lunedì 20 febbraio 2012

Il trionfo di Silvio Berlusconi: la cinesizzazione del Festival di Sanremo.

di Sergio Di Cori Modigliani

Parole, sono solo parole. Così canta Noemi, la più dotata –dal punto di vista canoro-espressivo- tra tutti i cantanti che si sono esibiti a Sanremo; alla quale auguro, sinceramente,  un meritato successo e una brillante carriera di chansonnier.
Il Festival di Sanremo induce ad alcune riflessioni che, forse, possono essere utili per noi tutti come alimento di un dibattito ben più interessante di quello relativo alle cialtronate di Celentano.
Il festival è sempre stato un ottimo termometro all’incontrario, a ennesima dimostrazione di quanto la Repubblica Italiana sia rimasta abbarbicata a un’idea reazionaria di sé stessa: incapace di offrire il Nuovo, sempre pronta a rinverdire il Vecchio.
A differenza di altre manifestazioni nazionali canore in altre nazioni (Grammy awards statunitensi in testa) che diventano il sintomo di nuove tendenze, di trend emergenti, e lanciano nuove sfide a nome delle giovani generazioni desiderose di irrompere nell’immaginario collettivo -proponendo nuovi simboli di identificazione- il Festival di Sanremo, per tradizione, rappresenta invece sempre il perno centrale della Restaurazione. E’ in contro-tendenza. E’ il momento in cui si cerca di coagulare e ipnotizzare l’attenzione del pubblico per fermare i processi sociali in corso. E’ sempre stato così. All’interno del contenitore immettono alcuni ingredienti di novità, ma poi finisce sempre per vincere chi rappresenta l’Ancien Regime, per confermare l’inossidabilità della cosiddetta “Grande Tradizione della Musica Italiana”.
Ricordo quando ero davvero molto giovane, ai primi anni’70, quando, in piena rivoluzione sessuale che dilagava in tutto l’occidente, con le sedicenni che scappavano via di casa e pretendevano il proprio diritto alla libera scelta del proprio corpo e della propria mente, abbattendo il concetto sacrale di verginità ed esaltando invece la voglia di fare l’amore quando e come e con chi volessero farlo, nel nome di un nuovo principio di libertà collettiva diffusa, il Festival di Sanremo scelse di attribuire la vittoria, l’onore e il successo a una certa Gigliola Cinquetti con la canzone “Non ho l’età”. Era il simbolo (così venne presentata allora) dell’Italia pura e solida che gridava cantando che il sesso e l’amore erano prerogative degli adulti e non dei giovani. “Bisognava avere una certa età” per poterlo praticare. Esplosero gigantesche polemiche, allora, che spaccarono la società italiana.
E’ una caratteristica del Festival di Sanremo, sempre pronto a dare lustro al vecchio, a incarnare il passato, a ricordare che non bisogna cambiare, a spingere verso un fermo dinanzi a qualsivoglia cambiamento nell’organizzazione simbolica dell’immaginario collettivo.
In questo senso, anche quest’anno ha perfettamente còlto l’obiettivo prefissato.
Il turpiloquio e lo squallido dibattito sulla procacità o meno femminile, con la rappresentazione di un’immagine della donna offerta, se va bene, come madrina delle notti di Arcore, è stata la geniale modalità mediatica italiota per chiarire che l’italiano vuole essere ipnotizzato dallo sciapo e regressivo dibattito sulla biancheria intima di una pornostar, confermando quindi il trionfo della visione esistenziale di Silvio Berlusconi. Con la ciliegia sulla torta di tutto il tormentone di Celentano, un bravissimo professionista settantenne, una voce meravigliosa, splendidamente armonizzata, che da sempre ha rappresentato in Italia il simbolo della reazione più retriva del potere. Nei primissimi anni ’70 quando Giulio Andreotti vinse la sua battaglia interna nella Democrazia Cristiana e concesse la sua prima intervista a un giovane giornalista da lui promosso al rango di neo-opinion maker, un certo Bruno Vespa, dichiarò “ringrazio Celentano per l’aiuto che sta dando al paese, alla nazione che lavora e che produce, nel contrastare la manipolazione dei sindacati e dei comunisti che vogliono portare la nazione verso il baratro” facendo riferimento a una sua canzone “chi non lavora non fa l’amore” divenuto poi l’atto di fondazione  dei primi nuclei movimentisti dei giovani della destra provenienti da Civiltà Cattolica, di cui il celebre cantante è sempre stato uno sponsor. Celentano è un uomo di eccezionale abilità, sempre in grado di assorbire, comprendere