di Sergio Di Cori Modigliani
Vi ricordate il titolo de Il Sole 24 ore di qualche mese fa, che a caratteri cubitali, tuonava un suo appello allarmante: “fate presto”?
Con il senno di poi, comprendiamo oggi il Senso di quella richiesta, appello, ordine, ricatto, minaccia, preghiera; attribuitegli il significato che volete.
La realtà (comprendiamo oggi) era che i nodi stavano venendo al pettine e il baratro si presentava davanti, ineluttabile quanto impietoso.
Intendiamoci, non il “baratro” di cui parla Monti e Pierluigi Bersani.
Il “loro” baratro. Che, in realtà, è un “baratro privato”.
Erano le loro banche che andavano in default, erano le loro finanziarie che stavano per fallire, era il fiato dei magistrati e dei finanzieri che bussavano alle loro porte, erano le aziende decotte e spolpate dalla classe politica corrotta che stavano saltando. Si capiva annusando l’aria che Berlusconi & co. sarebbero stato spazzato via, di lì a giorni, con un capitombolo che avrebbe inevitabilmente dato la stura a Tangentopoli 2. Trascinandosi appresso i compagni di cordata e di bagordi economici, destra o sinistra che fossero.
La sinistra cosiddetta democratica lanciava editti allarmistici del tipo “c’è il pericolo di una deriva di estrema destra”. Faceva da pendant la cosiddetta destra democratica che spaventava i propri polli spiegando che “caduto Berlusconi arrivano i comunisti e l’estrema sinistra”. Da cui, l’idea del governo tecnico, ecc.
Quattro mesi dopo, la situazione economica è precipitata. Questa è la realtà oggettiva.
Per quanto suoni paradossale e tragicamente ridicolo, non si può, oggi, non sottoscrivere l’estemporanea uscita di Nichi Vendola (anche lui da sempre un convinto anti-Berlusconi) che ieri sera dichiarava “Fermate Monti. Questo governo è molto ma molto peggio di quello di Berlusconi”. Il che è vero.
In quattro mesi il governo è riuscito a portare il disavanzo pubblico da 1.894 miliardi di euro a 1.945, nel nome di “sto qui per abbattere il disavanzo pubblico”.
E’ riuscito a portare il debito sul pil da circa 115 a 130 con una impennata che non si vedeva nell’economia del paese dal 1993. Il tutto nel nome “abbatteremo la percentuale di debito sul pil e già nei primissimi mesi del 2012 lo vedremo calare verso i 100”.
E’ riuscito a portare le dieci prime grandi banche italiane sull’orlo del fallimento. Il tutto nel nome di “abbiamo salvato le banche, abbiamo assicurato la finanza italiana, il nostro sistema bancario è il più solido d’occidente”. E’ considerato il più traballante, quello maggiormente a rischio e il più inquinato d’occidente, di gran lunga (ma davvero di gran lunga) peggiorato rispetto all’ottobre del 2011.
Il governo non ha ottenuto nessun risultato.
E’ fallito quasi in tutti i campi: economico, finanziario, sindacale, culturale, esistenziale. Ha fatto centro soltanto in un campo: quello del definitivo e totale asservimento della truppa mediatica italiota, ormai completamente arresa al nuovo sistema dittatoriale sostenuto soprattutto di burocrati del PD e del PDL in chiara e inequivocabile combutta.
Il giornalista Francesco Maria Toscano, sul suo blog “Il Moralista”, notava giustamente oggi la deriva spaventosa che l’asservimento bècero della stampa sta raggiungendo in questi giorni. Ad un livello che nemmeno nel 1932 sotto Mussolini si era visto.
Ecco qui di seguito un breve estratto del suo pezzo a commento dell’uscita di Pier Luigi Battista sul corriere della sera, ormai senza pudore, nel presentare al lettore l’attuale governo come “un’autentica dittatura” ma allo stesso tempo spiegando perché va sostenuto: è la tesi di Bersani, di Veltroni, ecc.
