di Sergio Di CoriModigliani
Come si facevano i film, in Italia, un tempo, diciamo nel 1970?
Come mai, quarant'anni fa la società italiana era in grado di produrre -contemporaneamente- una solida attività economica che realizzava enormi profitti, allo stesso tempo sorreggendo, promuovendo e sostenendo calibri come Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Pietro Germi, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Vittorio de Sica, Antonio Pietrangeli, Marco Ferreri, Dino Risi, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Mario Minicelli, Florestano Vancini, Elio Petri, Vittorio de Seta, Gillo Pontecorvo, Carlo Lizzani e mi scuso per gli altri cinquanta che qui non nomino?
La concorrenza era forte e micidiale. Andavano molto bene i francesi con la loro nouvelle vague, i britannici con la riscoperta del cinema sociale d'autore, i tedeschi con il loro nuovo cinema, gli ungheresi, i giapponesi, i canadesi, gli svedesi e l'intero blocco scandinavo grazie all'apripista Ingmar Bergman, per non parlare dell'enorme impulso che veniva dalla produzione ceka, sovietica, polacca.
Ma i dati parlavano (e tuttora parlano) con estrema chiarezza.
Nel 1970, l'industria cinematografica italiana era la seconda al mondo.
Secondo gli storici statunitensi era seconda soltanto in termini di fatturato, profitto e quantità, ma era la prima -unica e imbattibile- in quanto a qualità. Eravamo i primi al mondo.
Alcuni -sempre pronti ad attribuire colpe ad "altri fattori" per non prendere atto dei propri demeriti- attribuiscono la decadenza al trionfo della televisione. Non è così.
La televisione ce l'hanno tutti.
E oggi, l'Italia è 42esima al mondo. Come qualità veniamo dopo il Perù, il Laos, il Ghana, nazioni piccole e fragili i cui prodotti fanno soldi, girano per il mondo e in Italia neppure vengono distribuiti.
Gli italiani -e i cinefili- neppure sanno che cosa si produce in giro per il mondo.
Due, a mio avviso, erano i fattori determinanti (parlo della sezione "qualità") che producevano questo risultato: competenza tecnica e merito. Sormontati da una grande serietà professionale.
Oltre che da leader politici lungimiranti e industriali che sapevano il fatto loro: l'unico matrimonio che produce ricchezza certa.
Chi faceva il regista sapeva tutto della macchina da presa, dell'organizzazione del set, del funzionamento della macchina nel suo complesso e -inoltre- quando approcciava l'idea di un film lo faceva con quelle necessarie caratteristiche di cautela e garbo, pertinacia e solidità di idee che soltanto professionisti sicuri di sè sanno avere.
Ecco, qui di seguito, il racconto su come è nato e perchè "Il giardino dei Finzi Contini".
Penso che l'aneddoto interesserà gli amanti del cinema italiano.
Nel 1962, la casa editrice Einaudi aveva pubblicato il romanzo di un giovane scrittore emiliano sconosciuto, Giorgio Bassani, che si chiamava "Il giardino dei Finzi Contini". Un grande successo editoriale.
Era il primo libro italiano scritto da un ebreo che raccontava il dramma della discriminazione contro gli ebrei durante il fascismo e la tragedia della Shoah, vista dall'interno, nella sua intimità quotidiana, nel racconto minuzioso di un interno italiano ebraico, sconosciuto per la maggior parte a tutto il popolo italiano. Era ambientato nella grande storia nazionale dell'ebraismo italiano, di tradizione iniziatica kabbalistica e illuminista, nella città di Ferrara, dove gli ebrei si erano stanziati nel 1492 fuggendo dal tribunale dell'Inquisizione spagnola, perchè erano stati accolti e protetti dal Granducato di Parma, Piacenza e Guastalla, che intendeva contrastare il potere politico centralistico della Chiesa di Roma.
La casa editrice Einaudi era allora il punto di riferimento dell'intellighenzia di sinistra, solidamente sorretta e identificata nel Partito Comunista Italiano. L'Einaudi era l'editore che faceva cultura, che segnava la strada, che educava le coscienze della nazione, che aveva aperto la breccia nella mente italiana pubblicando la miglior produzione intellettuale, dalla narrativa alla storia, dalla scienza alla filosofia, prodotta in Europa in quegli anni. Dire Einaudi, voleva dire PCI.
La Rizzoli, invece, era il più grande polo editoriale italiano e una delle più importanti industrie nazionali.
Aveva contribuito all'alfabetizzazione di massa, all'educazione della nazione, era riuscita a portare libri, riviste, documentazioni, quotidiani, settimanali, dispense, collane d'arte, dentro case in cui non era mai entrato un libro. Aveva lanciato l'editoria di massa. Per le masse.
Contribuendo a portare l'analfabetismo italiano dal 64% del 1948 al 2% del 1968.
