eccezionali come conseguenza di "uno stato di emergenza nazionale" per evitare il rischio di una guerra civile annunciata. In Irlanda il governo è riunito, praticamente in seduta permanente, nell'estremo tentativo di trovare una rapida soluzione ai problemi economici della nazione, dato che negli ultimi due mesi sono ricomparsi nuclei di nuova generazione del terrorismo irlandese e la gente è ritornata in piazza a manifestare. In Spagna, il movimento degli indignados ha obbligato a furor di popolo le centrali sindacali della Ugt a fare delle pressioni talmente massicce sul governo da costringere ob torto collo Rajoy a far varare delle "leggi speciali ad hoc" che hanno imposto alle banche locali, quelle che avevano usufruito dei fondi europei, di mettere "immediatamente" a disposizione delle imprese (e delle start up di giovani) risorse sufficienti a creare subito lavoro e occupazione. Il governo spagnolo si è mosso repentinamente ad agosto per evitare smottamenti e l'esplosione sociale del malcontento popolare.

In Italia non esiste alcuna crisi.
Forse non c'è neppure la crisi di governo.
C'è una crisi di nervi di singole persone, come ben specifica wikipedia, il che è un'altra cosa.
Ma al governo non interessa.

Non c'è nessuna crisi nell'industria, nè tantomeno c'è una crisi nel mondo imprenditoriale: è una balla.
Se ci fosse la crisi, questa mattina alle ore 9, all'apertura delle borse, il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, importante industriale, avrebbe convocato una conferenza stampa e, rinunciando alle sue consuete irritanti melensaggini, avrebbe fatto la seguente dichiarazione: "Il 20 marzo del 2013, in conseguenza di un precedente colloquio avuto con me il 10 marzo, l'allora presidente del consiglio uscente, prof. Mario Monti, ancora in carica per espletare le funzioni amministrative correnti, mi aveva dato la sua parola d'onore, nonchè ampie rassicurazioni, che di lì a brevissimo tempo, non oltre le due settimane, avrebbe messo a disposizione almeno 40 miliardi di euro per pagare i debiti della Pubblica Amministrazione ai creditori, cioè i titolari delle piccole e medie imprese in difficoltà. La cifra corrispondeva al 30% della somma totale, pari a 120 miliardi di euro. Ma era qualcosa di sostanziale, e ci faceva ben sperare. Il 6 aprile, il prof. Mario Monti, dichiarò di averle messe a disposizione. Non è accaduto nulla. Il 30 aprile del 2013, subito dopo il ritorno da Bruxelles, i neo eletti Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni mi diedero ampie rassicurazioni che avrebbero immediatamente messo a disposizione 40 miliardi di euro per le imprese che vantavano crediti ed erano in difficoltà. Il Ministro del Tesoro, dieci giorni dopo, mi convocò e mi spiegò che -data la situazione politica grave che imponeva l'abolizione delle entrate dell'Imu- quella cifra sarebbe stata versata in due tranches, una immediata dell'ordine di 20 miliardi di euro entro il 24 giugno del 2013, l'altra, per altri 20 miliardi di euro, entro e non oltre il 30 settembre 2013, avviando una specifica commissione di verifica e controllo che avrebbe lavorato dal giorno dopo per stabilire la correttezza identificativa delle aziende creditrici, evitando quindi sperperi ed errori. In data 7 settembre 2013, il presidente del consiglio mi comunicò che la commissione non era stata in grado di svolgere la propria mansione perchè travolta dalla "questione Berlusconi" e che comunque avrebbero versato 20 miliardi entro la fine del 2013 e altri 20 spalmandoli entro il 2014. Data la situazione attuale, non godendo l'attuale governo in carica di nessuna forma nè di credibilità nè di attendibilità, poichè i patti sanciti sono stati violati, e poichè è mio dovere, in quanto rappresentante dell'industria che lavora e produce, salvaguardare e difendere uno stato di necessità, dichiaro aperta una formale protesta attiva da parte di tutte le aziende iscritte a Confindustria, che, da domani, o non apriranno più le proprie fabbriche oppure non verseranno più l'Iva".
Questa è una crisi.
Oppure, altra variante: i più importanti industriali iscritti in Confindustria licenziano in tronco Giorgio Squinzi perchè inadatto, inefficiente e inefficace e lo sostituiscono con un altro che eleggono in assemblea plenaria in diretta televisiva da Viale dell'Agricoltura a Roma.
Così il paese capisce che c'è una crisi economica e sociale in atto.
Macchè.
Quindi, vuol dire che se lo possono permettere. Perchè non c'è la crisi.
Lo stesso identico parametro va applicato alla Camusso, al Bonanni, all'Angeletti, in quanto segretari delle tre più importanti confederazioni sindacali, la GIL, la CISl, la UIL, esigendo l'immediato varo del cosiddetto "piano lavoro per la crescita e l'occupazione" presentato in pompa magna in data 20 maggio 2013 con applausi da parte dei sindacati che allora dissero "siamo sulla buona strada". 
Anche in questo caso si deduce che i lavoratori sindacalizzati non sono in crisi e non esiste una crisi economica del lavoro. Altrimenti avrebbero fatto come gli spagnoli, i greci, gli irlandesi e gli statunitensi. Oppure, avrebbero licenziato la Camusso, l'Angeletti e il Bonanni insieme allo Squinzi.

Non c'è neppure una crisi finanziaria.
Il Ministero del Tesoro vantava un credito di 98 miliardi di euro dai concessionari del gioco d'azzardo. Ha accettato di ridurlo a 1 miliardo e 600 milioni. Il 2 agosto 2013, il Ministro del Tesoro Saccomanni ha annunciato di aver ridotto quella cifra a 600 milioni. Quindi, vuol dire che lo Stato se lo può permettere.
Visto che può permetterselo, vuol dire che non c'è crisi.

La ragioneria di Stato ha dato specifiche disposizioni per spostare alle regioni una cifra che si aggira intorno a 200 milioni di euro supplementari, da attribuire a specifiche fondazioni culturali, come ad esempio quella dell'on. Renato Brunetta al quale la Regione Campania ha elargito 2,5 milioni, l'Università privata Luspio presieduta da Quagliarello, la fondazione di Amato, quella di D'Alema, la fondazione Mondadori, quella di Alfano, ecc.,ecc. Visto che lo Stato se lo può permettere, vuol dire che non c'è la crisi.

Non c'è neppure la crisi delle sovvenzioni culturali, visto che dieci giorni fa il governo ha emanato una misura "immediata di emergenza" per mettere a disposizione da subito 5 milioni di euro per il MAXXI, museo romano, immettendo anche la spesa dei dirigenti. Per non parlare di altri 24 milioni di euro che sono stati messi a disposizione per un numero di cooperative teatrali e culturali pari a circa 2,500 e spero che almeno se li siano meritati. Quindi, siccome lo Stato può permetterselo, vuol dire che non c'è la crisi. 

L'attuale governo, dopo aver analizzato la spending review, ha deciso di non toccare neppure uno dei 25,256 enti e società inutili che complessivamente danno lavoro a circa 275.000 persone che non fanno nulla perchè non c'è nulla da fare nella loro ragione sociale, e che costano al contribuente circa 10 miliardi di euro all'anno. Tra questi, per dirne solo due, c'è la società che deve programmare lo studio per costruire il ponte di Messina e quella nata per promuovere la città di Roma come sede olimpionica nel 2020, mantenuta nonostante il ritiro della candidatura voluto da Mario Monti (per un guizzo di lucidità) e l'attribuzione della sede sia stata già decisa lo scorso 30 agosto a Buenos Aires: ha vinto Tokyo. L'ente che promuove questo obiettivo surreale seguita a essere operativo e si pensa ad una candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Il che vuol dire che se lo Stato italiano se lo può permettere, non c'è nessuna crisi.

Due anni fa, il primo ministro canadese telefonò di persona a Obama e gli disse che avevano annullato tutte le commesse per gli F35 "non ce lo possiamo permettere, è una questione di priorità del budget". Fu diplomatico ed elegante, ma la rete -si sa- è canaglia. L'anno scorso c'è stato un piccolo incidente diplomatico perchè il premier canadese, a una festa ufficiale, si era fatto sfuggire che quegli aerei sono "delle vere carabattole che neppure funzionano bene, hanno fallito tutti i test". Il nostro governo, invece, ha stanziato la cifra di svariati miliardi di euro per acquistarli. Quindi se lo può permettere, quindi non c'è crisi.