e veicolare gli umori della nazione e mettersi al servizio dei poteri forti, facendo credere di star combattendo una battaglia libertaria mentre, invece, è sempre al comando di una battaglia di retroguardia. Attaccare Famiglia Cristiana (forse gli italiani hanno dimenticato che l’attacco frontale contro il sultano d’Arcore, contro i super stipendi dei manager italiani, contro la spettacolarizzazione della politica, e soprattutto contro quella parte della Chiesa che privilegiava i rapporti con la finanza, è partito proprio dalla penna del giornalista professionista Sciortino, direttore responsabile della testata), ebbene, chiedere e pretendere –nel nome di una simbologia rock movimentista- l’intervento della magistratura per chiudere con immediato atto di censura politica due testate, è stata la prova di un posizionamento su un terreno che è sempre e comunque il primo tassello della restaurazione dei poteri forti ed è l’humus che alimenta la dittatura, qualunque sia il suo colore. Gli oppositori li si combatte pubblicando un giornale più bello, più informato, più ricco e più interessante dei loro, non chiedendone la chiusura coatta. Solidarietà, quindi, a 360 gradi per la testata L’Avvenire e per la testata Famiglia Cristiana.
No alla censura.
Questa edizione del Festival di Sanremo è stato il trionfo di Silvio Berlusconi. E’ stata la vittoria della sua idea di politica (cioè: la fine della politica, che è il suo obiettivo, ovverossia di coloro che stanno dietro e sopra di lui) perché ha definitivamente sancito una interpretazione pubblicitaria dell’esistenza, alla quale la sinistra democratica ha aderito ponendo le basi per il proprio suicidio annunciato. Perché tutti i media compatti –nessuno escluso- hanno aderito (determinandone il trionfo) al concetto espresso nel 2008 dal piduista Fabrizio Cicchitto “la politica vuol dire consenso”: il che è falso.
E’ una frase che appartiene alla tradizione delle dittature e della cultura della destra reazionaria. La politica intesa come ricerca del consenso è la base dell’idea pubblicitaria dell’esistenza. La politica, invece, è un’altra cosa “è l’applicazione dell’attività sociale collettiva finalizzata al confronto, dibattito, gestione e applicazione di tutte quelle attività amministrative e lavorative relative al bene pubblico comune”. Qusta è la definizione della politica.
Un animale politico puro lotta perché è convinto che la sua idea, i principii che fondano il suo pensiero, i suoi programmi, i suoi progetti, rappresentino il meglio per tutti e siano la soluzione per risolvere i problemi della collettività. Se lo seguono in cinque o in 5 milioni, per lui è uguale. Non è che la quantità fa cambiare l’idea; ne rende semplicemente più realistica la sua applicazione dal punto di vista statistico, il che è diverso. I politici –quando fanno politica, per l’appunto- sono i meccanici della macchina sociale deputati alla scelta e manutenzione degli utensili giusti (cioè gli amministratori competenti) per pulire il carburante, oliare il motore, gonfiare i pneumatici, immettere la benzina e far muovere l’automobile paese, una macchina davvero complessa.
Nella società post-moderna, il politico è l’individuo in grado di saper discernere gli elementi probanti all’interno della complessità. Anche l’Arte funziona nello stesso modo. Identico.
Un artista se ne frega se è riconosciuto o meno. E’ importante soltanto per il suo narcisismo, per il suo bisogno personale, per la sua pace individuale relativa alle bollette da pagare e alle scadenze della vita quotidiana. Ma se è amato o è anonimo e sconosciuto è un aspetto irrilevante rispetto a ciò che sente di voler comporre, scrivere, suonare, disegnare, dipingere, allestire. Per il politico, così come per l’artista, è fondamentale la qualità del progetto, non la quantità del consenso. Alcune volte può corrispondere, e sono quelli momenti di grande apertura generale. Ma quando non corrisponde e non si verifica, sia il politico che l’artista tengono duro, non rinunciano mai alla qualità rispetto alla quantità.
La pubblicità, invece, se ne frega della qualità: basta vendere.
L’agenzia che gestisce la pubblicità di una saponetta è vincente se “inventa” una campagna che sarà talmente accattivante da convincere tutti ad acquistare quella saponetta. Se ne frega se è buona e sana, purchè la comprino.
