di Sergio Di Cori Modigliani
Visto che il governo del ragionier Mario Monti ama parlare solo e soltanto di cifre, e l’economicismo è il pane quotidiano del dibattito in atto, accontentiamoli: “Famiglie italiane in difficoltà con il carrello della spesa: sul mercato nazionale i consumi di prodotti alimentari, bevande e tabacco hanno mostrato un calo dell'1,5% a prezzi costanti. Lo segnala un rapporto Intesa Sanpaolo affermando che in termini di spesa procapite il dato 2011 riporta i livelli indietro di quasi 30 anni, l’Italia si comporta e si ritrova come nel 1982”.
Così, il quotidiano La repubblica, comunica ai propri lettori uno studio ponderato voluto dall’ex amministratore delegato di Banca Intesa, l’attuale ministro per lo sviluppo economico Corrado Passera. Oggi, con tragico ritardo miope di ben quattro mesi, il quotidiano scopre che –come sostenuto da tutti gli economisti al mondo- la cosiddetta “manovra salva-Italia” di Mr. Monti-yesman grazie all’introduzione dell’Imu, dell’aumento dell’Iva e del decreto sulle pensioni, ha ottenuto come risultato quello di aver accelerato la recessione, provocato una contrazione dei consumi, determinando una minore liquidità sul mercato con conseguente crollo della circolazione del denaro, una decelerazione della produttività e del reddito delle imprese, con una diminuzione nel solo mese di gennaio 2012 della produzione industriale pari a -5,5%. Ma loro seguitano a sostenere il governo.
E’, quantomeno, clamoroso, come comportamento.
Ma non è questo il punto odierno. Fine del pilotto economicistico e parliamo di cose serie.
L’Europa fa quel che può. Da Praga a L’Aja; da Parigi a Dublino, da Copenhagen a Stoccolma, da Lisbona a Londra, ogni singolo paese sta tentando di affrontare l’attuale periodo comportandosi e manifestandosi (nel bene e nel male) secondo le proprie tradizioni, sia storiche che psicologiche.
Così, in Francia, Sarkozy, nel pieno della sua campagna elettorale, tenta di ritrovare consensi attraverso una politica di protezionismo nel nome della grandeur (completamente fuori da ogni parametro europeo, a Sarkozy si consente di prospettare ai francesi tutto ciò che è vietato a Roma, Atene, Madrid e Lisbona); a Praga, intellettuali ed economisti spiegano al paese come intendono gestire la loro “primavera di equità sociale” perché si sono orgogliosamente rifiutati di aderire al pareggio di bilancio e intendono porre sempre più le basi di una democrazia dei doveri ma prima di tutto dei diritti: hanno lanciato le assemblee pubbliche cittadine e i nodi del problema vengono dibattuti pubblicamente da tutte le componenti delle parti sociali nazionali. Loro, gli eroici cechi, non dimenticano che la Merkel e i suoi consulenti, sono tutti –nessuno escluso- nati e cresciuti sotto la Germania dell’est ed è quel tipo di cultura che hanno incorporato dentro di sé, trasferendola poi in fotocopia sul modello economico capitalista con gli stessi identici risultati sociali: tutti uniformati al ribasso, una esistenza ingrigita, e il quotidiano ricatto davanti al Grande Moloch dell’obbedienza: invece che il Partito c’è lo Spread e la oscura minaccia di un qualche cosa di ineluttabile (loro lo chiamano “il baratro”) che non viene mai spiegato con esattezza di che cosa si tratterebbe. Nello stesso identico modo in cui nei paesi dell’est nessuno tra coloro che governavano spiegavano con esattezza che cosa sarebbe accaduto se invece dei burocrati criminali sovietici al potere ci fossero stati degli imprenditori capitalisti. Ad Atene, le stesse identiche persone che hanno truffato l’Europa alterando i propri libri contabili, stanno oggi truffando il popolo greco prospettando un teatro che non ha nessun riferimento con la realtà del paese, facendo aleggiare nell’aria lo spettro ricattatorio di un potenziale –quanto surreale- golpe militare della destra come era avvenuto alla fine degli anni’60; a Dublino, sono arrivati addirittura al punto di tentare (ma sembra che gli stia andando malissimo) di ricattare la popolazione sostenendo che se non varano immediatamente una serie di manovre usuraie che azzererebbero l’economia nazionale c’è il rischio che Sein Feinn, l’esercito armato dei terroristi irlandesi ormai ultra-defunto, possa riprendere fiato; e così via dicendo.