Nemmeno per scherzo bisognerebbe inneggiare a qualsivoglia tipo di dittatura. Probabilmente non la pensa così Pierluigi Battista che nel supplemento “Sette”, numero 12, del Corriere della Sera, titola un suo pezzo “Viva la dittatura tecnica”. Sottotitolo: “Speriamo che ci salvi dal ritorno dei politici, dalle ‘narrazioni’ sconclusionate di Vendola, dalle manette verbali di Di Pietro”. Il sentimento dell’antipolitica di Battista si scaglia contro un politico come Vendola che non siede nemmeno in Parlamento e contro l’ex PM di Mani Pulite reo di non sostenere il governo Monti. Battista, in spregio della democrazia e della Costituzione, sostiene: “Dicono e auspicano che nel 2013 possa ritornare la ‘politica’. Speriamo di no. Speriamo in un congruo prolungamento della dittatura tecnica”. Poco dopo prosegue: “che i tecnici, dopo aver salvato l’Italia dalla bancarotta (?, ndr) e dal mal di spread, ci salvino pure dall’invadenza della politica. E’ una supplica”. Battista, chiude il suo articolo con un patetico invito all’armi: “Tecnici salvateci voi. Armatevi di spread e colpite duro. Tutto ma non il ritorno degli zombie. Non ce lo meritiamo più”.
Anche la Repubblica che ieri sera aveva avuto un sussulto di decoro civile nella sua edizione on-line, oggi invece, spiega (in linea con tutti gli altri) perché e come vada sostenuto questo governo il cui fine dichiarato consiste nel destrutturare l’industria italiana, colpire il lavoro sia come occupazione che come investimento imprenditoriale e approfittare del fatto che gestisce l’esecutivo per far trasferire i miliardi dalla BCE ai consigli di amministrazione di banche decotte, nessuna delle quali è gestita da esperti banchieri di professione oppure economisti esperti in finanza, bensì sono tutte (nessuna esclusa) amministrate da funzionari provenienti dal PD dal PDL dall’Udc e dalla Lega Nord, molti di loro con un modesto diploma di ragioneria; in circa 250 banche della Lombardia e del Veneto addirittura con un modestissimo diploma di scuola media e curriculum vitae piatti e inesistenti: insieme controllano il 97% del sistema bancario italiano. E’ l’unico caso in occidente in cui le banche sono gestite e amministrate direttamente dai partiti.
Monti deve coprire circa 600 miliardi di euro, e lo farà aumentando la spesa pubblica (fingendo di volerla combattere) perché la tasse servono a coprire i disavanzi di banche il cui fine non è fare affari, bensì essere un anello di una gigantesca cinghia di trasmissione che serve a mantenere qualche milione di persone in Italia: i vari sostenitori dei partiti che reggono le banche.
Non abbiamo molto tempo.
E c’è chi si sta muovendo avendo capito che partiti come il PD sono ormai irrecuperabili alla passione civile, al decoro, alla democrazia perché sostengono l’applicazione delle catastrofiche e malsane ricette neo-liberiste. Mi dispiace per le innumerevoli persone per bene che ci lavorano dentro, ma la Storia impone l’assunzione di responsabilità, e devono avere il coraggio adulto di compiere delle scelte, compreso il blando e ambiguo Stefano Fassina che insiste nel giocare su due tavoli: manifestare in pubblico (purchè in camera caritatis) il proprio dissenso, ma poi in direzione e alla camera vota a favore. Si vede che ha lavorato per anni al Fondo Monetario Internazionale. Troppo facile. E’ come andare al casinò e puntare la stessa cifra sul rosso e sul nero: si finisce inevitabilmente sempre pari, anche se ci si sta centomila anni. Ma allora è inutile giocare se l’obiettivo è lo stallo. Evidentemente hanno un loro guadagno che noi non vediamo, altrimenti è una posizione incomprensibile, indifendibile, indiscutibile.
Ma c’è chi, invece, la pensa diversamente.
E parlo qui di persone di eccelso e riconosciuto calibro, come l’economista Piero Bevilacqua, l’economista Guido Viale, lo storico contemporaneo Paul Ginsborg, il giurista Stefano Rodotà, credo –tra tutti i vecchi naviganti di lungo corso- in assoluto la persona migliore ancora attiva politicamente in Italia: una carriera senza sbavature.
Insieme ad altre centinaia di persone pensanti, (molti dei quali eccellenti persone oneste fuggite a gambe levate dal PD negli ultimi mesi) hanno capito che non c’è più tempo e hanno lanciato pubblicamente tre giorni fa il manifesto programmatico per la costruzione del cosiddetto “quarto polo” alternativo, denunciando il piano politico neo-liberista che ormai –lo capisce anche un bambino- ha come dichiarato obiettivo quello di affossare la nazione per sempre. Se passa la linea Monti, l’Italia non si riprenderà mai più.