Il punto di riferimento politico del suo grande e insostituibile fondatore, Angelo Rizzoli, era la DC, e soprattutto Giulio Andreotti, suo amico personale.
Angelo Rizzoli era un industriale geniale, di grandi visioni, di ampia apertura mentale.
E negli anni'50 si era gettato nell'avventura della produzione cinematografica.
In una lettera del 1959 -inviata a Pierre Berry, un produttore ebreo francese- scriveva che "viviamo in un mondo sempre più inter-connesso e ritengo che unirci e fondare un grande polo delle comunicazioni audio-visive europee, sintetizzando la grande cultura europea con il bisogno delle masse di aver accesso a una quantità multiforme di prodotti, sia la base di un disegno avanzato che può consentirci di contrastare il dominio degli americani. E' necessario inserirsi nella grande produzione per il cinema, la televisione e ogni diavoleria tecnologica che inventeranno. Può consentire dei grandiosi profitti grazie a prodotti che serviranno per veicolare l'immagine dei prodotti europei nel mondo". Così parlavano (e scrivevano) gli industriali, allora.
E così, nel 1965, la Rizzoli aveva acquistato all'Einaudi i diritti "extra-cartacei" de "Il giardino dei Finzi Contini".
Oltre ai diritti cinematografici di altri 82 romanzi.
Ma non era ancora il tempo giusto per quel film.
Lo divenne nel 1969.
E l'idea venne a Giulio Andreotti.
Fare un film -chiaramente di sinistra- dove si parlava degli ebrei, ma farlo dirigere a un grande regista italiano, che non era ebreo, era cattolico ed era di destra: Vittorio de Sica.
Ecco la storia:
Angelo Rizzoli lo chiama a casa. Gli comunica l'idea. De Sica neppure lo ascolta e gli chiede subito quanto gli vuole dare. E' in un momento di grave crisi finanziaria, è in un momento di grave crisi esistenziale, e muore dalla voglia di proseguire il suo torneo a Montecarlo a chemin de fer contro l'industriale tedesco Thyssen che gli ha portato via fino all'ultimo centesimo. Rizzoli gli promette una cifra generosa e sostanziosa e un congruo anticipo. De Sica si rallegra e chiede di che film si tratta. Sente già i soldi in tasca che tintinnano.
Rizzoli glie lo dice.
De Sica gli risponde: "L'ho letto, qualche anno fa. Bel libro, scritto davvero bene. Ho anche incontrato l'autore. Io non lo faccio questo film"
"Perchè?"
"Perchè no"
"Vittorio, fammi capire: ti piace il libro, conosci l'autore, io ho i soldi è tutto a posto, quindi, qual'è il problema?"
"Io non so nulla degli ebrei"
"Come sarebbe?"
"So il poco che sanno tutti. So che in Italia il fascismo gli ha portato via tutto e che i nazisti ne hanno uccisi milioni con il gas ad Auschwitz. Questo è quel che so"
"E allora?"
"E allora niente. Non se ne fa nulla. Io non ho mai neppure incontrato un ebreo, se non una volta. Che cosa ne so di come vivono, cosa mangiano, come sono le stanze dove abitano. Io non ne so nulla. Questo film, io, non lo faccio".
E gli sbatte giù il telefono.
Rizzoli, allora, dopo essersi consultato con Andreotti telefona alla moglie Maria Mercader pregandola di fare opera di convinzione. Anche peggio. I tentativi della moglie innescano delle loro dinamiche matrimoniali che esplodono producendo sofferenti lacerazioni. De Sica finge di essersi rabbonito. Telefona a Rizzoli e gli dice che se lui gli presta (traduco in euro di oggi per comprendere meglio) 100 mila euro, lui, intanto ci pensa su.
Il giorno dopo va a prendere i soldi. Torna a casa, litiga con la moglie e annuncia "io me ne vado a Montecarlo".
E se ne va.
Senza neppure lasciare recapito.
Scende all'Hotel Martinez, a Cannes.
E comincia a giocare al casinò. Tutti i giorni, tutti i pomeriggi, tutte le notti.
La sera, parla al telefono con la moglie, gli annuncia che lui non vuole più neppure ritornare a Roma.
L'accusa di averlo umiliato e avvilito perchè sei mesi prima, un pomeriggio, lo ha mandato a fare la spesa dal salsamentaro dell'angolo e i vicini l'hanno visto con le buste della spesa in mano. Litigano ancora.
Lui insiste che non tornerà. Nega che sta giocando, sostiene che sta lavorando.
"Io non torno a Roma dove mi attende una moglie che non mi capisce, non mi accudisce, con dei figli che sono degli autentici cretini, e un paese nelle mani di quattro capelloni imbecilli che vogliono il comunismo. L'Italia è un paese che fa schifo. Lavoro all'estero. Forse accetterò le proposte per andare a Hollywood".
La moglie capisce che vuole starsene per conto suo a giocare al casinò.