In Italia, che non fa eccezione, ci si ritrova, di nuovo, per l’ennesima volta –essendo la nazione regredita ai livelli minimi pensabili- a vedersela con la propria Storia, la propria Tradizione, i propri squallidi polli..
Cioè, in parole povere: con la Mafia.
Perché una cosa è chiara come il sole: la criminalità organizzata è partita all’attacco dei brandelli di Stato avanzati, per chiarire al resto d’Europa che in Italia sono loro a gestire il mercato dei capitali. Anzi. Per far chiarire che sono loro i veri interlocutori e che sono loro gli autentici garanti della pedissequa e disciplinata applicazione ragionieristica delle sedicenti richieste europee.
Più passa il tempo, i mesi, le settimane, le ore, più diventa palese che forse Mario Monti è davvero ciò che lui sostiene di essere, così come si è autodefinito in una intervista di circa due mesi fa alla giornalista Lucia Annunziata “io massone? Guardi, io non so neppure che cosa sia la massoneria, mi appare come una nebulosa di cui ne ignoro i contenuti. Sa…io non mi occupo di queste cose, io sono una persona banale. Sono uno normale che fa il suo dovere”. Appunto.
Noi non abbiamo bisogno, in Italia, oggi, di persone normali, e tantomeno di persone banali.
Abbiamo bisogno di persone anormali, essendo questo un paese anormale.
Anormali come era Alcide De Gasperi, il quale nel 1951, trascorse un clandestino week end con Palmiro Togliatti e Sandro Pertini, alla fine del quale, chiuso con loro un accordo di ferro (bastò una stretta di mano, allora esistevano ancora i gentiluomini) presentò il piano di riforma agraria che andava all’attacco del latifondo, delle rendite passive patrimoniali, liberando l’agricoltura italiana dal giogo secolare del controllo ecclesiastico del territorio. Venne immediatamente e furiosamente attaccato dal Vaticano, attraverso editoriali di fuoco che lo definirono “anormale”, quindi, pericoloso. Il cattolico De Gasperi non battè ciglio. Scrisse una lettera personale al papa, di cui cito qui una frase emblematica per spiegare come si comporta una persona anormale “…..lungi da me l’idea di peccare di presunzione e di arroganza citando una frase del Nostro Salvatore Gesù Cristo che si è immolato per tutti noi; ma mi permetto di ricordare a Sua Santità come e quanto sia necessaria oggi all’Italia applicare alla lettera l’insegnamento di Nostro Signore: date a Cesare ciò che è di Cesare….io sono un peccatore credente nel Nostro Redentore, e riverisco e rispetto il volere di Vostra Santità Altissima, pastore delle nostre anime. Mi permetto soltanto di ricordare qui, con l’umilissimo approccio di un modesto servitore dello Stato, che non conta nulla dinanzi alla Vostra Illuminata Grandezza, che io sono il presidente del consiglio della Repubblica Italiana e come tale non posso permettere a nessuno, a nessun livello, che intervenga per alcun motivo nelle decisioni prese per il bene del paese. La riforma agraria fa bene all’Italia. Quindi verrà fatta. Non è possibile neppure discuterla. Del resto non riguarda la salute spirituale, bensì i banali esiti materiali, quindi non è di Vostra competenza….”.
Ho volutamente citato una personalità politica italiana di tradizione moderata, un conservatore. Non era né banale, né tantomeno normale (intendiamoci, in quanto italiano).
E altri ancora, dopo di lui, da Ugo La Malfa a Pietro Nenni, da Giovanni Spadolini a Sandro Pertini –per non parlare delle decine e decine di altre personalità politiche- hanno tenuto duro interpretando il proprio ruolo come delegati della collettività e comportandosi, comunque, sempre come persone mai né “banali” nè “normali” in quanto nient’affatto furbi, sprovveduti anzichennò, e caratterialmente impermebaili alla corruttela.
Oggi abbiamo bisogno di delegati coraggiosi, creativi, visionari, quindi anormali.
L’attuale governo con il proprio silenzio complice, sta definitivamente consegnando il paese nelle mani della criminalità organizzata senza dire una parola, senza compiere un gesto, senza esercitare alcun contrasto e tantomeno opposizione. Lo stanno facendo con ammirevole normal banalità.