Nel maggio del 2012, Mario Monti, in qualità di premier, chiamò Bondi e gli affidò la redazione accurata della spending review. Venne effettuata presso tutti i ministeri, tranne uno, quello della Difesa. L'allora ministro in carica, ammiraglio Di Paola, spiegò a Monti che, data la delicatezza del dicastero (il nome lo giustifica, dato che si occupa di difenderci) l'analisi dei costi la voleva effettuare lui personalmente con i suoi consulenti scelti. Monti accettò. Il fatto è che quel ministro era molto particolare. Era la prima volta nella storia della Repubblica che c'era alla Difesa una persona competente  e meritevole, dato che si trattava di un generale di corpo d'armata che era stato comandante generale della Nato a Bruxelles. Aveva trascorso i precedenti 24 anni in Belgio, lavorando con inglesi, norvegesi, olandesi e tedeschi. E quindi aveva assunto una visione militare pragmatica ed efficiente. Da bravo militare diligente fece un ottimo lavoro e alla fine di ottobre lo presentò: 286 pagine fitte fitte dalle quali si evinceva che l'Italia era il secondo paese al mondo, dopo la Corea del Nord, per il numero di generali in attività e aveva il più alto numero di generali e alti ufficiali in pensione (tutte d'oro si intende)  in tutto l'occidente; nel pianeta era secondo soltanto alla Russia, la quale, se non altro, è una fortissima potenza militare e imperialista, quindi ha una giustificazione. Non solo. Il nostro bravo ministro identificò 25,680 "esuberi", ovvero personale assunto al ministero, ciascuno dei quali aveva assunto la media di 4 consulenti personali a regime completo per un totale di 104.900 persone più o meno inutili che costavano al contribuente la cifra di circa 10 miliardi di euro all'anno. Andavano licenziati tutti, e subito, secondo lui. Era anche spiritoso, il nostro generale. Disse a Monti: "In Italia abbiamo gli esodati, ebbene, vorrà dire che da domani avremo gli essoldati". Consegnò lo studio e se ne ritornò nel suo ufficio. Un mese dopo Monti gli spiegò che non si poteva toccare neppure una persona. Ma il generale era un militare e gli ordini se li faceva dare soltanto da altri militari. Inviò il plico alla commissione europea, una copia alla Troika, e infine una al comando generale operativo della Nato a Bruxelles, chiedendo ragguagli. Tutti gli diedero ragione, con applausi. Non solo. La Nato specificò che la nuova strategia militare comportava una riduzione di personale inevitabile: glielo diedero come ordine. Ritornò da Monti. Insorse un certo Ignazio la Russa, l'angelo custode di quei signori inutili, da lui assunti. Finì che cadde il governo, il nostro generale eliminato dalla scena politica, obbligato al pre-pensionamento. Si è ritirato a vita privata. Si deduce che, se lo Stato può permettersi di spendere 10 miliardi di euro all'anno per mantenere personale inutile alla Difesa allora vuol dire che la crisi non esiste.

Potrei continuare, ahinoi. 
Per parlare degli evasori, grandi e medi, i costi della politica (o meglio, dei politici) le auto blu, le guardie del corpo per mitomani dato che in Italia risultano circa 24.000 persone che ne usufruiscono, la maggior parte delle quali esseri anonimi, persone sconosciute, note soltanto ai loro parenti, ai loro cari e alle loro clientele, quindi non soggetti a nessuna forma nè di rischio nè di pericolo. Ebbene, se sommiamo l'intera spesa statale inutile arriviamo a una cifra annua complessiva intorno a svariate centinaia di miliardi di euro.
Quindi non c'è nessuna crisi economica.
E' una balla.
E' la semplice idea operativa di una classe politica dirigente che ha un gigantesco esercito: sono i 4.235.800 cittadini assunti in pianta stabile grazie alla malleveria partitica, la maggior parte dei quali senza alcun merito nè competenza tecnica specifica e adeguata, che sono disponibili a farsi scannare affinchè rimanga lo status quo e non cambi nulla. Lavorano di continuo per i partiti, anche senza saperlo. Rappresentano il 7% della popolazione italiana. Questa piccola percentuale ha sequestrato il restante 93% che lavora, paga le tasse e -quelli sì per davvero!!- vivono sulla propria pelle la crisi. E la cupola mediatica appartiene a questa categoria di affiliati per far sì che si parli di una crisi che non c'è.

Gli italiani, ormai risucchiati nel vortice, pensano che "la loro personale crisi" (che è reale) sia condivisa anche e soprattutto dal governo, dai sindacati, dalla Confindustria, dai ministri, dagli esponenti di partito. 
Non è condiviso un bel niente.
Eppure non riescono a ribellarsi.
Forse perchè, in fondo in fondo, nel proprio cuore da provinciali piccolo-borghesi, pur sapendo come stanno le cose, preferiscono darsi da fare per riuscire a entrare in quel 7% piuttosto che rialzare la schiena, recuperare una dignità nazionale civica, ma soprattutto una dignità esistenziale per non trovarsi un giorno a farsi sputare in faccia dai propri figli che diranno loro: "tu padre, tu madre, perchè non hai fatto nulla per impedire che ciò accadesse?".
Chi non si ribella, oggi, è un cattivo padre.
Chi non si ribella, oggi, è una cattiva madre.
Il primo passo consiste nella ricostruzione semantica interiore del significato di "tengo famiglia" usato ancora oggi come squallida giustificazione per poter essere corrotti, praticare l'illegalità e sostenere i criminali. 
Il nuovo "tengo famiglia" (teniamocelo pure come autentico mantra antropologico nostrano) deve partire dall'idea che proprio perchè ai nostri figli ci teniamo, abbiamo il dovere di mandare a casa l'intera classe politica dirigente e imprenditoriale, e lo dobbiamo fare quanto prima possibile, altrimenti, essendo dei parassiti, finiranno per succhiare sangue, linfa, sogni e ambizioni ai nostri figli.
Magari ci fosse la crisi!
Una vera crisi comporta cambiamenti, opportunità, risveglio, tensione.
Beninteso, con strumenti democratici.
Ma l'Italia dorme, narcotizzata.
Fate qualcosa.
Facciamo qualcosa.
Dobbiamo aprire la crisi.
Dobbiamo andare tutti in crisi.
La crisi vera.
Il vero problema del paese è esattamente l'opposto di quanto vogliono farci credere.
Facciamo scoppiare la crisi di un sistema marcio e decrepito, macabro e necrofilo, per avviare la rifondazione di un paese normale.

venerdì 27 settembre 2013

Quando gli imprenditori sognavano e creavano mercato. L'incontro storico tra Walt e Arnoldo. E la parte che ci riguarda oggi.


di Sergio Di Cori Modigliani
Una storia lunga 80 anni, che viene da molto lontano, e che oggi perdura condizionando le nostre esistenze, soprattutto la politica italiana.

