Servi presuntuosi siamo servi presuntuosi rimaniamo.
Chi s’aspettava dal cinema italiano una meravigliosa partecipazione al Festival di Venezia, non può che restare deluso. Le aspettative erano irreali e false.
Non si capisce perché mai un paese allo stremo, che non ha scuole di cinema, che considera "il proprio futuro" i figli di qualcuno (tipo Cristina Comencini presentata all’ignaro pubblico dei giornalisti stranieri come “frutto del buon lavoro svolto in Italia sui giovani” dimenticando di specificare che si trattava semplicemente della figlia del compianto Luigi Comencini, ottimo professionista dell’età d’oro del cinema nostrano, e che ha avuto accesso alla possibilità della regia soltanto perché figlia di); un paese che considera la sceneggiatura cinematografica un optional e non una attività da affidare a professionisti tecnicamente equipaggiati e dotati di meriti di scrittura; che considera la recitazione qualche cosa che possa essere rappresentato da una pupattola come Monica Bellucci; che considera l’industria cinematografica un territorio selvaggio dove la razzia della classe politica è concessa come in Lybia ai predoni. Veltroni ha i suoi, Berlusconi i suoi, il Vaticano i suoi, la Lega Nord i suoi e i registi che vogliono lavorare si attengono alle richieste delle segreterie politiche. Fa girare soldi (li fa riciclare allegramente, ma di questo parlerò in un successivo esaustivo post) costruisce consenso, fa vivacchiare uno stuolo di servi e spinge l’industria cinematografica italiana verso il 42esimo posto al mondo con la cieca irresponsabilità suicida di chi se ne frega fintantoché nel frattempo basta una telefonata della segreteria del PDl o del PD o dell’UDC per avere i finanziamenti e chiudere un film.
L’anno scorso eravamo al posto 39; nel 2008 al 37; nel 1999 al 28; nel 1988 al 18; nel 1978 al 5. Come si vede, parlare di “crisi” è un falso. E’ un declino, tutt’un'altra cosa.
E’ oggi, settembre 2011, com’era ai tempi del fascismo. Chi ricorda i 134 film prodotti dall’Italia nel 1935? Chi ricorda un solo titolo di uno dei 122 film prodotti nel 1940? Erano prodotti da individui piazzati dai gerarchi ai quali mostravano delle paginette sulle quali bisognava imbastire dei copioni che piacessero al regime. Finchè nel 1943 non compare uno strano personaggio, un aristocratico comunista (quindi mosca rara) che grazie all’appoggio dell’aristocrazia che contava ottiene una specie di lasciapassare “purchè non parli di politica”. Lui accetta e presenta –con nome finto- la sceneggiatura, da lui redatta insieme a due giovanissimi assistenti alle prime armi, due ragazzi fuoriusciti, uno romano, l’altro fiorentino, incontrati a Parigi dove risiedeva. Fece credere che era stata scritta da un fascista della bassa padana dove si svolgeva l’azione. Soltanto all’ultimo momento, in sede di stampa ci mette la vera dicitura che denuncia l’origine del testo “liberamente tratto dal romanzo di John MacCain “il postino bussa due volte” un autore americano –un nemico bellico- per lo più noto per le sue simpatie comuniste. Nessuno se ne accorse, perché aveva già ottenuto il “visto si stampi” della censura. Era considerato un “film virile”.
Quel regista si chiamava Luchino Visconti, i suoi due giovani assistenti di allora che gli scrissero il copione, si chiamavano Franco Zeffirelli e Michelangelo Antonioni, da lui promossi insieme a Dino Risi e Mario Monicelli come i suoi quattro aiuto-registi, “i giovanotti della mia fucina di idee perché il cinema è sempre un lavoro di squadra e di scambio di idee di intelligenze” quando girò nel 1949 il film “Senso” e costruì un enorme set con ben cinque unità di regia diverse.
Il film girato nel 1943 si chiamava “Ossessione”.
Sei mesi dopo arrivava –clandestinamente- a Hollywood. Lo si poteva vedere a casa di pochi privilegiati, di chi contava, in cene private, con molta cautela, perché erano vietati i prodotti delle nazioni contro le quali si era in guerra. Lo giudicarono subito un capolavoro. “Se non ci fosse stato “ossessione” di Visconti non credo avremo avuto l’eccezionale stagione dei film noir americani dei primi anni’50; quel film accelerò il processo, spianò la strada, ci mostrò la via. Riconoscemmo subito la mano dell’artista. Purtroppo non accettò mai una nostra proposta. Era una delle poche e rarissime persone al mondo indifferente alle pressioni del danaro. Voleva essere libero di raccontare ciò che voleva, come lo voleva lui” (intervista di Jack Warner –il fondatore della Warner Bros- nel 1961 in una intervista rilasciata a cahiers du cinema a Francois Truffaut). Insieme a tutti gli altri grandi registi e sceneggiatori italiani, contribuì al rilancio di un’industria cinematografica che nel 1948 era azzerata.
Vent'anni dopo eravamo secondi al mondo.
Volevo parlare di cinema italiano. L’ho fatto.
Allo stesso tempo stendendo un velo pietoso sull’asfittica, prevedibile, piatta produzione nostrana in quest’edizione. Con l’unica eccezione di Ermanno Olmi, che esordiente non può certo essere chiamato, dato che il suo film d’esordio fu “Il posto” girato nel 1950, da poco trentenne. Niente di che, intendiamoci, il suo film. Piatto e scontato, sentimentalista nonché buonista, incapace di parlare della realtà autentica della nostra nazione, della nostra vita, delle nostre pulsioni. Se non altro è girato da qualcuno che si capisce sa ciò che fa (e lo fa molto bene) quando sta dietro la macchina da presa. Il prodotto di un professionista.
Ancorchè privo di guizzi, di lampi, di invenzioni. Nulla.
Ci separa dal resto del mondo una voragine, ormai. Tristissima verità.
Con una menzione per Thomas Alfredson, regista svedese abbastanza giovane che aveva colpito l’immaginario collettivo con una sua opera davvero divertente e originale qualche anno fa (“lasciami entrare” un vampire movie classico, surreale e ironicamente elegante). Ha presentato la sua versione tratta dal geniale romanzo di John le Carrè “La Talpa” (la Bibbia dei thriller) uscito a metà degli anni’70. Avvalendosi dell’apporto di Gary Oldman e Colin Firth, ha prodotto un’opera minimalista di chiaro stampo scandinavo che preannuncia l’inizio di una prodigiosa stagione del cinema svedese. Un film da non perdere, a dimostrazione dell’autenticità dello sforzo che il governo di Svezia ha prodotto negli ultimi dieci anni investendo nella letteratura, nel cinema, nel teatro. Dopo lo tsunami dei gialli svedesi (negli ultimi cinque anni hanno venduto un numero di copie superiore alla vendita di tutti gli autori italiani messi insieme dal 1980 a oggi) l’Accademia Reale del Cinema e dello Spettacolo è pronta ormai a lanciarsi nella produzione internazionale di ampio respiro. Ne vedremo delle belle, non vi è dubbio. Thomas Alfredson ha spiegato che sono pronti altri cinque film di colleghi che verranno distribuiti nei prossimi mesi. Hanno lavorato bene. Si vede.
Cos’altro da dire: beati loro.
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