La grande rivoluzione operata da Berlusconi in Italia è stata quella di capovolgere i termini della questione: dalla politica del mercato ha portato la nazione al mercato della politica.
Con i risultati di cui tutti noi oggi siamo testimoni.
La sinistra gli è andata dietro. Ne ha cooptatio l'ideologia.
E’ una cinesizzazione dell’esistenza. Com’è noto, i cinesi ragionano in termini di costi e quantità, e mai in termini di qualità e diritti. La tragedia del “Moloch Spread” consiste nell’aver infilato l’immaginario collettivo all’interno di questa cinesizzazione dell’inconscio collettivo che ha monetizzato e quantizzato il reale, abbattendo qualunque discorso, confronto e analisi sulla qualità. Non vince più chi sa di più, bensì chi ha di più. Non vince più chi è più bravo, bensì chi è più noto. Non vince più chi è più competente e meritevole, bensì chi è più visibile da un numero più alto di anonimi, anche se analfabeti.
Perchè contano i numeri, e non le persone.
Nessuno osa oggi neppure balbettare la proposta di un dibattito sulla “qualità” dell’esistenza e del vivere e del lavoro; conta la “quantificazione in termini di denaro” di una qualsivoglia mansione lavorativa. E’ una modalità di cinesizzazione della vita quotidiana che spinge ad accettare il principio di acquistare un ombrello che fa schifo e non funzionerà più d’una volta (perché lo pago cinque euro) piuttosto che promuovere un ombrello solido, immortale e bello che pago, invece –e giustamente- almeno trenta euro.
Questa cinesizzazione dell’esistenza consente all’oligarchia planetaria reazionaria di poter presentare al popolo la inevitabile “necessità” di parlare di costi e tagli perché ciò che conta è il Nuovo Totem del pareggio di bilancio (una “bufola reazionaria” così l’ha definita Barack Obama) e ciò che conta è una visione ragionieristica dell’esistenza che, forse, dico, forse, può anche (magari) funzionare ed essere comprensibile per una società che se la deve vedere con 1,6 miliardi di individui come la Cina, ma non per società, culture ed etnie che si sono conquistate mercati e successo in base alla qualità della propria offerta.
Non c’è stato nessuno –neppure uno- in tutto l’universo mediatico nazionale che si è espresso (a proposito di Sanremo) sulla qualità canora dei partecipanti al festival, sulla bontà o meno dei testi, sull’armonia o meno delle musiche, sulla tonalità distintiva delle voci dei partecipanti, sulla diversità del suono della voce maschile e di quella femminile, sul timbro di una voce, sull’effetto di una certa assonanza, sull’impatto di un certo suono. Sul Senso della Canzone.
Macchè.
Hanno parlato tutti di un unico aspetto: lo share.
Ovverossia l’ossessione dei pubblicitari, il pane quotidiano della visione del mondo di Mediaset.
Come se un alto share, automaticamente, rappresentasse un elemento positivo.
Da cui, passa il messaggio “se ci sono canzoni che fanno schifo ma tutti le ascoltano, allora è un successo”. E’ il trionfo dell'idea della vita di Berlusconi che ha basato il proprio successo proprio nell’applicare questo principio marketing pubblicitario alla politica, riducendola a un conflitto tra mercanti, a una trattativa per la conquista di posti da amministratrore, a un dibattito sulla quantità e non sulla qualità. Perché la qualità deve rispondere a parametri e deve corrispondere a delle regole: in Arte, regole dell’armonia, in Politica regole finalizzate al bene collettivo.
Il Festival di Sanremo è stato così presentato come un successo.
Successo di che? Di chi?
E’ il successo di Silvio Berlusconi. Perché ha vinto la sua idea dell’esistenza, la sua idea di simbolico, la sua idea di immaginario collettivo, ben rappresentata dalla patetica querelle sulla farfalla di Belen: gli italiani stanno ancora lì
Qui di seguito vi presento l’editoriale di oggi di Aldo Grasso, considerato il più accreditato e importante studioso nonché giornalista critico specializzato in televisione, un vero nume tutelare dei mass media. E’ comparso sul corriere della sera. Non lo commento pure. Lo pubblico nella sua integrità e lascio a voi il giudizio. Nella sua mente definitivamente obnubilata –direi ormai per sempre- ci ha voluto presentare la seguente informazione critica su come ha visto, vissuto e, di conseguenza, letto per il popolo italiano il Festival di Sanremo, da quest’anno in poi, ufficialmente e definitivamente cinesizzato.
E queste, non sono solo parole.

