di Sergio Di Cori Modigliani
Il film muto francese in bianco e nero “ The artist “ prende cinque premi oscar e fa il pieno, come era nelle previsioni. Brad Pitt e George Clooney, bamboloni mediatici ad uso pubblicitario glamour, restano a secco e si arrabbiano pure mentre un anonimo (per la massa) attore bretone, Jean Dujardin, si porta via la statuetta come protagonista.
Fine delle notizie.
Ma non siamo ai David di Donatello che non contano nulla, se non per i piddini pidiellini e uddicini che sponsorizzano i propri servotti cinematici, lesti a ramazzare sussidi, sovvenzioni, e prebende delle nostre tasse, nel presupposto nome di un’arte che (in Italia) fu. Immancabilmente e tristemente verbo al passato.
Siamo a Hollywood.
E Hollywood, oltre ad essere leader mondiale dell’industria cinematografica, uno dei motori pulsanti dell’economia, inventore di miti, mode e divi, è –prima di ogni altra cosa- un eccezionale termometro politico della tessitura dell’immaginario collettivo planetario.
Da cui, la domanda di rito: “che cosa ci segnala, quest’anno, Hollywood?”.
Perché il segnale è forte e importante.
L’anno scorso, così come nel 2010 e nel 2009 e nel 2008 e così via dicendo, fino al 2000, non aveva segnalato un bel nulla (di positivo intendo, soprattutto per l’economia e la cultura dell’occidente) se non la presa d’atto della new entry asiatica con la cinematografia asiatica, soprattutto quella cinese e coreana, che avevano capito alla perfezione l’importanza strategica fondamentale del cinema e della sua mitologia per produrre pil.
L’ultimo grande segnale lo aveva dato nel 1999 con il film “Erin Brockovitch” che aveva vinto nel 2000 in piena campagna elettorale presidenziale, con il management più oltranzista della destra repubblicana che aveva pubblicamente denunciato “il pericolo di una deriva sociale che questo film può determinare perchè apre la strada all’attacco sistematico della massa contro l’industria che produce profitto, con il rischio di lanciare la moda delle class action popolari che saranno responsabili di una crisi economica”. Ma per loro fortuna (e nostra iella planetaria) fecero vincere George Bush jr. che ebbe la geniale idea di lanciare un programma bellico costato alle casse dello stato americano 8.000 miliardi di dollari, completamente buttati al vento, per non parlare della tragedia umana delle centinaia di migliaia di vite sacrificate.
Negli anni a seguire, al film cinese dove gli attori volavano mescolando effetti speciali ad arti marziali, aveva fatto seguito la tendenza (considerata allora definitiva e quindi eterna) degli effetti speciali e dell’abbattimento della realtà e dell’incontro umano esaltando la logica del virtuale, di cui il picco mediatico è stato“Avatar” e compagnia bella.
Poi, nel 2012, irrompe sulla scena un film in bianco e nero, per giunta muto, e come ciliegia sulla torta neppure americano, bensì francese, con il più banale dei titoli pensabili “The artist”..
Non è certo un caso che oggi, a Los Angeles, su tutta la stampa locale –che è l’autentico termometro dell’organizzazione sociale dell’immaginario collettivo statunitense (circa 250 pubblicazioni che tutti leggono)- compaia una pagina a pagamento di un annuncio celebrativo e di auguri al cinema francese con la scritta “We are back”, a firma tra l’altro di noti professionisti che sanno di che cosa stanno parlando, da Steven Spielberg a Steve Soderbergh, da Gus Van Sant a Warren Beatty, da Robert Redford a Woody Allen.
Nell’augurare fortuna allo sconosciuto regista Hazanavicious, specificano che “we” sta per “noi artisti al posto dei mercanti”, che “are” sta per “siamo vivi più che mai” e “back” sta per “siamo ritornati in pista più maturi, responsabili e determinati a gestire di nuovo le regole del giuoco”.
Hollywood, quindi, ci segnala che l’ubriacatura degli effetti speciali non farà più mercato e verrà ridotta e ridimensionata alla sezione casalingo-internettata dei video games. Ci segnala anche (parlano tutti di questa concomitanza, oggi, in Usa) che non è un caso trionfi un film che ci ripropone l’atmosfera della crisi depressiva del 1929 e annuncia il grande ritorno –versione post-moderna- del cinema sociale, del cinema d’arte, del cinema ideato, inventato, prodotto ed eseguito da artisti e non soltanto da furbi mercanti a caccia di visibilità e soldi facili.
I grandi registi e attori che a Hollywood contano, riconoscono all’Europa il merito di aver segnato e aperto la nuova strada, soprattutto alla Francia, così come riconobbero –a suo tempo- all’Italia nella metà degli anni’50, il fondamentale apporto della indimenticabile stagione del neo-realismo lanciata dai nostri grandi geni di un tempo che fu: Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, ciascuno dei quali, poi, scelse la propria strada più consona al loro gusto caratteriale esistenziale.
