Ogni etnia al mondo è vittima di stereotipi, da quando esiste la cosiddetta civiltà.
E’ sempre stata la modalità primitiva di salvaguardare se stessi dalla paura dell’ignoto.
Ogni gruppo, club, associazione, famiglia, comunità, nel timore di essere aggredita da forze esterne, si coalizza al proprio interno e si fa scudo dinanzi allo straniero o all’estraneo o al non conoscibile secondo due schemi consueti: quello, diciamo così evoluto progressista, che fa scattare un meccanismo di accoglienza e di curiosità per il diverso; oppure quello difensivo, conservatore e provinciale che tende –chiunque sia l’interlocutore- ad identificare “l’intruso” come un elemento di perturbazione dello status quo. Da cui la nascita dello stereotipo che poi finisce per dilagare ed imporsi, determinando delle vere e proprie leggende che, con il passare degli anni, dei secoli e dei millenni, finisce per trasformarsi nel simbolo di quel gruppo, di quelle persone, di quell’etnia.
Gli stereotipi sono, per definizione, quindi, superficiali.
Ma quelli che resistono ai tempi, finiscono per nascondere dietro qualche grammo di verità. Ai quali va aggiunto un meccanismo della mente umana (che trionfa tra i soggetti e le persone più deboli, fragili e regredite) tale per cui è proprio l’individuo oggetto dello stereotipo ad assumere quello specifico atteggiamento che gli viene attribuito perché in esso ne trae un vantaggio “acquista identità”.
“Meglio essere considerati sporchi, perché negri. Meglio essere considerato uno sporco negro, purchè vivo. Meglio essere sporco, ma vivo….questo va cambiato”.
Con questa semplice e geniale intuizione, Malcolm X, il grande leader rivoluzionario afro-americano dei diritti civili negli anni’60, così sintetizzava la problematica del razzismo.
Essere appellato “sporco negro” finiva per venire accettato, perché –tragico ma autentico paradosso- consentiva di avere una identità e quindi un passaporto per la sopravvivenza.
Senza identità, infatti, un individuo muore; senza una identità, una etnia scompare.
Ogni essere umano ha una sua identità individuale.
Ogni popolo ha la sua.
Le etnie e i popoli che sono divenuti nei secoli e nei millenni “Grandi Civiltà” sono sempre stati quelli che hanno identificato come simboli della propria individualità delle immagini di grande profondità e di verità, talmente onnicomprensive da perforare l’inconscio collettivo per sempre.
Non finiremo mai di essere grati –noi come italiani- alla grande civiltà latina per averci regalato il concetto che per loro rappresentò il loro totem di base: la Lex.
Così come non finiremo mai di essere grati –noi come italiani- a tutti i grandi geni del Rinascimento, a partire da Sandro Botticelli, per averci regalato il loro totem: l’Armonia nella Bellezza.
E così via dicendo.
Quando un popolo o un’etnia perde i propri valori di riferimento, allora muore l’identità.
Si diffonde la paura di morire, di finire, di scomparire.
A quel punto, elementare meccanismo della mente umana, sia individuale che collettiva, scatta il meccanismo dello stereotipo, necessario per sentirsi vivi.
E’ la tragedia colossale che ha colpito l’Italia, il nostro popolo, la nostra etnia.
Maschi bugiardi, truffatori, furbi. Femmine vanitose, mignotte. Tutti innamorati dei soldi e del potere, tutti a caccia di raccomandazioni, appoggi, scorciatoie per agguantare privilegi.
Questo siamo diventati: uno stereotipo pur di sopravvivere.
Il che autorizza a trascinare le donne a dire degli uomini italiani “siete tutti una massa di mascalzoni bugiardi truffatori furbetti perversi e maiali erotomani” e i maschi a dire delle donne “siete una massa di mignotte il cui unico interesse è avere un invito da un parlamentare per sistemarvi per il resto della vostra vita”.
E’ lo squallore elevato a sistema di vita.
E’ ciò che l’Italia è diventata.
Non è la prima volta.
Già un nostro grande maestro, il compianto Federico Fellini, nella sua opera più famosa, “la dolce vita” ci offriva segnali cui dedicare dei pensieri.
Si era allora agli inizi degli anni’60, al capitolo primo della società opulenta senza drammi economici.