L’hanno capito tutti, ormai.
Qui di seguito riporto in copia e incolla l’intera proposta, comprese le firme dei relatori e dei primi aderenti. Consiglio a tutti di leggere con attenzione il testo. Vale la pena. Se volete aderire e partecipare attivamente con un vostro scritto, andate a http://www.soggettopoliticonuovo.it/ e lì trovate tutte le informazioni di cui avete bisogno.
Ha un linguaggio diverso dai consueti pomposi toni di membri della truppa mediatica mascherati da oppositori. Merita un’attenta attenzione.
E’ piuttosto lungo. Prendetevi il tempo necessario e poi, se vi va, esprimete la vostra opinione al riguardo.
Le cose peggiorano ogni giorno. E’ tempo di rimboccarsi le maniche e passare dalla protesta alla proposta, dal dire al fare, dalla divisione alla condivisione.
Ha fatto bene Toscano a commentare il pezzo di Battista: è la dimostrazione della violenza mediatica attraverso la quale intendono colpire. Bisogna, quindi, cominciare a reagire.
Manifesto per un soggetto politico nuovo
per un’altra politica nelle forme e nelle passioni
Non c’è più tempo
Oggi in Italia meno del 4% degli elettori si dichiarano soddisfatti dei partiti politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino rabbia. Al cuore della nostra democrazia si è aperto un buco nero, una sfera separata, abitata da professionisti in gran parte maschi, organizzata dalle élite di partito, protetta dal linguaggio tecnico e dalla prassi burocratica degli amministratori e, in vastissima misura, impermeabile alla generalità del pubblico. È crescente l’ impressione che i nostri rappresentanti rappresentino solo se stessi, i loro interessi, i loro amici e parenti. Quasi fossimo tornati al Settecento inglese, quando il sistema politico si è guadagnato l’epiteto di ‘Old Corruption’.
In reazione a tutto questo è maturata da tempo, anche troppo, la necessità di una politica radicalmente diversa. Bisogna riscrivere le regole della democrazia, aprirne le porte, abolire la concentrazione del potere ed i privilegi dei rappresentanti, cambiarne le istituzioni. E allo stesso tempo bisogna inventare un soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera pubblica e di raccogliere questo bisogno di una nuova partenza. I due livelli – la democratizzazione della vita pubblica del paese e la fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto. Le nostre sono grandi ambizioni ma siamo stanchi delle clientele che imperversano, dell’appiattimento della politica su un modello unico, delle partenze che non partono. E poi, con la destra estrema che alza la testa in tutta l’Europa, si fa sempre più pressante lo stimolo ad agire, a non lasciare una massa di persone in balia alle menzogne populiste.
Oggi la sfera separata della politica in Italia, ‘il palazzo’ per intenderci, non rappresenta affatto parti intere del paese: le persone giovani, specialmente del Sud e donne, che non trovano sbocco ai loro sogni e ai loro percorsi educativi; le operaie e gli operai, che vedono giorno dopo giorno minacciati i loro diritti dentro la fabbrica, le commesse e i commessi intrappolati nella catena della distribuzione, i ceti medi del pubblico impiego, quelli della scuola, della sanità, dell’ amministrazione pubblica, che in questi anni sono stati tartassati e disprezzati; i giovani precari, spesso super-qualificati, vittime di una flessibilità selvaggia neoliberista inizialmente introdotta dal centro-sinistra che ha tolto loro dignità e futuro, la rete dei microproduttori e del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione entrata in crisi con la recessione. Tutti questi elementi possono mobilitarsi nella società per poi trovare nel palazzo solo un muro di gomma o un ascolto distratto. E’ ora di spezzare questi meccanismi perversi. Al loro posto proponiamo un nuovo percorso in cui i cittadini riescano ad appropriarsi, attraverso processi democratici diversi, del potere di contare e di decidere.
La ‘poesia pubblica’, per utilizzare la frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della Repubblica. E lo farà quando un gruppo sempre più grande di cittadini (donne ed uomini) qualificati, informati e attivi decideranno di farne la loro bandiera.