“Allez, c’est la France!”.
Così, a Hollywood, il network televisivo che si occupa di cinema e di immaginario sociale e di politica dei movimenti, registra e interpreta e propone la notizia degli Oscar.
Non vale neppure la pena di commentare che, mentre la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Danimarca, il Giappone, l’Argentina, la Spagna, e prestissimo gli Usa, intendono riappropriarsi di questo meraviglioso mezzo di espressione mediatica per ricominciare a parlare alla gente reale di elementi reali, in Italia abbiano prodotto “com’è bello far l’amore da Trieste in giù”, oltre a un nuovo film (che definire inguardabile è davvero una carezza) di Carlo Verdone e qualche cinepanettone mascherato da chiacchiera semi-seria furbetta anzichennò.
La Francia batte anche un record di mercato. E non è da poco: il rapporto costo/beneficio.
Da un mese a questa parte, infatti, un film che è costato 9 milioni di euro ed è stato prodotto, scritto, diretto e interpretato da totali sconosciuti francesi, ha incassato soltanto in Francia 100 milioni di euro, 50 milioni in Germania, Danimarca e Gran Bretagna, e Hollywood ha già pronto un bell’assegno di 25 milioni di euro per acquistarne i diritti e farne un rifacimento alla fine di questo 20912 con Colin Firth al quale gli hanno già fatto firmare il contratto. Uscito alla chetichella in Usa, perché considerato un film d’autore (e quindi minore) europeo, ha incassato già 25 milioni di dollari e c’è la gente che fa la fila per ore per andarlo a vedere.
Le due buone notizie relative all’Italia, minime, ma che possono indurre a un sereno ottimismo, consiste nel fatto che –prima notizia- tale film è al primo posto negli incassi anche in Italia dove non ha avuto nessuna pubblicità, ha avuto una diffusione relativa e neppure una recensione. Ma la gente non è scema, s’è stancata, e quando c’è un’offerta decorosa, acquista eccome se lo fa.
Il film merita due parole.
La pellicola francese in questione (Jean Luc Godard l’ha definito “adorable”) si chiama, in Italia, “Quasi amici” è diretto a quattro mani da Olivier Nakache e Eric Toledano.
E’ una storia elementare che proviene dalla tradizione neo-realista, spruzzata di pop e rivista nel post-moderno attuale.
Ci racconta la vicenda di un aristocratico ossessivo, ben viziato e tronfio che è andato a sbattere con la macchina e s’è rotto tutto (Francois Cluzet). E’ diventato paraplegico, sta su una sedia a rotelle e dal collo in giù non ha più alcuna sensibilità. Ha bisogno quindi di aiuto speciale. Lui abita in una splendida magione nel centro di Parigi. I servizi sociali gli ammollano un badante (l’attore Omar Sy) un emigrato senegalese di pelle nera appena uscito dalla prigione, che abita nella più squallida periferia urbana. Il badante, va da sé, non ha alcuna esperienza, non ha la benché minima idea di che razza di lavoro si tratti ed è ovvio che risulta la persona meno indicata a occuparsi di un aristocratico ossessionato dall’eleganza, dal bon ton e dalla promozione sociale.
Eppure, poco a poco, mano a mano che la vicenda si dipana, tra i due si instaura una solidissima e profonda amicizia. In Francia e Usa è stato già identificato come il simbolo mediatico “anti-Merkel” per eccellenza. In Italia, per il momento, i nostri asserviti critici, non essendo stati pagati dagli uffici stampa dei partiti, l’hanno cestinato definendolo un prodotto sentimentaloide gallico di poca rilevanza. E’ già cult dovunque.
Io lo trovo un prodotto delizioso. Un segnale e un simbolo che in Francia e negli Usa cominciano ad esserci dei nuovi echi collettivi che ci spingono a comprendere come la sonnolenza narcolettica sia soltanto italiana.
La seconda buona notizia nazionale consiste nel fatto che la musica del film (ha una importanza notevole nella narrazione) e la colonna sonora sono firmate dal maestro Ludovico Einaudi, figlio dell’editore Giulio Einaudi, un torinese che ha iniziato la sua attività come rockettaro jazz con un complesso che si chiamava “Venegoni & co.”, ma poi si è laureato al Conservatorio Giuseppe Verdi a Milano in composizione ed è passato alla musica classica. E’ scappato via dall’Italia grazie a una borsa di studio dove si è fatto valere in Canada prima e in Francia poi.
La musica da lui scritta per il film “Quasi amici”, nell’ultima settimana, soltanto a New York e a Los Angeles è stata scaricata da 4 milioni di persone. Lo conoscono tutti.