Correva l'anno 1937 e, per un caso fortuito della meteorologia bislacca, quell'anno, in California, la primavera era assurdamente fredda. Per i nativi, inconcepibile.
Un giovane artista e imprenditore di Chicago, che abitava a Los Angeles, considerato da alcuni un visionario astro nascente, mentre altri invece pensavano si trattasse di un pazzo maniaco, tornava a casa alle ore 16, contrariamente alle sue abitudini, in preda all'angoscia e al turbamento.
Si chiamava Walt Disney e stava sull'orlo del fallimento.
L'impresa nella quale aveva investito tutta la sua esistenza, sia spirituale che materiale, era nei guai, strozzata dai debiti con le banche. Il suo primo lungometraggio che rivoluzionava, allora, l'inesistente tecnica dei cartoni animati, si stava rivelando molto più costoso e faticoso delle previsioni. Mentre i disegnatori erano al lavoro per completare l'opera ("Biancaneve e i sette nani") lui si era già messo al lavoro per realizzare, finalmente, la sua vera ossessione di sempre: fare un film su Pinocchio. Ma non era riuscito ad avere tutta la documentazione iconografica di cui aveva bisogno per iniziare il lavoro. Uno dei suoi assistenti, qualche settimana prima gli aveva regalato una succulenta informazione: in Italia, nel mezzo del nulla, in una casa di campagna, abitava un altro pazzo come lui, altrettanto maniaco, che possedeva un rarissimo tesoro, unico al mondo.
Proprio quello di cui lui aveva stabilito avesse bisogno.
E così gli aveva scritto una lunga lettera presentandosi, e comunicandogli la sua curiosità.
Entrambi nutrivano diverse passioni in comune, tra cui la passione per la pedagogia e gli scambi epistolari. Alla fine di un nutrito carteggio, il giovane editore italiano alle prime armi, Arnoldo Mondadori, invitò Walt Disney e sua moglie a casa sua, per mostrargli il tesoro.
Era un viaggio molto lungo e lontano, ed era stato più volte rimandato, ma date le circostanze, l'americano quel giorno decise che era meglio per lui andarci.
Entrò a casa sorprendendo sua moglie, Lylianne, una brillante disegnatrice di moda, che  aveva convinto ad associarsi a lui nell'impresa dei cartoni animati. Da quando si erano sposati (sei anni prima) non avevano mai preso neppure un giorno di ferie e il viaggio di nozze era stato rimandato perchè durante i giorni del matrimonio lui doveva seguire il lancio dei suoi primi cortometraggi, rivelatisi dei totali fallimenti sia di pubblico che di critica.
Non era mai accaduto che tornasse a casa a quell'ora e sua moglie si preoccupò.
Walt Disney le disse: "Ho due notizie per te, una è bellissima, l'altra è pessima". Lei non si scompose più di tanto. Come lui stesso ha raccontato nella sua biografia, gli rispose: "Se quella pessima riguarda una questione di salute, dimmi subito di che cosa si tratta. Vale anche se riguarda il fatto che da domattina non abbiamo neppure i soldi per comprarci un litro di latte. Altrimenti, voglio sapere soltanto quella buona". E così, Walt Disney non le raccontò del suo imminente fallimento e le comunicò che di lì a pochi giorni se ne andavano, finalmente, in viaggio di nozze in Italia.
"Dove?"
"A Ostiglia"
"E dov'è?"
"Vicino a una cittadina che si chiama Mantova"
"Sarebbe?!"
"Non ne ho la minima idea, so soltanto che sta in mezzo alla campagna, sembra vicino a un fiume"
"A fare che?"
"A cambiare vita".
E così, dopo venti giorni si imbarcavano a New York sul piroscafo Regina Elena per andare a incontrare un tipografo che aveva aperto una piccola casa editrice di nicchia e che sosteneva quanto fosse importante investire nella educazione giovanile.
Arrivarono all'appuntamento con un giorno di ritardo, perchè si persero nella pianura padana.
Anche Arnoldo Mondadori era molto eccitato all'idea di quell'incontro. Anche lui aveva i suoi problemi.
Abile imprenditore italiano, spregiudicato e intelligente, aveva aderito al fascismo fin da subito, mettendosi a disposizione per stampare nella sua tipografia il materiale propagandistico del Duce, e con i proventi (e le relazioni ottime che aveva stabilito con Starace, il segretario del partito fascista) aveva fondato nel 1933 la sua casa editrice, che avrebbe dovuto diffondere la grande cultura italiana nel mondo. Ma subito dopo iniziarono i guai, perchè Mondadori aveva inventato la collezione Medusa, per un ristretto pubblico di lettori colti, traducendo i più importanti scrittori stranieri, soprattutto quelli inglesi e americani, odiati dal regime. Ed era entrato in rotta di collisione con il potere politico di Roma.
L'incontro tra Walt Disney e Arnoldo Mondadori invece che una visita di cortesia durata poche ore, si trasformò in una sosta durata quattro giorni dove le due intelligenze si incontrarono soddisfacendo i diversi appetiti strategici. Fu soltanto al terzo giorno che Mondadori si decise a mostrare a Disney il suo grandioso tesoro, celato in una stanzetta chiusa a chiave dentro la quale non poteva mai entrare nessuno, neanche la cameriera. Si trattava della più grande collezione privata al mondo di tutte le edizioni originali (in 126 lingue diverse) della favola di Pinocchio, corredata di disegni. Erano 356 volumi. C'era perfino una edizione scritta in aramaico, pubblicata in Syria con delle illustrazioni di un famoso pittore iracheno emigrato a Parigi. Rimasero chiusi dentro quella stanza per una intera giornata. Alla fine ne uscirono entrambi soddisfatti. La sera andarono a festeggiare insieme alle mogli nel centro di Mantova e il mattino dopo si recarono da un notaio internazionale a Milano dove firmarono l'accordo. Mondadori cedeva l'intera collezione a Disney. In cambio, l'americano cedeva, per 50 anni, tutti i diritti mondiali relativi a Topolino, quel Mickey Mouse che in Usa non era piaciuto alla critica. Gli unici territori che Disney mantenne furono gli Usa, il Canada e Cuba. Inoltre, i due, fondarono una società comune, la joint venture Disney-Mondadori, denominata Associazione Periodici Italiani, per pubblicare materiale illustrato per i più piccini.
E Disney se ne ritornò in California.
Tre anni dopo usciva Pinocchio, un clamoroso successo negli Usa, con un profitto netto corrispondente a circa 250 milioni di euro di oggi.
Per Mondadori, invece, in Italia cominciavano i guai, finiti con la fuga sua e della famiglia in Svizzera, dove rimasero in esilio dal 1943 al 1947.
Ma nel 1949, venne distribuito in tutto il mondo il film "Fantasia" che irruppe nell'immaginario collettivo dell'epoca determinando un colossale successo di tutti i personaggi di Topolino, stampato poi come giornaletto a fumetti in 170 nazioni del mondo.
E i soldi della royalties andavano tutti alla Arnoldo Mondadori Editore.
La casa editrice si avvalse pertanto di questa cassaforte che i concorrenti gli invidiavano. Ogni anno, la Mondadori incassava circa 25 milioni di euro senza fare nulla. E con quei soldi costruirono il loro impero editoriale. Arnoldo rimase legato a Walt da sincera amicizia. La fotografia della bacheca li ritrae insieme nel 1960, nel corso delle olimpiadi a Roma. Mondadori lo ringraziò per la sua consulenza di qualche anno prima, quando Disney lo aveva consigliato caldamente di lanciarsi nell'editoria popolare pubblicando la prima enciclopedia di massa per un pubblico dai 7 ai 15 anni.
Quando nel 1976, il grande Mario Formenton divenne presidente della Mondadori, essendo anche lui un abile imprenditore lungimirante, si rese conto che di lì a breve sarebbe scaduto il contratto con la Disney. Per due anni trattò il rinnovo dei diritti ma la cifra chiesta dagli eredi era eccessiva. E così nel 1978 capì che bisognava anticipare i tempi con un'accorta politica industriale, visto che dieci anni dopo, nel 1988, la Mondadori avrebbe perso la sua cassaforte.
Dopo un anno di ricerche decise di imbarcare quelli che considerava i due più abili e spregiudicati finanzieri del mercato mediatico italiano, Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, pensando che avere dentro due maghi della finanza sarebbe stato il modo migliore per affrontare quel passaggio. Quando nel 1986 Formenton morì, era convinto di aver lasciato agli eredi Mondadori la traccia per reggere l'impatto con il mercato editoriale internazionale.
Il resto è attualità.
Fine dell'aneddoto.
Era quella un'epoca di capitani di industria, di imprenditori che avevano idee, di industriali che rischiavano, di dirigenti editoriali che si approvvigionavano di menti pensanti  ma soprattutto di manager che ragionavano, pianificando strategie di lungo raggio, che avevano una visione di insieme.
Quello spirito e quella generazione è andata perduta. E l'analisi critica di questa perdita viene oggi censurata.
Si parla tanto della Politica, dei politici, della classe dirigente politica, ma non si parla mai della classe imprenditoriale, dando per scontato che in Italia gli industriali e gli imprenditori siano tutte persone sane, colte, per bene, che sanno cosa fanno.
Oggi si parla di Finmeccanica, di Alitalia, di Telecom, con le polemiche di questi giorni che ben sappiamo. Ma poco si dice sulle responsabilità di chi guida e ha guidato queste aziende.
Un articolo è apparso nel panorama della cupola mediatica su questo argomento, in data 25 settembre 2013, su Il Fatto Quotidiano. A firmarlo è uno scrittore, noto per la sua verve satirica,  il quale è anche uno degli autori dei testi degli spettacoli di Maurizio Crozza. Si chiama Alessandro Robecchi che oltre a scrivere e inventare battute, è evidentemente anche un  sofisticato analista della realtà politica italiana, soprattutto di quella imprenditoriale. Ecco un estratto del suo pezzo al quale vale la pena di dedicare dei pensieri.
"......tutto questo parlar male della politica e dei politici ha messo in secondo piano le gloriose capacità dell’imprenditoria italiana che rappresenta l’altra metà delle corruzione. In termini generali, certo, a grandi linee: dove passa una mazzetta c’è un politico da un lato e un imprenditore dall’altro. E questo quando gli imprenditori non sono direttamente un’espressione politica, come furono i padroni “patrioti” che “salvarono” Alitalia, spinti da un Berlusconi in fregola elettorale e dalla speranza di futuri favori e contropartite. Ora si vede com’è andata a finire, con tanti saluti all’“italianità”, parola che echeggiò forte e chiara su tutti i giornali e che adesso potete archiviare.  Quanto alle telecomunicazioni, potete mettere in fila tutte le volte che ne avete sentito parlare come settore strategico, motore della modernità del paese eccetera, e anche quello potete archiviarlo per sempre, dato che con la vendita di Telecom tutti i maggiori operatori telefonici che operano in Italia sono stranieri. A questo punto, il vero problema non è la spagnolità di Telecom o la francesità di Alitalia, ma l’italianità dell’Italia. Conosco l’obiezione: fare impresa in Italia è difficile, ma pare che sia difficile per gli italiani, perché se fosse difficile per tutti non verrebbero qui a comprare a man bassa. Poi, certo, possiamo fare collezione di belle frasi sulla casta, sulla politica, sui cialtroni che ci governano e che non spariscono mai. Perché invece i Colaninno, i Bernabè, i Tronchetti Provera, i Passera spariscono? Non pare: saltano da un consiglio di amministrazione all’altro come usignoli sui rami, quasi sempre lasciandosi dietro disastri epocali e balzando a combinarne di nuovi. Sempre salutati come salvatori della patria, coraggiosi innovatori, costruttori di ardite strategie accolte dalla òla dei commentatori che dopo due, tre, quattro anni si esercitano a demolire quelle costruzioni. Pure loro (i commentatori) non se ne vanno mai: il loro passare dagli applausi (evviva, si salvaguarda l’italianità di Alitalia!) ai fischi (ma che avete fatto! Dovevate vendere subito ai francesi!) nello stesso film, addirittura nella stessa scena, è garanzia di durata. Il concetto di responsabilità (ho detto / fatto / pensato una cazzata, me ne vado) non è contemplato, chi rompe non paga, non porta via nemmeno i cocci, e si prepara a nuovi mirabolanti successi".

