di Sergio Di Cori Modigliani
Così siamo messi noi.
Una gran bella soddisfazione per lui, non vi è dubbio.
Ma non è questo il caso in cui possa dire non me l’aspettavo, è stata un’enorme sorpresa, che grande soddisfazione, con la consueta retorica di chi sembra cadere dal cielo.
Sebastiàn era partito da Buenos Aires sapendo già che avrebbe vinto.
E non per i motivi subdoli che i malati di dietrologia possono pensare. Proprio no.
Non aveva dubbi perché il suo film (“un filmetto preparato per festival internazionali e aprirci il mercato”) non è soltanto un film argentino, una storia, o storiella che dir si voglia. E’ un’intera ambasciata, in rappresentanza del fatto che il cinema –a differenza dei romanzi, della musica e della pittura- è prima di ogni altra cosa un’industria.
E come tale ha bisogno di avere dietro imprese, finanziamenti, strutture, creatività, talenti.
Ma soprattutto strategie che sono il frutto di un piano industriale.
E’ un po’ come le automobili o la moda.
Non penserete mica che Miuccia Prada sia riuscita diventare, con il suo brand, leader incontrastata n.1 al mondo, senza un’adeguata pianificazione, attento e rigoroso ossessivo controllo di tutta la filiera produttiva, dalla prima idea madre –magari fornita dall’ultimo disegnatore appena assunto- fino all’ultimo definitivo scalino, quando, quella borsa, quelle scarpe, quell’abito, finiscono esposti nelle vetrine dei più lussuosi negozi del mondo e immediatamente venduti. Vanno a ruba.”Cerchiamo mercati da aprire ai nostri prodotti, tutto qui: è l’unica cosa che ho da dire” ha risposto Miuccia Prada quando negli ultimi mesi hanno insistito con lei per spingerla a schierarsi, a esibirsi, a partecipare ai talk show della truppa mediatica dai quali, con encomiabile abilità, si è giustamente sottratta. Una vera industriale. E’ la nostra bandiera che tiene alto il nostro nome nel mondo economico: poche storie, poche chiacchiere, pochi manifesti, nessuna visibilità.
Idem per le scarpe –quelle ancora vere made in Italy- o il buon vino fatto come solo gli italiani sanno fare, o i nostri imbattibili squisiti formaggi, o il designer industriale, o i mobili degli artigiani marchigiani, o i libri stampati da editori che sanno ancora fare il loro lavoro, costruiti da un ufficio grafico superbo e da un direttore editoriale che legge i libri di persona e la sera rimane in ufficio a controllare le bozze, perché sente quel libro come se l’avesse scritto e inventato lui (ed è così); o quei gioielli da sogno prodotti da artigiani industriosi fino a pochi anni fa che, immancabilmente, attiravano a Valenza Po acquirenti da tutto il mondo, i quali non riuscivano a comprendere come gli italiani riuscissero a produrre una qualità così alta di prodotti ad un prezzo così squisitamente competitivo. E qui mi fermo, perché se dovessi fare l’elenco di tutte le eccellenze prodotte dalla nostra grande etnia, quando esisteva ancora lo spirito imprenditoriale e l’industria era un’industria, e ciò che contava era il prodotto finito, e chi era al comando sceglieva i suoi dipendenti –dall’amministratore delegato all’ultimo precario assunto come telefonista- sulla base delle competenze, oh beh….se dovessi fare l’elenco di tutto ciò che l’Italia ha prodotto, inventato, costruito e venduto dal 1956 al 1986 finendo per passare da 42esima potenza economica al mondo al sesto posto, obbligando i teorici dell’economia accademica con la puzza sotto il naso a coniare il neologismo (studiato in ogni buona università) “miracolo economico italiano” oh beh….non basterebbero cinquanta pagine, forse neanche 200.
Altro che ristoranti pieni!
Il guaio è che oggi ci sono le industrie vuote, questo è il vero problema.
Basterebbe soltanto questa come argomentazione, per comprendere la triste tragedia che viviamo, ogni giorno, come etnia (per chi ha memoria e ha studiato il nostro paese) nel vedere la nostra squadra del cuore (l’Industria della Cultura) passata dalla Champions League alla serie D, laddove la D sta per Dilettanti Esistenziali.
Non c’è da stupirsi, quindi, che la Repubblica Argentina vinca il Festival del cinema a Roma con un delizioso film. Intendiamoci, un filmetto, niente di che. Ma un film. Vero. Fatto bene. Come si devono fare i film. Un film, questo “El cuento del chino” che sta al cinema del 2011 come “Il sorpasso” di Dino Risi stava al cinema del 1961, quando uscì, sottovalutato dalla critica d’allora. Un ottimo prodotto industriale, frutto di un sistema, di una scelta strategica.
8 anni fa, nel 2003, la Repubblica Argentina era in ginocchio.