L’attacco contro il ministro Andrea Riccardi per aver osato avviare la proposta di intervento, a firma del senatore Li Gotti dell’Idv, per “discutere della qualità delle concessioni delle licenze autorizzate in materia di giochi d’azzardo” è stato un campanello d’allarme molto chiaro.
Chiarissimo a chiunque. Tant’è vero che nelle successive 72 ore, in borsa, il titolo Lottomatica è salito andando su che era una meraviglia; tristissima verità. Neppure a dirlo, nessuno su nessun media italiano ha dato la benché minima esposizione all’iniziativa del senatore Li Gotti e alla scelta forte del ministro Riccardi.
Poi c’è stato l’annullamento della sentenza su Dell’Utri da parte della Cassazione.
Poi c’è stato –e c’è tutt’ora- l’attacco contro il “teorema Falcone” per cancellare definitivamente dalla giurisprudenza la dizione “concorso esterno in attività mafiosa”.
Poi c’è stato l’attacco contro l’inchiesta relativa alla trattativa stato-mafia che portò al barbaro assassinio di Borsellino.
La cosiddetta sinistra democratica tace. Ahimè, come al solito.
E siamo passati anche agli attacchi personali contro giornalisti per chiarire al paese il tipo di atmosfera che si intende proporre. Il deputato Calogero Mannino, indagato dalla procura di Caltanisetta, ha attaccato una giornalista de Il Fatto quotidiano, Sandra Amurri, definendola “una mitòmane pericolosa…se fossimo ancora nella germania dell’Est la giornalista sarebbe un’agente della Stasi. Ma fosse ancora in servizio?”.
Un inquietante avvertimento.
Il tutto, scatenato dal quotidiano Il Giornale, come conseguenza di un atto della Amurri, la quale, avvalendosi di una propria prerogativa da lei stessa enunciata “prima di essere una professionista, prima ancora di essere una giornalista, io sono una cittadina della Repubblica, e quindi, quando vengo a conoscenza di alcuni fatti particolari, considero mio dovere rivolgermi all’autorità competente, cioè alla magistratura”.
L’accusa contro di lei consiste, per l’appunto, nel non essere stata omertosa.
E’ un delirio socialmente psicotico, caratteristico di questo paese anormale.
Una giornalista viene al corrente di alcuni fatti “teoricamente” preoccupanti e dopo essersi consultata con il suo direttore, ritiene opportuno chiamare i magistrati e andare a deporre come “testimone al corrente di fatti relativi a un atto giudiziario in corso” e viene duramente attaccata personalmente.
E’ un atteggiamento pericoloso.
Tutta la mia solidarietà alla collega Sandra Amurri, una persona che ha compiuto un gesto e un atto doveroso e normale in un paese anormale; il che la rende, per l’appunto, anormale. Della questione, dopo l’attacco virulento contro di lei comparso su Il Giornale e fatto scrivere da un intelligente e abile editorialista, non se ne parla più.
Vogliono che la gente non sappia. Che non si pensi a tutto ciò. Che non si sappia.
Parlano di lei come “una spia”.
In realtà si tratta di uno scontro tra due diverse interpretazioni del mondo.
Quello di coloro che l’accusano fa riferimento a una frase di Tarcisio Bertone, segretario di stato del vaticano che qualche settimana fa ha detto (a proposito di come funzona la politica) “Chi sa non parla; chi parla, è perché non sa”.
E’ il fondamento della visione omertosa dell’esistenza.
Sandra Amurri, invece, è una cittadina che ha fatto propria la parola d’ordine di Paolo Borsellino “Chi sa, parli. Chi sa qualcosa, deve parlare”.
E’ così che si cambia l’Italia. O quantomeno, ci si prova.
“Chi sa deve parlare e dire ciò che sa”, perché soltanto spezzando l’anomalìa di una visione omertosa dell’esistenza si può combattere la corruzione.
Che importanza può avere nella nostra vita uno spread a 200 o a 400 se ci rimane la consapevolezza di vivere in un paese mafioso?
Qui di seguito riporto la cronaca dei fatti così come l’ha redatta di suo pugno la giornalista Sandra Amurri. L’ha scritta rendendo pubblica la sua vicenda. Ma non l’hanno pubblicizzata. Farlo, non dà vantaggi.
Lo faccio io qui, su questo blog.