E l'ignobile zuffa di cui tutti siamo oggi testimoni  la considero figlia dell'attuale politica editoriale italiana. 
L’Italia è l’unico paese al mondo in cui l’editoria ha scelto negli ultimi anni di disinvestire dai libri e spostare i capitali, invece, nel gioco d’azzardo. 
Sul sito della più antica casa editrice italiana ancora in attività, la De Agostini, fondata nel secolo XIX, troviamo le seguenti notizie:
 Il Gruppo De Agostini (www.gruppodeagostini.it) è una multinazionale italiana che ha le sue origini nel settore dell'editoria. Nel 2011 ha compiuto 110 anni di attività e oggi si presenta come una Holding di partecipazioni presente in diversi settori industriali e nel settore finanziario. 
De Agostini Editore
Edita in 13 lingue e 30 Paesi: le sue attività sono focalizzate sull'organizzazione e sulla divulgazione della conoscenza. La Società ha responsabilità di coordinamento e di gestione strategica e operativa, in Italia e nel mondo, di tutte le realtà operative del Gruppo nel settore editoriale, organizzato come segue: De Agostini Publishing, De Agostini Libri, Editions Atlas France/Suisse e Digital De Agostini.
www.deagostini.it
De Agostini Communications
Il settore "media e communication" comprende gli interessi del Gruppo nelle attività di content production, broadcasting e distribuzione di contenuti per la televisione, i nuovi media e il cinema. Zodiak Media è una società leader, tra le più innovative e creative al mondo, nella produzione e distribuzione di contenuti di alta qualità per la televisione e i nuovi media. ATRESMEDIA, gruppo radio-televisivo spagnolo quotato alla Borsa di Madrid, di cui è detenuta una quota di rilevanza strategica in partnership con il socio spagnolo Planeta Corporation, è co-leader del mercato televisivo Spagnolo ed è attivo nei seguenti settori: ATRESMEDIA TELEVISIÓN, ATRESMEDIA RADIO, ATRESMEDIA DIGITAL, ATRESMEDIA PUBLICIDAD e ATRESMEDIA CINE.
www.zodiakmedia.com 
www.antena3.com
Lottomatica Group
Società leader del mercato dei giochi e servizi, quotata alla borsa di Milano. De Agostini S.p.A. controlla Lottomatica Group con una quota di maggioranza assoluta. Lottomatica Group è la società operativa concessionaria dello Stato Italiano per la gestione del Lotto ed altri giochi pubblici (p.es. il Gratta e Vinci), dispone inoltre di un elevato know-how per l'elaborazione di sistemi e prodotti per giochi, nonché di sistemi per l'accettazione dei giochi e delle scommesse sportive, attraverso la fornitura di terminali e sistemi hardware e software. Con l'acquisizione di GTech, Lottomatica Group è diventata il più grande player mondiale nel settore delle lotterie, dei giochi e dei servizi.
www.gruppolottomatica.it 
www.gtech.com

Quindi, Lottomatica, un’azienda che gestisce il gioco d’azzardo, che è 5 volte più grossa della Fiat, 12 volte più grande di Mediaset e 100 volte più grande di Mps è posseduta da una casa editrice. 
Quando a Silvio Berlusconi glielo spiegano, nell’autunno del 2011, fa un salto sulla sedia e da bravo speculatore capisce che quello è il settore in cui investire. Ho già parlato in questo blog, in un post di qualche mese fa, della costituzione della "Glaming", sintesi di glamour e gioco d’azzardo, per lanciare il gossip dei settimanali Mondadori mescolandolo alle video slot su internet.
Un aumento vertiginoso della diffusione delle video slot sul territorio nazionale. Due anni fa erano 240.000 macchinette. A gennaio del 2012 erano 290.000. A gennaio del 2013 erano 380.000. Sono previste per ottobre del 2013 circa 500.000 e un milione entro la fine del 2014.

Secondo gli analisti della city di Londra, nel 2015 la Arnoldo Mondadori Editore sarà il più importante controllore, produttore e distributore di gioco d'azzardo legale in Europa e l'intera attività della casa editrice verrà dirottata sulle videoslot e sui casinò internet con pagine piene di estratti dalla produzione gossip settimanale.

Questo è diventata la Mondadori.
Questo hanno deciso e voluto che fosse.

Ed è questa la posta in gioco.

La Politica non c'entra.

Neppure l'editoria.

It's just business.

E nella sua peggiore deriva.

E' l'ultimo atto che ha compiuto il governo Monti: dare concessioni alle società concessionarie. E' stato anche uno dei primi atti del governo del fare di Enrico Letta: non far pagare loro tutte le tasse dovute.

Così stanno le cose.

mercoledì 25 settembre 2013

Il Mago Attel fa il Gatto e la Volpe allo stesso tempo. E a New York fa un tonfo colossale.


di Sergio Di Cori Modigliani

Siamo il paese dei balocchi, è cosa nota. Dopotutto, ha anche una sua ragione.
In fondo, Pinocchio lo abbiamo inventato noi e quella immortale favola rimane pur sempre un caposaldo universale del genio italiano.
Ma Collodi, per l'appunto, voleva regalarci una bella favola e niente di più, sperando che gli italiani capissero quale profondo lascito ci lasciava in eredità, nel comunicare ai posteri l'urgenza esistenziale, valida per tutti i cittadini del mondo,  di doverci trasformare da semplici burattini in uomini in carne e ossa.
Il Mago Attel, invece, ha una sua visione surreale e tutta personale di Pinocchio: ha cambiato il finale.
A questo serve l'abile pratica dell'illusionismo.
Dopo essere uscito dalla pancia della balena (non a caso era il nome, illo tempore, della Democrazia Cristiana) e aver finalmente raggiunto da naufrago la spiaggia, invece di trasformarsi in bambino, decide di rimanere burattino per sempre. Questa è l'eredità che intende lasciare a noi.
Povero Collodi! Quale terribile insulto alla sua memoria.
Basterebbe il commento di un noto analista di borsa americano, ieri in un furibondo talk show televisivo dedicato alla finanza europea, per comprendere la catastrofe annunciata del suo viaggio in Usa: "qui siamo a Wall Street e non a Las Vegas, forse in Italia non lo hanno ancora capito".
Il Mago Attel, comunque, si sta comportando come aveva fatto a suo tempo Mario Monti, non a caso viene da quella scuola: avvalersi del silenzio stampa garantito dalla cupola mediatica e comparire dopodomani alla tivvù italiana, finalmente a casa, spiegandoci quale incredibile successo il "sistema Italia" ha riscosso all'estero presso i cosiddetti finanziatori internazionali. Come aveva fatto il ragionier vanesio nell'aprile del 2012, dopo il colossale fallimento della sua visita a New York, qui in Italia, invece, presentata come un trionfo.
E' un po' come andare a Londra, parlando di calcio, e sostenere che il Sassuolo è primo in classifica.
Così si costruiscono teatri non corrispondenti alla realtà e si spingono le persone in una perenne nebbia di confusione e disinformazione, pensando di poter far loro credere che le parole e gli slogan possano sostituirsi ai fatti concreti.
Fine della premessa.