Un Festival povero che ha diviso l'Italia
Sanremo «cannibalizzato» dalle performance di Celentano
A fil di rete
Un Festival povero che ha diviso l'Italia
Sanremo «cannibalizzato» dalle performance di Celentano
Quattrocentomila spettatori in meno. A conti fatti, questo è il bilancio della 62° edizione del Festival di Sanremo, a confronto col «Morandi 1». Nelle sue (infinite) cinque serate, fra prima e seconda parte, l'evento ha totalizzato 11.122.000 spettatori. Risultato sicuramente molto importante (con la finale boom). Ma a quale costo? Segnaliamo almeno tre aspetti. Il Festival è stato evidentemente «cannibalizzato» da Adriano Celentano. Le serate che hanno catalizzato più pubblico sono state la prima (14.378.000 spettatori) e l'ultima (14.456.000).
Qui s'evidenzia la distanza fra ascolto e gradimento: vedere «cosa accade a Sanremo», «cosa dirà Celentano» è diventato rapidamente un «dovere sociale» (testimoniato anche dall'attenzione degli «opinion leader» su Twitter). Il gioco funziona, attrae spettatori, ma resta un dubbio: era Sanremo o il Celentano show? Secondo aspetto: il «Morandi 1» aveva saputo essere molto inter-generazionale.
Certo, lo zoccolo duro era rappresentato dagli ultra65enni, ma anche i giovani si erano lasciati conquistare (47,4% di share fra i 15-24enni). Il «Morandi 2» - con le sue lungaggini, con la sua scrittura povera, con gli ospiti messi in scaletta a casaccio - ha perso soprattutto i giovani (-5% sul target 15-24enni). Terzo aspetto: si dice che il Festival di Sanremo «unisce l'Italia». Ma a guardare i dati non pare. L'Italia sembra anzi spaccata. La dimensione di evento da non perdere resta viva solamente nelle regioni del Sud, con le vette del 60% di share in Puglia e Basilicata (effetto Papaleo?). Ma risalendo verso Nord gli share si dimezzano. Così la Lombardia si ferma al 37% di share, e il Trentino Alto Adige addirittura al 28,7%. Non è forse, anche questa, un'occasione persa per il servizio pubblico?
In collaborazione con Massimo Scaglioni, elaborazione Geca Italia su dati Auditel.


4 commenti:

  1. E' un'analisi lucida del fenomeno Sanremo che difficilmente si legge sui media, tutti incentrati sulle false polemiche riguardanti Celentano,la farfallina di Belen e tutto il corredo di luoghi comuni che tanto rassicura e poco fa riflettere.

    Vorrei far notare che, mentre si sono sprecate pagine e minuti di aria fritta sul festival, poco o niente da parte dei liberal e democratici all'amatriciana per ricordare il 17 febbraio la figura di Giordano Bruno. Il che la dice lunga sulle reali intenzioni dei trombettieri di destra e sinistra che trovano molto utile continuare a vivere nell'attuale sistema politico.

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  2. Una piccola precisazione: Gigliola Cinquetti vinse Sanremo con "Non ho l'età" nel 1964.

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  3. In un paese dove bisognava nascondersi in cantina ad ascoltare Radio
    Luxemburg, dove se chiedi chi era Timi Yuro nessuno te lo sa dire.
    Dove tutti credono che "A chi" sia una canzone italiana cosi come tante altre Sanremo dovrebbe essere esaltato come esempio di come siamo governati. Immaginate Patti Smith invitata 20 anni fa.
    Questa gente non ha mai inventato, governato, ha sempre trovato e fatto quello che era gia' successo.

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