A. Diffondere il potere, non concentrarlo.
Oggi le decisioni sono sempre prese altrove – non a livello comunale ma regionale, non nel parlamento romano ma a Bruxelles, non a Bruxelles ma a Francoforte, non alla BCE ma dai ‘mercati’, strane creature che vivono solo di giorno ma che decidono tutto lo stesso, sia per il giorno che per la notte. Il nostro compito è di frenare per quanto possiamo questa fuga decisionale verso l’alto, l’inspiegabile e l’astratto. Bisogna innescare un processo opposto che destituisca, decostruisca, ceda, decentri, abbassi, distribuisca, diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della dimensione territoriale locale (ma non’ localistica’), espandendo tutti quegli spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l’uno all’altro. Il comune è uno di questi. Carlo Cattaneo, una delle più belle ed inascoltate voci del nostro Risorgimento, nel 1864 descrisse il comune come ‘la nazione nel più intimo asilo della sua libertà’. E aggiunse, con un pizzico di amarezza: ‘pare che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi’. Ridare spazio e poteri ai comuni, e metterli in contatto tra di loro sarebbe già in sé una ‘cosa grande’. La Rete dei comuni per i beni comuni punta in questa direzione, verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei diritti fondamentali ad essi collegati. E punta anche ad agire dal basso verso l’alto, costituendo una sede congeniale per proposte da sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del reg. UE n.211/2001. Si pensi, per esempio, al progetto di una ‘Carta Europea dei Beni Comuni’, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell’Unione e fronteggiare la dimensione puramente mercantile (market oriented) del diritto comunitario. In questo modo il potere locale riesce ad aggregarsi, a contare a livello nazionale, a diventare forza anche transnazionale ma sempre quale attuazione di un indirizzo politico espresso dal basso e soprattutto dalla cittadinanza attiva.
Non basta. Il comune è un’istituzione costituzionale, non un’aggregazione di una certa tendenza politica. Un soggetto politico nuovo dovrebbe impegnarsi su tanti terreni, sia dentro le istituzioni che fuori, cercando sempre di coniugare fra di loro livelli diversi della democrazia: quella rappresentativa, quella partecipativa e quella di prossimità. In prima istanza esso dovrebbe interagire con le forze e movimenti della società civile. Essi agiscono per una grande varietà di motivi – in nome dell’ambiente, in difesa dei diritti dei lavoratori, per la legalità e contro la criminalità organizzata, per la dignità e la parità delle donne – in un mondo (e un mondo di lavoro) ancora profondamente patriarcali. Nel rapporto tra i generi l’eguaglianza non può limitarsi alle “pari opportunità” cioè ad accomodamenti (pur necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma diviene un processo in grado di sovvertire l’esistente. Chi vive una situazione di ineguaglianza non può limitarsi a voler essere uguale a chi si ritiene superiore o più potente, al contrario aspira al superamento dei vecchi modelli.
Tutte queste istanze della società civile sottolineano giustamente la loro specificità e autonomia; molte insistono anche sull’informalità e spontaneità delle loro strutture. Ma allo stesso tempo tutte hanno un bisogno disperato di connettersi fra loro e con le sedi decisionali, di presentare i loro punti di vista nelle istituzioni e di riformare quelle istituzioni stesse. Si cerca un nuovo tipo di relazione politica: che forma potrebbe mai assumere una volta che ci si rende conto dell’inadeguatezza del sistema attuale della rappresentanza?
B. Il nuovo spazio pubblico della democrazia
A metà dell’Ottocento John Stuart Mill era convinto che il nuovo sistema rappresentativo garantisse a ‘tutte le voci ‘ del Regno di farsi sentire nel parlamento. La storia gli ha dato torto. Anche in virtù della deriva maggioritaria, i parlamenti si sono sempre più allontanati dal paese reale, e sempre più i parlamentari rappresentano, in primo luogo, se stessi. La democrazia rappresentativa ha bisogno, dunque, sia di una sua riforma interna in senso proporzionale, sia di essere arricchita da nuove forme di democrazia partecipativa. Ciò che vale per il sistema politico nazionale è ancora più vero per i partiti in cui la democrazia ha sempre fatto fatica ad imporsi. La teoria che sottende ai cambiamenti deve essere resa esplicita: il sistema rappresentativo è l’unico che garantisce la partecipazione di tutti i cittadini in condizioni di voto segreto. Esso gioca di conseguenza un ruolo insostituibile. Ma per affrontare l’attuale crisi deve essere associato alla democrazia partecipativa E il punto cruciale riguardante il rapporto tra i due risiede nel fatto che l’attività costante della partecipazione alimenta e garantisce, stimola e controlla la qualità della rappresentanza e la qualità della politica pubblica.