Veniamo ai fatti.
La patata bollente è rappresentata da questo signore la cui immagine vedete riprodotta in bacheca. Una persona famosissima, per chi conosce la politica europea negli ultimi quindici anni, una assoluta eccellenza nel suo campo. E' l'incubo di PD PDL e Lista Monti. Se lo sognano la notte nei loro spaventosi incubi. L'attività di quest'uomo sta producendo una ventata di anti-europeismo in Italia, ben alimentata dalla cupola mediatica, dai partiti, anche e soprattutto sul web dove migliaia di siti e bloggers analfabeti stanno montando -grazie alla demagogia, alla facile retorica, e all'uso di argomentazioni false prive di sostanza- l'attacco contro quest'uomo, che la classe politica dirigente italiana vuole eliminare dalla scena europea il più velocemente possibile.
Chi è questo signore? Che cosa fa? Perchè rappresenta, attualmente, il pericolo più forte e reale per l'attuale classe dirigente italiana?
Si chiama Joaquìn Almunia.
E' di nazionalità spagnola. Nato a  Bilbao a metà degli anni'40. Sposato con due figlie. Cattolico praticante. Del segno dei Gemelli con ascendente Pesci. Grande tifoso dell'Atletico Bilbao. Laureato in Economia e poi dottorato di ricerca in Tecnica Bancaria della Finanza all'Ecole des Hautes Etudes a Parigi. Grazie alle sue pubblicazioni ottiene una cattedra a Harvard in Scienza delle Finanze, ma dopo tre anni lascia per ritornare nella sua terra e dedicarsi all'attività politica a tempo pieno. Da sempre socialista, fin da giovane si fa notare nel sindacato ed emerge come figura carismatica al punto da diventare segretario della UGT e poi in seguito deputato al parlamento nel PSOE, il Partito Spagnolo Socialista Operaio. Nel 2000 si candida alle primarie e perde. Ma dieci giorni dopo presenta un esposto alla magistratura e al comitato direttivo del suo partito contro il candidato vincente, sostenendo che si tratta di una personalità corrotta, un uomo finanziato dai colossi della speculazione internazionale anglo-americana. In Spagna esplode il caso. Vince lui. Tutti gli esponenti socialisti da lui accusati finiscono in galera, insieme a tre cardinali. Si va alle elezioni e lui perde, perchè il PSOE, allora, era come il PD oggi, travolto da una lotta all'ultimo sangue tra correnti diverse e contrapposte, e la corrente più clientelare (lo ammetteranno dieci anni dopo pubblicamente) si dà al sabotaggio per impedirne l'elezione. Ma Joaquìn Almunia è un politico di classe. Non si scompone e prosegue nella sua battaglia che ruota intorno a due principii cardini della sua attività: chiarezza e trasparenza. Nel 2004, finalmente il PSOE trova una personalità di sintesi in Zapatero, che lui sostiene per disciplina di partito. Subito in parlamento inizia una zuffa tra lui e il keader socialista. Almunia lo accusa di essere un populista pericoloso che porterà la Spagna alla rovina perchè il suo piano di investimenti immobiliari è, in realtà, una truffa. Joaquìin Almunia si rifiuta di avallare il piano del governo. Viene presa una decisione salomonica. Pedro Solbes (un altro economista socialista di lungo corso) accetta di diventare Ministro dell'Economia e si dimette dal suo incarico di membro della commissione bilancio della UE.
Al suo posto ci va il nostro eroe.
Lo tengono in disparte, ma data la sua imbattibile competenza tecnica e una profonda conoscenza dei meandri inestricabili dei nodi tra politica, banche, finanza, vaticano, nella zona del Mediterraneo si conquista i gradi sul campo e finisce per diventare il vice di Barroso. Finchè, nel 2010, viene nominato per 4 anni, fino al maggio del 2014, presidente della commissione europea banche & finanza. E lì, comincia la sua lotta politica. Stende una propria rete di alleati con successo finchè non riesce a far approvare il testo unico che lancia (dal 1 maggio del 2014) la Unione Bancaria che comporta il controllo incrociato di tutte le attività bancarie nei 28 paesi dell'Unione e l'applicazione di una rigida normativa di verifica, soprattutto nei due settori cari ad Almunia: speculazione sui derivati e crediti agevolati per malleveria politica. Nel maggio del 2013 viene in missione ufficiale in Italia (poco più di zero news sull'evento) e si incontra con Ignazio Visco, il nostro governatore della Banca d'Italia. Gli consegna l'esaustivo rapporto della sua commissione sulle banche italiane relativo a Banca Popolare di Spoleto, Banca dell'Etruria, Banca Popolare dell'Emilia Romagna, Banca delle Marche, Banca Carige, Credito Valtellinese, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano, e uno studio ponderato di ben 150 pagine sulle attività di Monte dei Paschi di Siena. Visco si mette, va da sè, subito a disposizione, e dichiara che farà tutto il possibile. Si intende, all'italiana. Ma Almunia ha un jolly dentro la manica, un foglietto di venti righe, ottenuto grazie alle pressioni dei francesi, olandesi, belgi, finlandesi, austriaci, nel frattempo conquistati alla sua visione. E' la delega ufficiale da parte della BCE firmata da Mario Draghi che consente alla commissione -cioè ad Almunia- il diritto di prelazione sulle decisioni prese dal governo italiano rispetto alle proprie banche. Tradotto: se il governo italiano non risolve per bene il collasso delle proprie banche corrotte inzuppate di mafiosi, l'Unione Europea si riserva il diritto di avviare una propria ispezione e imporre da Francoforte e Bruxelles il controllo della  trasparenza "dell'intero sistema creditizio bancario italiano". Poi se ne va. Visco comunica al Mago Attel, a Monti e Alfano l'esito della visita. E lì iniziano le liti e le zuffe inter-governative tutte finte: l'Imu, l'Iva, l'omofobia, gli F35. Robbetta demagogica.
La realtà è che è arrivato l'oste a presentare il conto. E l'Europa pretende che a pagarlo, questa volta, siano il PD, il PDL e simili, dato che loro esponenti risultano essere i principali beneficiari a tutti gli effetti di circa 250.000 crediti agevolati senza adeguate garanzie, lo zoccolo duro dell'esercito di criminali malfattori, sul nome e cognome dei quali è meglio stendere un velo pietoso, diciamo quasi l'intera classe dirigente politica e imprenditoriale italiana. Ce n'è per tutti i gusti, dall'estrema destra all'estrema sinistra. E così, a metà luglio, Visco lancia una "ispezione eccezionale" della Banca d'Italia. Solo che, questa volta, ci vanno anche contabili esperti di fiducia di Almunia. E inizia (toh guarda caso!) una nuova fibrillazione nel governo. Ecco come la Repubblica dava la notizia alla fine dello scorso Luglio:



Bankitalia: ispezioni su 20 banche; per 8 su tutti crediti

Bankitalia sta svolgendo ispezioni su 20 banche e per 8 gruppi ha esteso le verifiche all'intero portafoglio dei crediti, non solo ai prestiti deteriorati. E' quanto si evince dalla recente analisi dei prestiti deteriorati condotta dalla Banca d'Italia .
29 LUGLIO 2013

Tutto qui. Neppure una parola in più.
In rete, invece, si trova un unico pezzo pubblicato da TMNews nel quale si cita però il Wall Street Journal dando una idea tragica del paese, che spiega il motivo per cui in classifica siamo l'ultimo paese dell'Unione Europea come libertà e diffusione dell'informazione. Nel pezzo, infatti, si racconta che il Wall Street Journal è stato in grado di "avere accesso a documenti riservati della Banca d'Italia". Come a dire: in Italia non siamo capaci, noi giornalisti, di avere quel tipo di documenti. 
(O non possono averli? O ce li hanno ma non li possono pubblicare? O scelgono di non pubblicarli?) Ecco il testo (che nessuno comunque ha neppure divulgato) rilanciato sulla piattaforma tiscali.