Se volete interloquire con lei, la trovate a Il Fatto quotidiano o su facebook.
Ecco la sua relazione:
Sono circa le 12,30 di mercoledì 21 dicembre quando arrivo alla pasticceria Giolitti in via degli Uffici del Vicario, a due passi da Piazza del Parlamento, dove ho appuntamento per ragioni di lavoro con l’onorevole Aldo Di Biagio di Fli. Entro, ma non lo vedo. La voglia di accendere una sigaretta supera anche il freddo pungente. Esco. Mi siedo a un tavolino e ordino un cappuccino. Sono sola.
Poco dopo vedo arrivare, a passo lento, l’onorevole Calogero Mannino in loden verde, in compagnia di un signore dai capelli bianchi, occhiali, cappotto scuro taglio impermeabile e in mano un libro e dei fogli. Non so chi sia. I due stanno parlando. E continuano a farlo fermandosi in piedi accanto al mio tavolo. Mannino, che mi dà le spalle, dice con tono preoccupato e guardandosi più volte intorno sospettoso: “Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
Il suo interlocutore annuisce con cenni del capo e ripete: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. E Mannino ripete: “Fallo subito, è importante, mi raccomando”. Poi, avvicinandosi di più al signore coi capelli bianchi, gli sussurra all’orecchio parole che ovviamente mi sfuggono, ma che suscitano nell’interlocutore un’espressione di meraviglia. Subito dopo, i due si salutano, si abbracciano e si scambiano gli auguri di Natale. Mannino si dirige verso il Pantheon, mentre il signore occhialuto col cappotto scuro verso Piazza del Parlamento, dove poco dopo lo fotografo con il mio iPhone.
Subito dopo mi raggiunge l’onorevole Di Biagio. Il quale, vedendomi un po’ turbata, mi domanda cosa mi sia accaduto. Rispondo genericamente di aver ascoltato Mannino dire cose incredibili. Rientro in redazione nel primo pomeriggio e racconto per sommi capi quello che ho visto e sentito al direttore Antonio Padellaro e al vicedirettore Marco Travaglio. Quest’ultimo, quando gli mostro la foto scattata dal mio iPhone e gli chiedo se riconosca il signore occhialuto coi capelli bianchi, risponde sicuro : “Certo, è Giuseppe Gargani, ex democristiano, demitiano, poi berlusconiano”. Gargani è un ex Dc, ex Ppi, nominato commissario dell’Agcom dal governo dell’Ulivo, poi transitato in Forza Italia e di lì confluito nel Pdl, eletto europarlamentare, ultimamente fondatore di Europa Sud e da poco passato all’Udc di Casini. Alla luce di questa biografia, le parole che ho appena ascoltato diventano tante tessere che vanno a riempire una parte del mosaico.
Annoto quello strano episodio con le parole che ho ascoltato dalla viva voce di Mannino nel mio taccuino: un giorno questi appunti potrebbero tornare utili. Ci ripenso quando leggo che la Procura di Palermo, nel corso dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, è salita a Roma il 12 gennaio per sentire come testimone Ciriaco De Mita. Già so infatti quel che ha dichiarato a suo tempo Massimo Ciancimino: la trattativa fra gli uomini del Ros e suo padre Vito godeva di coperture politiche anche tra le file della sinistra Dc (la corrente, appunto, di De Mita e Mannino).
Mi riservo di approfondire e contestualizzare meglio. Intanto passa qualche altro giorno ed ecco accendersi definitivamente la lampadina quando, il 23 febbraio, le agenzie e i siti battono la notizia che Calogero Mannino, già assolto in Cassazione dopo un lungo e tortuoso processo per concorso esterno in associazione mafiosa, è di nuovo indagato a Palermo. Questa volta per il suo presunto coinvolgimento nella trattativa Stato-mafia. Il reato contestato è quello previsto dall’articolo 338 del Codice penale, aggravato dall’articolo 7 (cioè dall’intenzione di favorire Cosa Nostra): per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”. Lo stesso che vede già indagati il generale ex Ros Mario Mori, l’ex capitano Giuseppe De Donno, il senatore Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano. Approfondisco le ultime mosse dei magistrati e apprendo che durante l’interrogatorio c’è stato un duro scontro tra il pm Antonio Ingroia e Ciriaco De Mita.