Grazie alla follia omicida e suicida di Menem, la nazione era finita in bancarotta, con un’inflazione dell’ 80% al mese, con una disoccupazione che si aggirava intorno al 75%.. Una tragedia. Quell’anno era classificata al 74esimo posto tra le potenze economiche. Oggi è al 12esimo. La sua industria cinematografica non era neppure classificata. Era l’ultima, forse veniva prima di quella del Darfur dove hanno davvero altri problemi.
Non avevano neanche i soldi per acquistare la pellicola da infilare dentro una cinepresa.
Oggi, l’industria cinematografica argentina è al sesto posto nel mondo.
Quella italiana è situata intorno al 29esimo posto.
Un film delizioso, diretto da Sebastiàn Borenzstein, figlio d’arte, nato nel 1963. Suo padre era Tato Bores, il più famoso comico televisivo della storia argentina, una sintesi tra Alberto Sordi e Maurizio Crozza. Sebastiàn è cresciuto con la televisione (ha lavorato come sceneggiatore per la tivvù per una decina di anni) poi nella pubblicità, poi si è fatto le ossa a Los Angeles per un’altra decina di anni lavorando per le produzioni indipendenti californiane. E infine, ritornato a Buenos Aires, si è messo a fare film, uno dopo l’altro. Insieme a Guillermo Sorias e Manuel Ibaden, e Sonia de los Toros, sconosciutissimi cineasti (ancora per poco). Non si può non ricordare il fatto che l’ultimo oscar per un film straniero l’ha vinto l’Argentina con “Il segreto dei suoi occhi”. E negli ultimi due anni sono usciti “El artista” e poi “El hombre de al lado” e poi ancora “Carancho” (anche questo con Ricardo Darìn, il Mastroianni argentino) per non parlare dell’eccellente “Abrir puertas y ventanas”, tutti film prodotti e distribuiti in tutto il mondo (Italia esclusa, siamo ormai un territorio marginale) con notevole profitto.
Soltanto nel 2009 (mentre il mondo agonizzava per la recessione provocata dalla finanza speculativa) il cinema industriale a Buenos Aires aumentava il proprio fatturato del 170% rispetto all’anno precedente e nel successivo biennio ha assorbito migliaia e migliaia di addetti in ogni settore. Disegnatori grafici, architetti, fotografi, scrittori, che agli inizi dello scorso decennio erano scappati in Europa in cerca di lavoro (soprattutto Spagna e poi Italia) stanno oggi ritornando a vivere a Buenos Aires perché lì c’è lavoro; piuttosto che fare l’architetto disoccupato a Milano è meglio fare lo scenografo ben pagato nel proprio paese. Idem per fotografi, microfonisti, direttori della fotografia, sceneggiatori, soggettisti.
Da noi, non esiste più l’industria, in Argentina va a gonfie vele.
Ragion per cui, i loro prodotti finiti si impongono nel mercato globale.
Vincono i festival, fanno profitto, creano mercato.
Una storia “El cuento del chino” semplice e lineare, come tutte le storie che funzionano.
Il cinema è sempre essenziale, sintetico, e l’azzecca quando riesce a essere specchio del proprio tempo, rinunciando alla barbosissima tentazione di fare cronaca spicciola, o addirittura –peggio che andar di notte- ideologia propagandistica.
Il film narra la vicenda di un uomo di mezz’età (ha un negozio di ferramenta) piuttosto tranquillo, che ha un suo reddito, una sua dimensione, e non sa praticamente nulla di ciò che accade nella vita del mondo, né gli interessa saperlo. Per un caso fortuito del destino (divertente ma non ve lo svelo) incontra un cinese profugo, arrivato a Buenos Aires ospite di suo zio. Ma lo zio non c’è. E così il protagonista (Ricardo Darìn) si cucca il cinese a casa, in attesa che questo zio salti fuori. Ma il cinese (lo splendido attore Huang Sheng Huang) parla soltanto il cinese, neanche una parola di spagnolo. Si stanno pure antipatici l’un l’altro, caratterialmente opposti. E’ la variante di “La strana coppia” (Billy Wilder) o “Il sorpasso” (Dino Risi); lo stesso tipo di struttura, variante 2011. Nell’incontro obbligato esistenziale, il protagonista scopre che esiste il mondo. Che esiste un mondo. Che esistono addirittura dei cinesi che non fanno i tintori o “scarpe scomode che si rompono subito”.
E nasce un riconoscimento umano tra i due.
Fine della storia.
Ma dal film si sente, e si vede, e si percepisce e si capisce, un discorso sul mondo che cambia, su nazioni che crollano e nazioni che salgono, su profughi, emigranti, linguaggi, identità nel mondo reale. Alle quali dobbiamo abituarci tutti, se vogliamo vivere in questo mondo.
E’ un film che parla del reale.
Contenti di aver vinto, gli argentini, senz’altro.
Mica tanto poi.