New York, 29 lug. (TMNews) - La Banca d'Italia sta esaminando i bilanci dei principali gruppi bancari della Penisola. Lo sostiene il Wall Street Journal, che ha avuto accesso a documenti riservati e secondo cui il frutto di tale operazione potrebbe portare alcuni gruppi a vendere asset. L'analisi in corso sarebbe il proseguimento di quella eseguita in autunno e che ha portato Bankitalia a ordinare alle banche di mettere da parte 3,4 miliardi di dollari circa per proteggersi da eventuali perdite e prestiti in sofferenza. Secondo il documento ottenuto dal quotidiano americano, via Nazionale sta prestando particolare attenzione proprio ai prestiti in sofferenza, in rialzo - ricorda il WSJ - da 27 mesi consecutivi. A fine marzo hanno raggiunto quota 249 milioni di euro, il 14,2% del totale dei prestiti concessi. A fine 2010, il dato era a 157 milioni di euro, l'8,9% del totale.
L'ispezione ha comportato il commissariamento immediato della Banca delle Marche (primi di agosto), l'arresto di diversi dirigenti di Mps (metà agosto ma l'Italia era presa dalla sentenza Berlusconi) una denuncia contro la Banca Carige, la più antica banca del paese, il vecchio Monte di Pietà genovese fondato a metà del '400, perchè è venuto fuori che c'era un buco di 800 milioni di euro in bilancio non conteggiato, e gli altri istituti in linea. Tra l'altro, l'ispezione rileva che da marzo del 2013 si sono addirittura scatenati: sono diminuiti i mutui alle aziende ma sono aumentati i crediti agevolati senza garanzie: una vera pacchia.
E così si arriva alla visita del Mago Attel a New York per incontrare la finanza che conta.
Lui si muove sempre sapendo (e sperando) che a parargli il culo ci sia il Bilderberg, l'Aspen Institute,la Trilateral, quello che in Usa viene definito dalla stampa Washington consensus, sempre pronti a sostenere i governi. In cambio, si intende, di un loro profitto certo e garantito da qualche parte.
Per qualche motivo che ignoro, invece, non lo ha sorretto nessuno e si è trovato davanti uno sbarramento.
Altro che trionfo.
Una clamorosa debacle.
Ieri, per tutto il pomeriggio, a New York, sulla stampa, alla televisione, per radio, sui siti, nel web, il tema principale era la finanza e l'Europa e l'Asia, con l'Italia al centro dell'attenzione. 
Diversi investitori e finanzieri hanno pubblicamente dichiarato che non verranno più a investire in Italia proprio perchè da noi non esiste la pratica della concorrenza e chiunque -se sorretto da adeguata telefonata politica- è in grado di avere crediti anche se non produce un bel nulla, quindi il rischio è "mostruosamente alto". Tanto vale andare a giocare a Las Vegas alla roulette, le possibilità sono più alte.
E così, il Wall Street Journal, sulla prima pagina pubblica un bel pezzo -proprio mentre Letta parlava- in cui spiega che il Monte dei Paschi di Siena ha rimandato l'incontro con Almunia e non ha presentato il proprio piano di ristrutturazione (che prevede la inevitabile nazionalizzazione della banca). Letta e i suoi consulenti e i dirigenti della banca (Profumo & co.) senza batter ciglio dichiarano che il ritardo è dovuto al fatto che "il signor Almunia ha rimandato la scadenza decidendo di posporre l'incontro a data da destinarsi". Il problema è che lì non siamo a Roma con la truppa mediatica italiota al seguito. I giornalisti del Wall Street Journal hanno impiegato 4 minuti 4 per verificare se fosse vero. E dieci minuti dopo è arrivata la secca smentita di Almunia, il quale, furibondo, ha fatto sapere che era esattamente il contrario: gli avevano dato buca.
Che figura!
Che vergogna!
Conoscendo i propri polli, il Presidente della Commissione Finanza della Ue, Joaquìn Almunia ha emesso un comunicato stampa che recita così: "Sebbene e nonostante i progressi che si erano verificati negli ultimi mesi, siamo tuttora in contatto con le autorità italiane in attesa di una risposta per comprendere le modalità e le forme di ristrutturazione del Monte dei Paschi di Siena, così come d'accordo in seguito all'incontro privato tra il signor Fabrizio Saccomanni, Ministro dell'Economia della Repubblica Italiana e il signor Joaquìn Almunia, incontro e accordo avvenuto in data 7 settembre 2013 a Roma". Questo è il secco testo della e-mail inviata dalla presidenza della commissione alla stampa di tutto il mondo. In Italia non è stata considerata notizia.
Lasciatemelo dire nell'unica forma possibile: che figura da peracottari di bassa lega!
Siamo governati da persone che pensano di poterla passare liscia sostenendo il falso, in una materia così delicata come questa, senza rendersi conto che si verrà sbugiardati "ufficialmente" cinque minuti dopo. Per chi è interessato, ecco il link dell'articolo apparso sul Wall Street Journal
E' scritto dal loro corrispondente da Milano. Come il giornale consiglia a chiunque voglia sapere e capire che cosa sta accadendo in quel d'Italia nella finanza e nelle banche:

Write to Giovanni Legorano at giovanni.legorano@wsj.com

Meno male che c'è l'Europa.
Per fortuna il mondo non è in bianco e nero.
Meno male che c'è chi si batte e combatte per affermare l'Europa dei Diritti, l'Europa delle regole, l'Europa della cittadinanza. 
L'anti-europeismo è il cavallo di battaglia della criminalità organizzata e di chi la sorregge perchè temono i controlli della Legge, ispezioni continue, verifiche, multe, penali, certificazione di reati.
L'Europa che vogliamo la si ottiene combattendo per l'applicazione delle regole e dei patti. E quando si è forti della propria pulizia, fedeltà e diligenza, allora ci si può permettere anche il lusso di poter andare a Strasburgo, a Francoforte, a Bruxelles, e battere i pugni sul tavolo per cambiare quelle leggi a nostro favore.
Una classe politica dirigente negligente, pigra, corrotta, dedita al malaffare congenito, non ha il diritto di pretendere nulla, non ha il diritto di fare nessuna richiesta: si è sempre ricattabili.

L'Europa che ci può salvare e salvaguardare, l'Europa dei popoli, è nata in Francia, ed è frutto del pensiero di Montesquieu, quando, nel suo libro "L'esprit de loi" trecento anni fa, scriveva: "Noi combatteremo sempre le vostre leggi inique a difesa dei privilegi, leggi che non contemplano la difesa dei diritti inalienabili della cittadinanza, noi seguiteremo a combattere le vostre leggi inique fino all'ultima goccia del nostro sangue, ma fintantochè non le avremmo modificate noi seguiteremo a rispettarle, perchè nella difesa e nella salvaguardia della Legge comune a tutti poggia lo Stato di Diritto della grande civiltà d'Europa".