In altre parole è emersa in questi ultimi anni una domanda esplicita di rottura che ha al suo centro una nuova percezione dello spazio pubblico, che non può essere ridotto né all’attività, sempre più degradata, dei partiti, né ai codici di per sé privatistici, del “mercato”. Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più inclusiva: delle nuove forme di partecipazione dei cittadini, della gestione dei beni comuni, della società civile che interagisce, in piena autonomia, con una sfera politica che si apre alla cittadinanza invece di chiudersi come un riccio.
Processi di questo tipo cambierebbero in positivo anche il delicato rapporto tra privato e pubblico. Nei decenni del neoliberismo abbiamo assistito al trionfo del privato, declinato in vari modi: consumismo, chiusura nell’interesse personale, familismo, evasione fiscale; ma anche, sul versante opposto, solitudine, frammentazione, esclusione. Sarebbe ora di riattivare e riapplicare quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni ’60 e ’70: ‘il personale è politico’. Le persone, uomini e donne, devono riflettere sul loro ‘privato’ – i loro valori, consumi, strategie individuali e familiari. Questa riflessione ha rilevanza per lo spazio pubblico di più grande emergenza – l’ambiente. Una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni richiede una trasformazione qualitativa e relazionale del rapporto tra spazi pubblici e privati, così da perseguire la giustizia ambientale e sociale. I destini del pianeta non possono essere affidati esclusivamente ad interessi individualistici, guidati dal tasso di profitto a breve termine e dalla negazione della dignità del lavoro. In coerenza con una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni, occorre invece coniugare i doveri e i diritti, per costruire relazioni equilibrate per l’insieme della collettività.
Troppe volte la ‘partecipazione’, come viene praticata dai partiti ansiosi di dimostrare la loro disponibilità e la loro ‘modernità’, ha assunto il volto dello ‘sfogatoio’, con assemblee caratterizzate da un confusionismo generale. Occorre invece uscire da questa mistificazione della sovranità popolare, e allo stesso tempo destrutturare una sovranità popolare totalmente fondata sulla delega. Occorre trasformare il livello prepolitico della partecipazione in diritto alla democrazia. Possiamo infatti mutuare i principi della Convenzione europea di Aarhus – legge dello Stato a partire dal 2001. La Convenzione, attraverso l’istituto della partecipazione, riduce la discrezionalità delle scelte politico-amministrative, obbligando le istituzioni a prendere in considerazione le istanze partecipative e ad argomentare in maniera più circostanziata le proprie decisioni.
In questo senso il Laboratorio Napoli “Per una Costituente dei beni comuni” prevede sedici consulte divise per macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il ruolo dei facilitatori. L’informazione deve costituire il presupposto per una reale partecipazione. Il processo partecipativo è normato e calendarizzato, la sua violazione può determinare l’annullamento degli atti amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione.
Un altro esempio di partecipazione, disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi rapidissimi.
Un altro ancora viene chiamato PARTY (partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). E’ un metodo ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology), che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali che nazionali. Un’assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un’altra per prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report un’opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla plenaria. L’interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo tipo di democrazia partecipativa.
Di tutte le forme di democrazia partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di continuità temporale durante l’anno, non limitata a una singola occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi democrazia – gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di trasparenza e responsabilità.
C. Forme e pratiche di una nuova aggregazione
La degenerazione degli attuali partiti politici oscura e mortifica gli ideali di molte persone che, soprattutto a livello di base, vi militano in buona fede e con generosità. La volontà di partecipazione, di “far da sé”, di riprendere in mano il bandolo del discorso pubblico, richiede invece un modello di pratica e di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello formatosi nel lungo ciclo novecentesco. Non possiamo più accettare un modello incentrato sulla stretta identificazione di “sfera pubblica” e di “sfera politica” con un tendenziale primato della seconda sulla prima, in quanto luogo di espressione della “forma partito” intesa come unico soggetto dotato di voce e legittimazione.
I nostri Costituenti, nello scrivere l’art. 49, avevano immaginato i partiti come luoghi di mediazione, corpi intermedi fra società e istituzioni politiche. Luoghi nei quali potesse formarsi e organizzarsi il consenso. Ma il principio costituzionale che i partiti devono concorrere “con metodo democratico” alla vita politica nazionale, è stato realizzato solo parzialmente, in riferimento alle relazioni esterne dei partiti. In realtà s’immaginava che il metodo democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei partiti, sulla base di principi quali la solidarietà, l’eguaglianza, la pari dignità, la trasparenza. Una volontà velocemente disattesa da un sistema politico che si è progressivamente organizzato con strutture opache, piramidali, fortemente escludenti.