E così De Sica rimane a Montecarlo. La notte, torna in taxi a Cannes.
Una sera, al bar del Martinez, incontra una donna, dall'aria affranta e avvilita. Prendono insieme un aperitivo.
Lei si chiama Jacqueline Levy Strauss. Una bella donna con capelli a caschetto, biondi molto corti. E' una parigina, ebrea, la madre morta a Auschwitz, il padre sopravvissuto. Madre di due figli piccoli, è scappata via da Parigi per starsene in riviera. E' presa come lui dal gioco d'azzardo. Sta a Cannes per andare al casinò tutti i giorni. E' triste perchè ha perso quasi tutto e non sa come fare. Lui le impresta dei soldi e decidono di far comunella. Cominciano a trascorrere insieme tutto il giorno e tutte le notti. S'innamorano l'uno dell'altro.
E intanto, la sera, lui telefona alla Mercader e lei telefona a suo marito a Parigi.
Perdono tutto.
Si trasferiscono in una pensioncina su una roccia a Roquebrun Cap Martin.
De Sica telefona a tutti quelli che conosce e finalmente trova Carlo Ponti che, per caso, il giorno dopo andava a Montecarlo per affari. Lo incontra e si fa prestare il corrispondente oggi di circa 200 mila euro firmandogli delle cambiali.
Insieme a Jacqueline ritornano all'Hotel Martinez.
E cominciano a vincere.
E le fiches che si accatastano sul tavolo decuplicano la loro passione. Il tempo passa, loro si conoscono.
Lei lo porta a visitare due sue vecchie zie nubili, che abitano a Aix en Provence, dove De Sca rimane per dieci giorni. Poi ritornano a Montecarlo dove ricominciano a perdere.
Ma intanto arriva in riviera il marito di lei, un grosso avvocato di Parigi e arriva anche la Mercader che ha capito il marito ha una storia con un'altra. Giorni terribili per tutti, che si concludono con due ultimatum.
Il coniuge di Jacqueline le dà 48 ore di tempo per ritornare a Parigi, pena un divorzio per colpa.
La Mercader -sorretta dall'avvocato- minaccia De Sica con lo stesso ultimatum e ritorna a Roma.
E così, la coppia decide di separarsi.
La notte dopo, lui accompagna Jacqueline alla stazione per prendere il treno che va a Parigi.
Rimane lì, sulla pensilina, a guardare il treno che se ne va.
Si siede al bar della stazione. Non ha più voglia di giocare.
Scrive a Jacqueline una lettera (che si trova in una bacheca del Museo del cinema a Parigi) in cui le spiega che alla stazione, vedendo il treno che se andava, all'improvviso ha capito "perchè l'ho visto nella sua successione, attimo dopo attimo" che cosa devono aver provato gli ebrei in Europa quando li accatastavano sui vagoni merci per portarli al macello. Si dichiara disperato. Le spiega che si sente in colpa per non aver potuto fare niente, allora. Che lui non sapeva. Che non aveva capito. Che non si era reso conto.
Telefona alla moglie a Roma.
"Domani notte sto a casa" le dice.
Poi chiama Angelo Rizzoli a Milano, a casa sua.
"Sono pronto. Faccio il film. Chi ci vuoi mettere?"
Rizzoli gli propone il cast e come attrice suggerisce dei nomi di donne allora sostenute e raccomandate.
"Io con queste cretine non ci lavoro. Lei deve essere francese, altrimenti il film non lo faccio. O è francese o nulla".
Rizzoli protesta ma alla fine cede.
"Dammi due ore di tempo e ti faccio sapere".
Dopo due ore De Sica lo richiama
"Allora?"
"Dominque Sanda"
"Perfetta. Arrivo domattina alle 8 da te a Milano"
"Hai bisogno di soldi?"
"No. Ho bisogno di girare questo film. A tutti i costi. E subito".
E' nato così "Il giardino dei Finzi Contini" diretto da Vittorio de Sica e interpretato da Lino Capolicchio e Dominque Sanda, uscito nel 1970, una co-produzione italo-francese. Un grande successo mondiale.
E' nato dalla visione di un grande artista, serio, sensibile, visionario, che ha sputo tradurre in immagini un bellissimo romanzo. E' il più bell'interno ebraico mai raccontato per immagini nella storia del cinema europeo.
E' nato dalla sintesi tra un grande industriale che sapeva come fare gli affari e come trattare gli artisti, un grande uomo politico che sapeva come tessere le trame del compromesso e un professionista imbattibile.
Insieme, hanno realizzato un prodotto "Made in Italy" che allora contribuì a vendere nel mondo l'idea di una nazione leader, in grado di sapersi interrogare su di sè, sulla propria verità, coniugando marketing, politica, competenza tecnica e merito artistico. Sfondando sul mercato internazionale.
Nel 1970, l'Italia funzionava così.
Buona domenica a tutti.
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