martedì 24 settembre 2013

Bye Bye Italia, au revoir! O meglio: 再見


di Sergio Di Cori Modigliani

E così, di riffa e di raffa, il Bel Paese se ne va.
O meglio, diciamo piuttosto che, con il trascorrere dei giorni, diventa sempre più chiaro come -a dispetto della apparenze- non siamo nelle mani di beceri incompetenti, di cialtroni immeritevoli, di raccomandati di lusso, incapaci di mettere in piedi uno straccio di progetto decoroso che funzioni e sia efficace.
Siamo nelle mani di una classe dirigente politica che si è macchiata e si sta macchiando del più orribile crimine che in tutte le civiltà, presso tutte le etnie, in tutte le epoche, è sempre stato considerato come l'atto più vile e tragico che si possa compiere: il tradimento della propria comunità e la svendita del territorio della propria cittadinanza allo straniero. 
Perchè una cosa è il dramma delle guerre, dove l'invasore prepotente si appropria con la violenza delle armi di beni che non sono suoi.
Ben altra cosa è avere la certezza di essere capitanati da un manipolo di solerti impiegati che hanno scelto di consegnare i forzieri nazionali -riempiti grazie al lavoro di centinaia di generazioni diligenti, industriose e parsimoniose- nelle mani dei nostri più agguerriti competitors internazionali, invitando a nozze gli invasori e dicendo loro: prego signori, accomodatevi, svendiamo il tutto al prezzo migliore.
Conclusa la prima fase un mese fa, è iniziata da oggi la seconda fase, quella che consegna la Telecom agli spagnoli di Telefonica, l'Alitalia ai francesi di Air France, e tre aziende strategiche del gruppo Ansaldo, cioè la "Energia" la  "Sts" e la "Breda" rispettivamente al gruppo imprenditoriale coreano denominato Doosan, agli statunitensi di General Electric e il gioiello metalmeccanico ai giapponesi di Hitachi. Se ne va via anche la Ansaldo, e sono già in trattative per vendere le aziende strategiche impiegate nella costruzione di navi ai cinesi, i quali verranno a costruire le loro navi in Italia -a prezzi cinesi si intende- per poi ormeggiarle nel porto del Pireo, acquistato in toto due mesi fa. Una vera pacchia. Per loro si intende.
Quattro aziende di Finmeccanica e l'Eni sono già in trattative avviate, soprattutto con i qatarioti, a questo serviva loro impossessarsi -come hanno fatto- prima di Unicredit, poi acquistare Valentino Garavani insieme a centotrenta industrie tessili nazionali e adesso si prenderanno anche il nostro know how ingegneristico in campo petrolifero.
Allora a questo serve lo stallo!
Allora è questo il vero obiettivo dell'immobilismo politico italiano?
Fare in modo che non accada nulla, che non cambi nulla, che non migliori nulla, in modo tale che i prezzi si abbassino e si faccia lo shopping del Made in Italy. Una volta conclusa questa fase, manderanno a casa gli attuali impiegati e ci metteranno dei nuovi manager a gestire le briciole. Di italiano sarà rimasto soltanto il marchio.
Quindi il Made in Italy è finito.
Ho saputo che tre giorni fa si è chiusa la trattativa della compravendita di una importante azienda vinicola in Toscana, una di quelle che produce il marchio DOC classico del Chianti gallo nero, finita nelle mani dei cinesi. L'azienda si chiama Casa Nova. Si trova a Greve, tra Firenze e Siena. Si tratta di due gruppi di case coloniche, otto ettari di vigneti e due di oliveto acquistati da uno speculatore finanziario di Hong Kong che rappresenta gli interessi di un gruppo farmaceutico di proprietà del governo cinese. Sono venuto a scoprirlo per un caso, guardando una intervista alla televisione argentina a un loro imprenditore, Alejandro Bulgheroni (nipote di italiani) il quale aveva acquistato sei mesi fa un'altra azienda Chianti DOC, la Poggio Landi. Costui, un supermiliardario, spiegava come, grazie all'Italia, l'Argentina da undicesima è già diventata la settima nazione vinicola al mondo e si appresta -per l'appunto- a fare concorrenza al nostro paese, passato in dieci anni dal primo al terzo posto ed entro il prossimo quinquennio accreditato di un decimo posto, superati da Spagna, Cile e Colombia. Così stanno le cose. Per il momento siamo terzi, dietro Usa e Francia che resiste al primo posto avendo stravinto la secolare guerra del vino con l'Italia. La Cina ha aumentato il consumo di vino del 30% e produce adesso 17 milioni di ettolitri all'anno. Ha bisogno del vino italiano. Perchè? Una Legge dello Stato cinese stabilisce che per poter esportare vino "cinese" doc è sufficiente che all'interno delle bottiglie vi sia il 15% di uve locali. Hanno deciso allora di cominciare a prendersi il vino italiano migliore, così lo inviano in Cina attraverso il porto del Pireo e lo imbottigliano a Shangai creando un vino cinese originale (sembra che sia ottimo) ma che è composto all'85% delle uve del Chianti. Quindi, siccome per il vino ciò che conta è il sapore, la Cina si impossesserà di tutti i mercati internazionali stracciando la concorrenza con il vino italiano perchè venderà vino italiano ovvero sapore italiano vero come vino cinese, davvero diabolici. La grande azienda vinicola Oliveto, della famiglia Machetti, è stata venduta alla Solaya International di Panama, modesta società anonima di copertura dietro la quale si nasconde la Bank of China. 
L'Italia perderà tutti i mercati.
Se ne sono andati anche l'Orzo Bimbo venduto ai tedeschi.
Se ne sono andati via i salumi Fiorucci.  E i sughi e le conserve Star.
Anche la Parmalat, divenuta francese. E i Galli si sono presi anche la Galbani, la Locatelli, l'Invernizzi. 
Per non parlare di Bulgari e del cashmere italiano di Loro Piana. La moda è ormai dei francesi.
Se ne è andato anche lo spumante Gancia e tutta la produzione piemontese degli aperitivi italiani, venduta a Roustam Tariko, un miliardario moscovita.
Dopo i biscotti e la pasta Buitoni, se ne è andato anche il riso Scotti: e qui la cosa è davvero grave. Perchè la celebre azienda di Pavia l'ha venduta a una multinazionale spagnola dell'alimentazione gestita dai colossi finanziari che intendono usare questi marchi per lanciare un sistema di alimentazione seriale industriale che impoverirà l'alimento, la sua qualità nutritiva e di italiano non avrà proprio un bel nulla. L'azienda spagnola si chiama Ebro Foods. Se l'è presa per 18 milioni di euro lo scorso luglio.
Gli spagnoli stanno usando i soldi avuti in credito dal Fondo Salvastati al loro sistema bancario per acquistare aziende italiane. Quel fondo è alimentato in larghissima misura dai soldi del contribuente italiano. In pratica, ciò che questo governo e quello precedente hanno avallato è la seguente manovra: il fondo europeo dà i soldi alle banche spagnole che acquistano aziende italiane. 
In una intervista di qualche mese fa il Dr Dario Scotti, presidente e amministratore delegato della Riso Scotti spa, attaccato dai sindacati di categoria che avevano denunciato il fatto inascoltati aveva dichiarato:  
"La partnership con la multinazionale alimentare iberica ha la valenza di un’alleanza industriale e commerciale per penetrare mercati internazionali, con l’obiettivo di sviluppare la produzione del sito industriale e di allargare le frontiere al risotto “made in Italy” e ai tanti prodotti derivati dal riso che produciamo e commercializzamo. La scelta è stata attenta e meditata, nel desiderio di esprimere una rinnovata e maggiore forza industriale come primo gruppo risiero europeo, in termini di sviluppo e di distribuzione di prodotti di nuova generazione. È certamente una scelta legata allo sviluppo dei nuovi prodotti: con la loro ricerca e le nostra, con il loro sistema distributivo e il nostro, con le forze messe insieme, insomma, si potranno ottenere i risultati migliori".

Balle! Grosse come una casa, è l'opinione della Coldiretti di Pavia che raggruppa i consorzi dei piccoli produttori agricoli del pavese, del piacentino e della pianura padana. Ha pubblicato un allarmante studio dal titolo "Mani spagnole sulla Riso Scotti" nel quale sostiene che la Ebro Foods intende delocalizzare la produzione spostandola in Spagna. Il che vuol dire un altro pezzo importante dell'agricoltura nazionale che se ne va. Oltre al fatto che aumenterà la disoccupazione.
Il presidente della Coldiretti di Pavia, Giuseppe Ghezzi ha dichiarato "temo fortemente che questa sia una strada che porterà alla produzione di derrate alimentari standardizzate e uniformizzati, che di italiano avranno ben poco".

Sergio Marini, presidente nazionale della Coldiretti, in un convegno di un mese fa ha lanciato un poderoso allarme rimasto inascoltato e poco comunicato. Ha detto:
"Lo scaffale del Made in Italy non c’é più nella realtà, è rimasta l'esigenza del prodotto italiano perchè c'è fame di Italia, grazie al nostro buon nome, ma è in atto una drammatica escalation nella perdita del patrimonio agroalimentare nazionale. I grandi gruppi multinazionali che fuggono dall’Italia della chimica e della meccanica, investono ora nell’agroalimentare nazionale perché, nonostante il crollo storico dei consumi interni, fa segnare il record nelle esportazioni grazie all’immagine conquistata con i primati nella sicurezza, tipicità e qualità. Ma il passaggio di proprietà ha spesso significato svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione. Si è iniziato con l’importare materie prime dall’estero per produrre prodotti tricolori. Poi si è passati ad acquisire direttamente marchi storici e il prossimo passo è la chiusura degli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero. Un processo – conclude il presidente Coldiretti – di fronte al quale occorre accelerare nella costruzione di una filiera agricola tutta italiana che veda direttamente protagonisti gli agricoltori per garantire quel legame con il territorio che ha consentito ai grandi marchi di raggiungere traguardi prestigiosi”.
Saranno almeno nutrienti?

E' il trend attuale, sintomo e termometro di un paese sconfitto nella propria identità più profonda e antica: il cibo, i nostri sapori, i nostri odori, i nostri colori.
Basterebbe seguire in rete due siti per comprendere come si sono messe le cose  Si tratta di due siti dove si vendono aziende intere, capannoni, pezzi di fabbrica, terreni prefabbricati a qualunque prezzo (andare a leggere per credere):

www.cinesichecomprano.com  o il più affermato 

questi, secondo il Mago Attel e l'Innominabile, sarebbero i "chiari segnali" che la ripresa economica italiana è già partita.

