Questo non è un negozio della Apple. E quel signore che indossa la divisa della Apple non è un impiegato della Apple. I computer Apple che lui vende con il caratteristico marchio della mela sbocconcellata, inoltre, non sono Apple. Ultimo e clamoroso dettaglio: la striscia incollata sulla vetrina in cui è scritto “rivenditore autorizzato Apple” è falsa. Ma non siamo a Napoli.
Siamo in un una importante città industriale del centro della Cina.
E il tutto, è stato scoperto per caso, da una coppia di viaggiatori statunitensi che giravano per la Cina. L’allarme e il sospetto è nato perché parlando con il commesso –i due parlano molto bene il dialetto cinese locale essendo due sinologi- si sono accorti che il venditore non era a conoscenza di fondamentali aspetti tecnici del materiale che vendeva. Conoscendo la premura marketing con la quale la Apple segue l’assunzione dei propri impiegati sottoponendoli a previi corsi di perfezionamento sulle competenze tecniche specifiche, hanno fotografato il tutto e hanno spedito via twitter e blackbird il materiale a dei loro amici a Pechino, i quali si sono messi in contatto con dei bloggers californiani che hanno un sito “BirdAbroad” (uccelli all’estero) –naturalmente è uno pseudonimo dietro il quale si nasconde un’agguerrita squadra di giornalisti, esperti e “inviati speciali” ovverossia amanti dei viaggi disposti e disponibili (pagano loro il viaggio e una minima diaria) ad andare in giro per il pianeta per scoprire e denunciare i falsi.
BirdAbroad fa da contenitore per denunciare tutti i falsi, cloni e prodotti tossici in giro per il mondo. Il blog è finanziato dalle camere di commercio statunitensi che vogliono salvaguardare la propria industria. Tre giorni dopo è arrivato un inviato in Cina a fare dei controlli.
Tutto ciò è accaduto nella città di Kumming, nella provincia meridionale di Yunnan. Sembrava, all’apparenza, tutto vero: i manifesti dell’iPad 2, il designer del locale, le brochures scritte in dieci lingue diverse, i commessi con la consueta divisa celeste e la mela, a disposizione della clientela. Anche i computer in vendita –neanche a dirlo a un prezzo 50% inferiore a quello ufficiale cinese- sembravano uguali.
C’era soltanto un problema, anzi due: non era un centro Apple e la tecnologia non era la tecnologia Apple: vengono costruiti dentro un capannone con avanzi di vecchi computer acquistati all’asta in Europa, poi inviati in Cina e rincollati da qualche migliaio di addetti, sottopagati, al nero. Non vi è neppure la garanzia che vengano rispettate le norme sanitarie minime relative all’uso di sostanze tossiche. I negozi scoperti in questa cittadina sono 13. I bloggers hanno portato tutta la documentazione alla sede centrale di Pechino della Apple che ha confermato di non aver mai avuto in quella zona dei rivenditori e che si trattava di clamorosi falsi, fatti anche male.
Purtroppo è finita male.
Nel senso che la Apple ha protestato ma dopo tre giorni, prima di iniziare la causa, ha ritirato la denuncia e ha considerato “il caso chiuso”. Motivo? Semplice: hanno ceduto al ricatto. O stanno zitti e possono aprire tanti negozi “ufficiali” oppure niente licenza e se ne ritornano in Usa.
I bloggers hanno pubblicato la notizia che si è sparsa in tutto il mondo.
Va da sé che il loro sito è stato oscurato in Cina, e ai partecipanti è stato annullato il visto d’ingresso in Cina.
Anche questo è un modello cinese di fare business.
Rimane, per il sottoscritto, l’angosciante mistero nel non riuscire a comprendere perché l’industria planetaria consenta simile ladrocinio.
Ah, dimenticavo. Nel frattempo BirdAbroad ha scoperto 457 negozi in cui vendono “soltanto ed esclusivamente abiti femminili made in Italy”. Solo marche italiane, tutte le migliori, naturalmente. E il prezzo è scontato del 90% rispetto a quello praticato a Pechino e Shanghai. Hanno contattato l’ambasciata italiana a Pechino.
Anche loro, come gli statunitensi, hanno deciso di soprassedere.
"E' meglio far finta di nulla" hanno detto all'ambasciata.
Perchè?
Voi, questo, lo capite?
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