Ingroia definisce Mannino, nel periodo che era oggetto dell’interrogatorio, ministro degli Interventi straordinari del Mezzogiorno, De Mita puntualizza: “Ministro dell’Agricoltura”. Ma il pm insiste. “E come fa a permettersi di insistere?”, sbotta De Mita. Il pm replica: “Perché ricordo, ricordo diversamente”. “Giudice – ribatte De Mita – se lei ha la presunzione della verità delle sue opinioni, io temo per gli imputati!”. Ad avere ragione è Ingroia: Mannino fu ministro dell’Agricoltura nel 1982 e ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno dal 12 aprile ‘91 al 28 giugno ‘92. Ma alla fine De Mita aveva dovuto ammettere di avere torto: “È grave, è grave per me…”.
Quanto al ruolo di Mannino, le cronache riferiscono che l’autista di Francesco Di Maggio (il magistrato promosso vent’anni fa vicedirettore del Dap e poi scomparso) ha rivelato ai pm di aver appreso dallo stesso Di Maggio che proprio Mannino fece pressioni affinché non venisse rinnovato il 41-bis ad alcuni mafiosi detenuti. Ecco di che cosa parlava Mannino con Gargani quel mattino poco prima di Natale. Ecco perché appariva così terrorizzato da possibili “voci stonate” sulla trattativa e interessato alla compattezza e all’uniformità delle versioni da parte di tutti gli “amici” della vecchia Dc. Ed ecco, ben chiare di fronte a me, le ultime tessere mancanti del mosaico di quell’episodio che temevo fosse destinato a restare confinato in qualche riga di appunti sul mio block notes.
Ne parlo con qualche mia fonte di ambiente investigativo e ben presto la scena cui ho assistito davanti al bar Giolitti giunge a conoscenza dei magistrati di Palermo. Vengo convocata dai pm Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido che indagano sulla “trattativa” per essere ascoltata come persona informata sui fatti, cioè come testimone nel fascicolo sulla trattativa. Ovviamente accetto di raccontare tutto ciò che ho visto e sentito quel mattino. Dopo verranno subito sentiti i due politici protagonisti del colloquio da me casualmente ascoltato: cioè Mannino e Gargani.
Alla fine, al momento di firmare il verbale, i magistrati mi ricordano che le deposizioni dei testimoni sono coperte dal segreto investigativo. Obietto che sono una giornalista, oltreché la depositaria della notizia. Dunque, ultimate tutte le verifiche per contestualizzare il colloquio Mannino-Gargani, racconterò tutto anche ai lettori. Cosa che ho appena fatto.
Poco dopo vedo arrivare, a passo lento, l’onorevole Calogero Mannino in loden verde, in compagnia di un signore dai capelli bianchi, occhiali, cappotto scuro taglio impermeabile e in mano un libro e dei fogli. Non so chi sia. I due stanno parlando. E continuano a farlo fermandosi in piedi accanto al mio tavolo. Mannino, che mi dà le spalle, dice con tono preoccupato e guardandosi più volte intorno sospettoso: “Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
Il suo interlocutore annuisce con cenni del capo e ripete: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. E Mannino ripete: “Fallo subito, è importante, mi raccomando”. Poi, avvicinandosi di più al signore coi capelli bianchi, gli sussurra all’orecchio parole che ovviamente mi sfuggono, ma che suscitano nell’interlocutore un’espressione di meraviglia. Subito dopo, i due si salutano, si abbracciano e si scambiano gli auguri di Natale. Mannino si dirige verso il Pantheon, mentre il signore occhialuto col cappotto scuro verso Piazza del Parlamento, dove poco dopo lo fotografo con il mio iPhone.
Subito dopo mi raggiunge l’onorevole Di Biagio. Il quale, vedendomi un po’ turbata, mi domanda cosa mi sia accaduto. Rispondo genericamente di aver ascoltato Mannino dire cose incredibili. Rientro in redazione nel primo pomeriggio e racconto per sommi capi quello che ho visto e sentito al direttore Antonio Padellaro e al vicedirettore Marco Travaglio. Quest’ultimo, quando gli mostro la foto scattata dal mio iPhone e gli chiedo se riconosca il signore occhialuto coi capelli bianchi, risponde sicuro : “Certo, è Giuseppe Gargani, ex democristiano, demitiano, poi berlusconiano”. Gargani è un ex Dc, ex Ppi, nominato commissario dell’Agcom dal governo dell’Ulivo, poi transitato in Forza Italia e di lì confluito nel Pdl, eletto europarlamentare, ultimamente fondatore di Europa Sud e da poco passato all’Udc di Casini. Alla luce di questa biografia, le parole che ho appena ascoltato diventano tante tessere che vanno a riempire una parte del mosaico.