E' il Parlamento al corrente di questa pratica diffusa?

lunedì 23 settembre 2013

A proposito delle elezioni in Germania.



di Sergio Di Cori Modigliani

I risultati, e i primi riscontri e confronti elettorali, in quel di Germania, mi hanno stimolato dei "pensieri europei".
Inevitabile gli accostamenti,  i paragoni, la sottolineatura delle differenze e/o similitudini con l'Italia.
Penso che questo risultato sia un ottimo risultato per i tedeschi, dato che hanno finito per scegliere coloro che in questi ultimi anni hanno fatto gli interessi della Germania e dei tedeschi.
Era ovvio che ci sarebbe stato un esito del genere.
Per l'Europa si tratta di un realistico, ottimo risultato, perchè viene battuta l'ala liberale di sostegno di ogni politica iper-liberista e autoritaria, quella sostenuta dai liberali che escono dal Bundestag per la prima volta dal 1949. Così come trovo ottima la scelta di penalizzare il partito anti-europeista legato a Nigel Farage e agli imprenditori nostalgici teutonici. Si afferma con un notevole successo l'unica vera opposizione corposa rappresentata dai Linke, un partito della sinistra intellettuale tedesca, che rappresenta il blocco sociale dei ceti più disagiati, soprattutto nelle zone della ex DDR, penalizzati di molto dalle misure di austerità volute dal governo. Serviranno a pungolare la Merkel che farà un governo con i socialdemocratici e sarà costretta ad aprire un tavolo di concertazione e dibattito con il resto dell'Europa, più forte e solida di prima ma allo stesso tempo obbligata a essere più malleabile in termini di costi sociali.
Questa è la mia lettura.
Le reazioni in Italia sono state, invece, squisitamente italiane.
Per dei motivi surreali, i nostri politici si aspettavano che in Germania si verificasse un risultato elettorale (non so davvero quale!) tale per cui i tedeschi avrebbero formato un governo che aveva una particolarità più unica che rara: a) cambiare radicalmente politica e smetterla di arricchirsi; b) aiutare l'Italia, gli italiani e la classe dirigente italiana; c) promuovere ufficialmente l'inefficienza, l'inattendibilità e la corruzione italiana; d) manifestare un comportamento istituzionale italiano invece che tedesco spiegando che il Fiscal Compact è solo virtuale e non reale e quindi i conti dello Stato italiano possono essere alterati come vogliono gli italiani seguitando a vivere immersi in una realtà di totale disfacimento.
Sia il PD che il PDL, apparentemente per motivi diversi -ma è pura apparenza formale per dare la guazza al proprio bacino elettorale - si sono dimostrati delusi. Entrambi, infatti, arroccati nel loro folle disegno di totale immobilismo, erano aggrappati all'unica e ultima speranza per poter sopravvivere: il miracolo tedesco.
Incapaci e incompetenti, totalmente privi di quel necessario spessore di etica, competenza, abilità, necessarie per varare un solido programma di governo per l'Italia, pretendevano che i tedeschi provvedessero a inventarsi un miracolo per il nostro paese, un po' come quelli che pensano di investire 5 euro quando acquistano un grattaevinci.
Che si aspettavano? che le urne tedesche avessero prodotto un risultato magico, così si poteva abolire l'Imu, non aumentare l'Iva, seguitare ad aumentare i costi della politica, non rispettare nessuno dei parametri europei, seguitare a rubare soldi ai fondi europei attraverso fondazioni finte e fittizie, seguitare a non pagare i debiti alle imprese italiane e allo stesso tempo dare quei soldi alle banche nazionali (private, privatissime) le quali, invece di immetterli sul mercato per fornire liquidità alle aziende, stornano quei capitali a favore di fondazioni, enti, società, senza nessuna ottica imprenditoriale, nessuna strategia politica, nessuna programmazione industriale, nessuna forma, neppure abbozzata, in sede di programma di politica industriale? Speravano forse nella Germania che avrebbe consentito di salvare il patrimonio della famiglia Riva, ma allo stesso tempo salvare anche il lavoro degli operai tarantini, non rispettare nessuna delle clausole ambientali, in modo tale da accontentare tutti facendo pagare eventuali danni al resto d'Europa, seguitando a non prendere decisioni, violando ogni Legge, sia quella dei diritti esistenziali che quella giuridica.
A furia di vivere una realtà basata su illusioni, falsità quotidiane, disinformazione istituzionale e ruberie continue, applicando una strategia del consenso consociativo che soltanto negli ultimi quattro mesi ha portato un aumento dei costi della politica e della burocrazia statale, regionale, provinciale, comunale (e dei loro funzionari clientelari), i nostri governanti si erano convinti che le loro parole vuote contenessero un pieno sostanziale.
Adesso sono delusi.
E' davvero comico.
Il commissario Olli Rehn, la scorsa settimana, è ritornato a Bruxelles e poi è andato a Francoforte dove ha stilato il suo buon rapporto. Tradotto nelle parole più povere possibili, deve aver scritto qualcosa del tipo "gli italiani sono peggio dei greci, non stanno combinando un bel niente, anzi, stanno aumentando le loro spese folli".
Draghi deve aver telefonato al suo braccio destro, il prode Saccomanni, chiedendo ragguagli. E così il nostro Ministro dell'Economia ha dichiarato "penso che gli italiani abbiano il diritto di sapere come stanno davvero le cose e non soltanto sentirsi dire slogan propagandistici".
Il buon Brunetta gli ha risposto una cosa come "se lei non è capace si dimetta".
Il che aggiunge sconcerto ad avvilimento.
E' come se qualcuno se la prendesse con un generale perchè pretende dal suo esercito che sia disciplinato.
La Germania ha votato il miglior governo possibile per i tedeschi.
Gli italiani hanno votato per i soliti noti.
E speravano che gli elettori tedeschi potessero risolvere i nostri problemi?
I tedeschi hanno mandato a casa tutti coloro che, nella loro mente pragmatica, avevano individuato come rappresentanti di fortissimi e ristretti interessi privati ai danni della collettività, compreso un pezzo di governo.
Se si vanno a controllare i nomi dei bocciati e degli eletti, in Germania, i peggiori sono rimasti fuori dal parlamento.
Una volta tanto varrebbe rimboccarsi le maniche e imparare qualcosa dai tedeschi.
Se non altro, loro, sanno badare ai propri interessi collettivi.
Non è un caso che la Corte Costituzionale tedesca, tra dieci giorni si riunisce a Karlsruhe per decidere se ammettere o meno l'introduzione del Fiscal Compact cambiando la loro Costituzione e le ultime indiscrezioni segnalano che, con ogni probabilità, ci sarà un voto contrario.
Ed è la patata bollente che Angela si trova tra le mani a dover affrontare: buona fortuna.
In Italia lo hanno voluto, lo hanno imposto, lo hanno votato senza informare la popolazione. E noi ci siamo beccati l'obbligo del pareggio di bilancio non sapendo che cosa volesse dire perchè non ce lo hanno spiegato. Chi l'ha voluto, invece, lo sapeva benissimo.
Ma adesso si pretende che non vengano rispettati i termini.
L'hanno fatto all'italiana, applicando il consueto codice deontologico: votiamo pure, tanto poi non rispetteremo la Legge e facciamo come ci pare.
Hanno fatto male i conti.
Ma purtroppo, saldarlo spetta a noi cittadini.
Se gli italiani seguitano a dare credito a gente come Enrico Letta e Angelino Alfano, non è colpa dei tedeschi.
Caso mai, spetta a noi, andare in Europa e mettere sotto stato d'accusa la Commissione Europea per ciò che ha fatto al Portogallo e alla Spagna. E' possibile. E' legale. E' alla nostra portata realistica.
Intanto il Mago Attel se ne va a Montreal alla sua riunione dell'Aspen Institute.
Appare come una scelta mediatica, per evitare di trovarsi nella imbarazzante situazione di dover rispondere sui fatti correnti: banche al limite, buchi nei conti, nessuna idea all'orizzonte, e le prime minacce dell'Europa già rubricate.
A Bruxelles le voci che ci danno verso un vergognoso e umiliante commissariamento ufficiale sono sempre più consistenti. E sono realistiche.
O si va in Europa e si protesta il Fiscal Compact dichiarando che il paese non è d'accordo, oppure lo si rispetta seguendo i parametri.
Non esistono alternative di comodo.
In entrambi i casi serve un panorama umano diverso.