Da noi neppure un rigo.
Ho pensato che fosse bello dedicare la notizia di un bel successo a un nostro connazionale, un artista superbo, un compositore che ha avuto il merito di andarsene per la sua strada a vincere la sua battaglia. Figlio dell’editore Giulio Einaudi e nipote del primo presidente della repubblica, Luigi Einaudi, avrebbe potuto tranquillamente fare una brillantissima carriera in Piemonte, iscrivendosi al PD, diventando prima sindaco e poi ministro, per il solo fatto di avere il cognome e la provenienza di censo che gli garantiva buone conoscenze.
Invece ha mandato tutti a quel paese perché ha scelto di farsi valere per il suo merito.
Lui voleva fare il musicista perché contava sulla sua competenza. C’è riuscito.
Segno e segnale anche questo di come vanno le cose, in Usa, in Francia e da noi.
Oh bè…cambiàmole.
Se c’è una cosa di cui l’Italia ha veramente e davvero bisogno in questo momento, molto più del pane, è una nuova generazione di artisti.
Se non ci rimettiamo a produrre Arte recuperando la memoria storica del nostro più squisito dna etnico-culturale, non riusciremo a combinare un bel niente.
L’idea dell’Italia mercatista voluta dal ragionier Monti la si cambia contrapponendogli l’imbattibile e insostituibile sapore, colore, odore, gusto di una autentica produzione artistica nazionale.
E’ così che hanno ricominciato a ricostruire il paese nel 1946, quando non c’era nulla.
Allora, davvero non c’era nulla, neppure una pagnotta da mettere sotto i denti.
Che aspettiamo?
Grazie per il bellissimo articolo.
RispondiEliminaHo visto The Artist e mi sono commosso, per tanti motivi.
Sarà che sono sentimentale, sarà che ho visto tante citazioni da film che adoro, sarà che finalmente si può esprimere qualcosa senza la Computer grafica, sarà che i gusti sono gusti, ma la prima parola che mi è venuta in mente alla fine del film è stato: "straordinario".
Ovvero, nell'accezione del termine: fuori dell'ordinario.
"Quasi amici" è il mio prossimo film sulla lista, e sono contento di aver letto quanto sopra. Ci andrò più volentieri.
Beh dopo aver letto il post sul film sul blog Metilparaben, uno dei più seguiti in rete, mi ci voleva qualcosa per rinfrancarmi...
Mi sembrava di essere una mosca bianca.
Mi è successo spesso di sentirmi così, soprattutto in passato, ma grazie alla rete mi pare di capire di essere in buona compagnia ;-)
Ancora grazie.
Perché dobbiamo essere giustamente orgogliosi degli italiani che devono riparare all'estero per poter esprimere la propria creatività?
RispondiEliminaLa Rai, il cinema,la musica, l'arte in genere servono solo a fare propaganda e se questo andazzo continuerà in futuro temo che ci sarà la morte culturale del nostro paese. E un popolo senza cultura e senza artisti non potrà avere un futuro.
Il cambiamento è sognato dai visionari di ogni epoca e paese, solitamente artisti,spesso considerati “mauvais”, maledetti, originali,emarginati in patria. Questi “dreamers”, lungi dall’essere gli ultimi, sono invece i primi in quanto a sensibilità perché hanno il grosso pregio di entrare in sintonia con l’energia dell’Universo. Le loro antenne ne captano i sottili segnali, ma non tutti li sanno decrittare secondo i consueti codici linguistici ed ecco che spesso sono costretti ad interpretarli come giochi di luce ed ombre, con parole e note, con opere sublimi che sanno parlare all’anima e al cuore piuttosto che alla mente.
Di solito mi piacciono molto i a suoi articoli, e il suo modo di analizzare e dare le notizie. Ma questa volta. Bè, definire Einaudi un espatriato mi fa un pò sorridere, controllerei meglio le sue fonti... magari legga la sua biografia. Le sfugge che è stato assistente di Berio, che ha firmato diverse colonne sonore Di registi Italiani, ed è uno degli artisti più conosciuti e riconosciuti dalla stampa italiana. E la favola dei 4 milioni di download... sono felice che le piaccia il maestro Einaudi ma magari si informi su chi sono i "fuoriusciti" di successo di cui non si parla in Italia. Le assicuro che sono tanti.
RispondiEliminaLo so chi è Einaudi; e so che è noto e stimato, ma lui ha scelto di stare all'estero perchè lì ha mercato, qui no. Lo so che sono tantissimi i fuoriusciti. Ma l'aspetto meritevole della sua persona (che a me interessava sottolineare) consiste nel fatto che lui ha scelto di sottrarsi alla gogna del politichese legato al mercato in Italia e invece di sfruttare il suo cognome e le sue conoscenze ha scelto di optare per un confronto sulla professionalità....
Elimina