Educati nell’accettare il premio, ma nell’intervista brevissima rilasciata ai quotidiani argentini, Sebastiàn spiegava, con educazione, che l’Italia ormai non conta nulla perché è un paese che non produce né cinema né cultura e quindi non c’è pubblico e non c’è dibattito. Non è più un paese interessante, se non per la bellezza naturale e d’arte.
“A questo festival di Roma vengono gli attori famosi americani che hanno già firmato un contratto commerciale per fare spot televisivi per reclamizzare saponette o caffè o magliettine” ha spiegato Sebastiàn agli stupefatti argentini “qui non esiste più il cinema, ma solo la televisione e la gente parla soltanto di ciò che vede in televisione, mica parlano delle cose vere. Non ci sono neppure attori, ci sono programmisti e conduttori. Per gli italiani, i veri divi sono loro”.
Triste ma vero.
Il saliscendi della storia.
Così siamo messi noi.
L'unico film italiano guardabile che partecipava a questo pseudo festival ridicolo, "La kryptonite nella borsa", è una favola ambientata nella Napoli del 1973. E non per capire da dove veniamo, ma perché oggi è impossibile ambientarvi qualcosa che abbia a che fare con la fantasia (ieri sera ho rivisto "Matrimonio all'Italiana", del 1964, e mi sono reso conto una volta di più dell'abisso in cui siamo colpevolmente piombati, nel cinema come nel resto). Immagino che distribuiranno "Un cuento chino" con un anno di ritardo, così come fu per "Il segreto dei suoi occhi". L'Argentina ha Ricardo Darín, Soledad Villamil e Guillermo Francella, noi Stefano Accorsi, Monica Bellucci e Christian de Sica. Non è un caso, come dici giustamente, e ce li meritiamo.
RispondiEliminanormalmente non commento questi post. perchè sono un pesce fuor d'acqua-
RispondiEliminaMa l'occasione è ghiotta per chiedere a gran voce che im mezzo a tanti premi per registi, autori attori e quant'altro, venga istituito anche un Oscar al tradimento.
Lo meriterebbe chi con una sua opera abbia contribuito ad una involuzione della Società del suo Paese.
Chi abbia causato danno al fruitore dello Spettacolo, con l'aggravante se il fruitore è di giovane generazione
Io avrei due candidati i quali, se devo essere sincero, preferirei rimandare ad un tribunale, preferibilmente militare, preferibilmente che possa prevedere financo la pena di morte.
Volete sapere i nomi?
Trovateli fra gli ideatori, autori, e conduttori di programmi come Amici, Tronisti, Grande Fratello, Uominie Donne ecc. ecc.
Quando le giovani generazioni che hanno creduto al mondo dei Balocchi che questi Gatto e Volpe mettevano in vetrina dovessero risvegliarsi dal sogno, li affiderei alle loro amorevoli cure.
Possibilmente in Piazzale Loreto
@ Yuma
RispondiEliminaHahahahaha,quella si che sarebbe la cura giusta!
Ps Mi fa davvero piacere sentirmi meno solo in questo nosrto disgraziatissimo paese
Fred
@ Yuma
RispondiEliminaCaro Yuma,rispondo qui ai tuoi commenti del precedente post,così sono sicuro che mi noti,so che conosci Gioele Magaldi e il suo sito Grande Oriente Democratico,so anche che credi in molti valori cristiani e che consideri la chiesa un punto di riferimento,tutto ok,però che ne diresti se invece di sperare che i Tedeschi o i Francesi siano buoni con noi,TUTTI NOI Italiani per bene PRETENDESSIMO dai nostri politici soprattutto DI SINISTRA MA ANCHE DI DESTRA (Così andiamo sul sicuro) L'APPLICAZIONE PUNTO PER PUNTO E SENZA SGARRARE DI UNA VIRGOLA del programma politico proposto in quel (secondo me) bellissimo sito con l'arma RICATTATORIA (nel senso buono e giusto del termine,del resto è l'unica che ci resta ma in futuro non ci giurerei sul fatto che non proveranno a fotterci pure quella) del voto?In fondo abbiamo già dalla nostra la FANTASTICA vittoria sui referendum,e possiamo farcela ancora,salvando i nostri diritti,il futuro dei nostri figli,la democrazia e perchè no,l'Europa intera,Perchè non cominciamo a diffondere tale messaggio?
IO CREDO FORTEMENTE CHE SI POTREBBE RISCRIVERE COMPLETAMENTE IL FINALE DI QUESTA STORIA.Jack
Ah,non sono nè un massone,nè un aderente al loro movimento "Democrazia Radical Popolare".Jack
RispondiElimina@ Jack
RispondiEliminaUn po' OT. Spero che Sergio non ci tiri le orecchie. Ti avrei comunque letto .Per correttezza se non ti spiace ti rispondo di la
@Yuma...di là, dove? (sono curioso)...ok per l'Oscar al tradimento e ai traditori, mi sembra un buon programma
RispondiEliminadi la nel 3d giusto , naturlik !
RispondiEliminaRadio Praga !
Gelosona ! :-)