I partiti politici attuali sono così diventati organizzazioni completamente anacronistiche rispetto ad un modello di democrazia che non può più esaurirsi nella rappresentanza e nella delega. Il fondamento giuridico leggero che li intende quali libere associazioni di cittadini non riconosciute (Codice civile) risulta paradossale. Essi incredibilmente si trovano nella posizione di godere da un lato di tutti i benefici di un soggetto privato, dall’altro di avere accesso ad ingenti risorse pubbliche. Un mostro a due teste che si appella al diritto di riservatezza, proprio dei soggetti privati, mentre vive di risorse pubbliche in una dimensione opaca, espressione di corruzione e perversa contaminazione di interessi pubblici-privati.
Noi vogliamo invece affermare l’interpretazione autentica dell’espressione “metodo democratico”, vogliamo un soggetto politico che, oltre i partiti, sappia muovere dai fondamenti costituzionali per creare nuovi modelli di partecipazione politica, fondati sulla passione, la trasparenza e l’altruismo.
In primo luogo il soggetto nuovo, nelle sue regole e pratiche, dovrebbe mettere l’accento sull’inclusione. L’immagine dei partiti arroccati ai propri privilegi e separati dal resto della società, dediti all’hollowing out, allo svuotamento della democrazia – sempre più potere nelle mani della leadership, sempre meno democrazia interna, sempre meno iscritti (Peter Mair) – dovrebbe cedere il passo a un’altra, totalmente diversa, basata sull’allargamento dello spazio pubblico della politica, non sulla sua restrizione. Dentro questo spazio, non più separato dalle istanze della società, si muoverebbe una pluralità di attori politici nuovi. Si passa così dall’esclusione verticistica (il tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi leader) all’inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una struttura basata su regole democratiche. La struttura del nuovo soggetto non sarebbe piramidale ma confederale, senza un centro ‘nazionale’ fisso ma con un coordinamento itinerante e a rotazione che si sposta regolarmente da regione a regione. I singoli individui si aggregano in modo egualitario sia alla sfera della discussione e della decisione, sia a quella dell’azione, ognuno nei limiti delle sue possibilità e delle sue disponibilità di tempo. A tutti i livelli cerchiamo le forme politiche che consentiranno realisticamente la possibilità di confrontarsi e decidere insieme (vedi sopra nel paragrafo B). Ci interessa un luogo dove si sperimentino pratiche fondate sul “potere di” piuttosto che sul “potere su”.
Il “soggetto nuovo” nascerà da un’istanza diametralmente opposta a quella che ha guidato quasi tutti i processi organizzativi novecenteschi. Organizzarsi, secondo quel modello significava unificare gli identici, raccogliere in un unico contenitore (modellato gerarchicamente sulla struttura statale) gli “omogenei” – coloro che condividono gli stessi valori, gli stessi linguaggi, gli stessi ideali, gli stessi interessi e gli stessi luoghi. Crediamo invece che organizzare, oggi, voglia dire mettere in connessione le diversità: culturali, etniche, linguistiche. Inventare la forma della convivenza in un mondo e in una società in cui quello che era distante e separato tende a convergere e intrecciarsi. L’organizzazione politica dovrebbe essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi linguaggi di un dialetto universale in grado di superare la separatezza Una politica che sappia emanciparsi dalla coppia schmittiana “amico-nemico”. Che sappia trovare la propria “essenza” non nell’esclusione reciproca (e nel conflitto tra identità chiuse e separate) ma nell’inclusione e nella contaminazione-connessione-ibridazione tra identità.
Una serie di regole semplici e condivise che in questi anni sono diventate patrimonio comune determineranno il comportamento del nuovo soggetto nelle istituzioni e fuori di esse. Adozione di un codice etico e dunque politico nella ricerca e accettazione dei finanziamenti, rifiuto della gestione clientelare di risorse e consulenze, primarie per la selezione dei candidati o assemblee partecipate nei piccoli comuni, limiti e vincoli di mandato, rotazione negli incarichi di direzione, trasparenza nell’uso delle risorse. La vita interna del nuovo soggetto si baserà anch’essa su alcune semplici regole di base: prendere le decisioni ricercando in modo prioritario il massimo consenso possibile; quando occorre procedere al voto con il sistema “una testa un voto”, unire il rispetto delle decisioni maggioritarie con la salvaguardia dei diritti delle minoranze, possibilità per tutti di votare in modo regolare e segreto. Nelle riunioni del nuovo soggetto, considerazioni di genere devono assumere un posto di massima importanza: nessuna tolleranza per i soliti maschi accentratori. Tempi stretti di intervento, ascoltare ciascuno/a e fare in modo che ciascuno/a parli, report tempestivi delle riunioni.