Annoto quello strano episodio con le parole che ho ascoltato dalla viva voce di Mannino nel mio taccuino: un giorno questi appunti potrebbero tornare utili. Ci ripenso quando leggo che la Procura di Palermo, nel corso dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, è salita a Roma il 12 gennaio per sentire come testimone Ciriaco De Mita. Già so infatti quel che ha dichiarato a suo tempo Massimo Ciancimino: la trattativa fra gli uomini del Ros e suo padre Vito godeva di coperture politiche anche tra le file della sinistra Dc (la corrente, appunto, di De Mita e Mannino).
Mi riservo di approfondire e contestualizzare meglio. Intanto passa qualche altro giorno ed ecco accendersi definitivamente la lampadina quando, il 23 febbraio, le agenzie e i siti battono la notizia che Calogero Mannino, già assolto in Cassazione dopo un lungo e tortuoso processo per concorso esterno in associazione mafiosa, è di nuovo indagato a Palermo. Questa volta per il suo presunto coinvolgimento nella trattativa Stato-mafia. Il reato contestato è quello previsto dall’articolo 338 del Codice penale, aggravato dall’articolo 7 (cioè dall’intenzione di favorire Cosa Nostra): per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”. Lo stesso che vede già indagati il generale ex Ros Mario Mori, l’ex capitano Giuseppe De Donno, il senatore Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano. Approfondisco le ultime mosse dei magistrati e apprendo che durante l’interrogatorio c’è stato un duro scontro tra il pm Antonio Ingroia e Ciriaco De Mita.
Ingroia definisce Mannino, nel periodo che era oggetto dell’interrogatorio, ministro degli Interventi straordinari del Mezzogiorno, De Mita puntualizza: “Ministro dell’Agricoltura”. Ma il pm insiste. “E come fa a permettersi di insistere?”, sbotta De Mita. Il pm replica: “Perché ricordo, ricordo diversamente”. “Giudice – ribatte De Mita – se lei ha la presunzione della verità delle sue opinioni, io temo per gli imputati!”. Ad avere ragione è Ingroia: Mannino fu ministro dell’Agricoltura nel 1982 e ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno dal 12 aprile ‘91 al 28 giugno ‘92. Ma alla fine De Mita aveva dovuto ammettere di avere torto: “È grave, è grave per me…”.
Quanto al ruolo di Mannino, le cronache riferiscono che l’autista di Francesco Di Maggio (il magistrato promosso vent’anni fa vicedirettore del Dap e poi scomparso) ha rivelato ai pm di aver appreso dallo stesso Di Maggio che proprio Mannino fece pressioni affinché non venisse rinnovato il 41-bis ad alcuni mafiosi detenuti. Ecco di che cosa parlava Mannino con Gargani quel mattino poco prima di Natale. Ecco perché appariva così terrorizzato da possibili “voci stonate” sulla trattativa e interessato alla compattezza e all’uniformità delle versioni da parte di tutti gli “amici” della vecchia Dc. Ed ecco, ben chiare di fronte a me, le ultime tessere mancanti del mosaico di quell’episodio che temevo fosse destinato a restare confinato in qualche riga di appunti sul mio block notes.
Ne parlo con qualche mia fonte di ambiente investigativo e ben presto la scena cui ho assistito davanti al bar Giolitti giunge a conoscenza dei magistrati di Palermo. Vengo convocata dai pm Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido che indagano sulla “trattativa” per essere ascoltata come persona informata sui fatti, cioè come testimone nel fascicolo sulla trattativa. Ovviamente accetto di raccontare tutto ciò che ho visto e sentito quel mattino. Dopo verranno subito sentiti i due politici protagonisti del colloquio da me casualmente ascoltato: cioè Mannino e Gargani.
Alla fine, al momento di firmare il verbale, i magistrati mi ricordano che le deposizioni dei testimoni sono coperte dal segreto investigativo. Obietto che sono una giornalista, oltreché la depositaria della notizia. Dunque, ultimate tutte le verifiche per contestualizzare il colloquio Mannino-Gargani, racconterò tutto anche ai lettori. Cosa che ho appena fatto.