Nel finale del suo film, dopo una interminabile notte nella quale si vivono tutti i sogni e le fantasie dell’etnia italiana (belle donne, bei ragazzi, soldi a volontà, droghe, orge, confessioni, perversioni, debosceria, irresponsabilità, spogliarelli) insomma il bunga bunga dell’epoca…il protagonista, splendidamente rappresentato da Mastroianni, va a fare una passeggiata sulla spiaggia in cerca di aria.
“Aria…aria…aria” è ciò che ci manca, oggi.
E’ ciò che vogliamo, è ciò di cui abbiamo bisogno.
E’ come in quel film.
Perché la festa è finita.
E in quel danzare in spiaggia di tutta la combriccola, il protagonista si chiama fuori dallo schifo che ha intorno, perché ha già capito che quella “dolce vita” è diventata amara, troppo amara. Allora segue una ragazza, incontrata lì per caso (l’attrice Valeria Ciangottini) che rappresenta l’altra faccia dell’etnia italiana, quel senso di ingenuità e dolcezza, di pulizia totale sia fuori che dentro, di amor autentico per le belle cose soltanto per il fatto che sono belle, e sente che, forse, è possibile ancora respirare, ma nella vita...vera. Che non è la dolce vita.
Quella ragazza è l’Aria.
La stessa delle tre grazie di Raffaello e della Primavera del Botticelli.
E’ il simbolo dell’Italia fatta popolo.
Dell’Italia che ricorda e ripropone la cultura come elemento di collante della nostra etnia.
E’ inutile prendersela con Berlusconi.
Lui è soltanto uno che ha spinto gli italiani a identificarsi nello stereotipo di cui la fotografia in bacheca, per guadagnarci su e fondare una dinastia corrotta, tutto qui.
Ma c’è stato –e c’è tuttora- un popolo che lo amato e oggi ancora lo segue con il coltello tra i denti, cercando di spolparlo fino all’ultimo come può, insistendo nel riproporre lo squallido sterotipo di ciò che noi oggi siamo: amanti della dolcevitola.
L’Italia è questa, oggi.
Ma lo sono diventati tutti, è inutile prendersela con Berlusconi e basta.
E’ una realtà regressiva e regredita alla quale tutti si sono inchinati sperando e pensando di partecipare a quella orgia.
Il collasso socio-economico verso il quale il nostro clown di Arcore ci sta portando con la complicità dell’intera opposizione non potrà che farci bene.
Ci restituirà la voglia di aria….ARIA…..è soltanto questo che ci manca, che vogliamo.
Come nel finale de la dolce vita.
Con l’aggravante che per gli italiani è stata ed è tuttora la dolcevitola, e ci stanno dentro anche moltissimi tra coloro che pensano e sostengono di starne fuori.
Più squallida della dolce vita degli anni’60, ma è soltanto una questione di mode. Era squallida anche quella, tant’è che nel film l’intellettuale si suicida.
E' il momento buono per ricordarsi di Sandro Botticelli.
Per far quadrato facendo appello ai simboli e ai feticci e ai totem più belli, forti e inossidabili della nostra cultura.
A ciascuno il suo, a ogni regione i suoi.
Basta aver voglia di respirare di nuovo: aria.
Basta desiderare di incontrare in spiaggia Valeria Ciangottini piuttosto che la Magali Noel dello spogliarello. Mica per moralismo. No. No. Per il fatto che quella ragazza sarebbe stata dipinta da Raffaello, forse. L’altra, mai.
Basta soltanto questo per sentirsi di buon umore e ritrovare dentro di sé l’orgoglio di essere italiani.
L’importante è sapere dove andare a prenderlo.
A questo serve la cultura.
A questo servono gli intellettuali e gli artisti.
Fanno respirare.
Viva la passeggiata finale sulla spiaggia della dolce vita.
Per cominciare a dimenticare la dolcevitola.
Veramente bello! Bravo!
RispondiEliminaMelman
Melman è arrivato prima di me,volevo semplicemente dire che è bello che in mezzo a tanto schifo, esista un'isola felice anche se virtuale come questo blog.
RispondiEliminaGEORG
Combattiamo Italiani per bene.Le nostre armi sono l'intelligenza e l'autonomia di pensiero,combattiamo affinchè le isole felici si moltiplichino e diventino reali e non più virtuali.
RispondiEliminaGEORG
Thanks, buddies! Grazie amici....@Georg....l'idea di moltiplicare le isole di autonomia e felicità mi dà allegria e mi stimola l'immaginazione...@Melman....grazie
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