Tutto ciò che merita un approfondimento rimane sovente nascosto. Si dà la notizia, quando non se ne può fare a meno, e si prosegue come se la realtà fosse diversa. E' una tecnica collaudata che viene usata da tutti, destra o sinistra che sia la cultura di riferimento.
RispondiEliminaLa sinistra ufficialmente continua a tacere, ma ha parlato il solito Violante per lanciare i suoi messaggi cifrati e l'assist giusto per intervenire definitivamente sul "concorso esterno" in attività mafiosa. E non è la prima volta che questo signore, protetto dalle sue cariche e dal parlamento, prova a demolire i lavori di molti magistrati che hanno rischiato e rischiano la vita sul campo.
L'Amurri è l'esempio di come sono i giornalisti, o meglio tutti cittadini, di un paese normale. Da noi, che siamo anomali, diventa un problema e nessuno che la sostenga! Se non a parole. La mia speranza ora è che la sua testimonianza possa essere l'imprevista buccia di banana su cui scivola il potere. Non dimentichiamocelo, il processo d'appello a Dell'Utri va rifatto, rimane la condanna a nove anni di primo grado e ciò significa che l'impianto accusatorio ha retto. E non è detto che i nuovi elementi emersi a Caltanissetta, contro Mannino ed altri, non possano peggiorare la stessa situazione processuale di Dell'Utri. Sempre che questo parlamento (il minuscolo è voluto) non trovi il tempo di intervenire sul codice, nonostante i problemi degli italiani siano ben altri.
Che Monti non sia De Gasperi (che aveva cultura mitteleuropea, non a caso) o Pertini è chiaro. Sinora il professore si è limitato ad un basso profilo, ubbidendo agli ordini dell'Europa solo quando fa comodo a B e compagni di merende, Bersani compreso. Una legge seria sulla corruzione neppure la prende in esame, quando basterebbe recepire le indicazioni europee, vecchie di oltre 10 anni. La Rai non si può toccare e B deve avere il lasciapassare per sé ed i suoi pretoriani. Se non è ricatto questo...? Mentre tutti gli altri si occupano d'altro, come il medio di Bossi.
Ma quello che più indigna ed indispone, almeno per me, è che c'è una calma piatta sul governo Monti. Chi osa criticarlo viene guardato come un pericoloso terrorista e la maggior parte dei commentatori si forza di dimostrare che la sua ricetta sta facendo bene all'Italia! Ignorando volutamente che Obama sta aumentando l'occupazione proprio usando ricette opposte, di stampo neokeynesiano. E così gli italiani vengono tenuti nell'ignoranza, anche se poi ogni mese devono ridimensionare i consumi perché questi economisti di Chicago hanno ridotto le entrate ed aumentato le uscite di chi ha già poco di suo, non certo dei plutocrati.
Il guaio è che loro sono in pochi, ma collegati, e noi in tanti isolati e così continuano col "divide et impera". Ma sino a quando?
In Italia il consociativismo è storicamente assodato. Già Togliatti promosse il Concordato con il Vaticano inserendolo in Costituzione e da quel momento non è cambiato molto, se non nelle modalità formali. E col tempo gli intellettuali, i maitre à penser si sono adattati quando hanno capito che per emergere bisognava seguire la corrente. Non dimentichiamoci che il nostro è il paese dei Don Abbondio, dei Don Rodrigo, dei Bravi e degli Azzeccagarbugli, non certo dei Fra Cristoforo...
RispondiEliminaAnche Libertà e Giustizia, nonostante i richiami alla Resistenza, si è adattata preferendo non turbare troppo il macchinista Monti, anche se è chiaro a tutti che il treno rischia di uscire dai binari alla prima vera curva. Per loro bastano solo degli aggiustamente perché da miopi quali sono temono che cambiando il sistema possano perdere i loro privilegi.
Lodevole e da imitare l'iniziativa di Goddard e degli intellettuali francesi, ma qui chi potrebbe muoversi? Ce li vedete Moretti, i Guzzanti, Benigni, Celentano, Grillo a prendere iniziative? Eppure questo è il terreno su cui intervenire: denunce concrete e circostanziate per obbligarli ad uscire allo scoperto ed assumersi la propria responsabilità.
Tutto il resto è... noia e chiacchiere.