La chiave della vita interna dovrebbe essere la prevenzione insieme all’invenzione: prevenzione di tutte quelle forme di burocratizzazione e di oligarchia che hanno sempre caratterizzato i partiti socialdemocratici (per non parlare di quelli democristiani), un’invenzione che si nutre di una partecipazione dal basso sempre più formata politicamente: negli ultimi anni, tante delle persone coinvolte nelle campagne referendarie e in mobilitazioni simili si sono informate, studiando, sostituendosi così ai partiti nelle proposte di nuove politiche. La formazione, ormai assente nelle strutture partitiche (con gravi danni non solo a livello nazionale, ma anche nelle amministrazioni locali, con politici sempre più ignoranti) è un terreno su cui ritornare a impegnarsi. Più estesa la scala, più arduo diventa il nostro compito. In ogni caso la nuova democrazia deve camminare mano in mano con l’efficacia. Oltre al come si decide, diventa importante come si funziona. E’ del tutto inutile rimpiazzare la repubblica delle banane o quella dei “tecnici” con una delle chiacchiere.
Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.
Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.
D. Comportamenti e passioni
Le regole formali, preziose e insostituibili, non sono sufficienti. Ad esse va associata la lenta ma costante creazione di una cultura profondamente diversa. Per troppo tempo abbiamo scelto di escludere dal campo della politica qualsiasi riflessione sulle passioni e sui comportamenti individuali. Un esempio fra tanti: la cultura della pace. Siamo bravi a predicare la non-violenza a livello internazionale ma molto meno a praticarla come virtù sociale. Le relazioni tra di noi nella sfera pubblica politica rimangono piuttosto primitive, senza alcun guida. Anzi. Abbiamo accettato fin troppo facilmente che la nostra pratica politica sia intrisa della violenza e della competitività, una forma di ‘neo-liberismo interiorizzato’. Superare una cultura così longeva e insidiosa non è questione di una stagione politica. Ma riconoscere la legittimità del tentativo è già un grande passo in avanti.
Quando parliamo delle passioni e delle emozioni viene in mente primo di tutto un discorso sul loro governo. Tante volte consentiamo che siano le passioni negative – l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira – e i comportamenti sociali che ne derivano – la rivalità, la voglia di sopraffare, il perseguimento dei propri interessi in modo esclusivo – a guidare le nostre azioni. E spesso lo facciamo con una grande inventiva, rappresentando i dissidi come ‘differenze oggettive ’, negando con veemenza le loro origini soggettive. Questo approccio rende la sfera pubblica politica paragonabile a una grande giungla preistorica, dominata da ‘ego-mostri’ – politici moderni gonfiati dall’attenzione incessante dei media. Un primo passo, dunque, verso una nuova politica in questo campo sarebbe un discorso centrato sul governo e sull’autogoverno delle passioni, l’invito forte all’autodisciplina, la produzione di un codice di comportamento.
Soprattutto dobbiamo negare spazio a una delle passioni più dannose – il narcisismo. Siamo stufi di leader narcisi e non vogliamo semplicemente affidarci a figure carismatiche, incoraggiate al massimo dalla moderna personalizzazione della politica. Non sopportiamo il protagonismo sfrenato e l’auto-compiacimento senza fine. Se il nuovo soggetto politico venisse concepito come veicolo per una leadership che si presenta in questo modo, avrebbe poca possibilità di crescere e fiorire.
Le passioni non esistono però solo per essere governate. Una seconda riflessione invita al superamento della classica contrapposizione tra ragione e emozioni, la prima vista come positiva e civilizzante, le seconde giudicate negative e primitive. Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto per gli altri. Non cerchiamo una nuova sfera politica di auto-abnegazione e di sacrificio, in cui l’individuo si annulli a servizio della causa comune. Cerchiamo invece l’autorealizzazione individuale in un contesto collettivo radicalmente nuovo, all’insegna dell’eguaglianza. Sarebbe interessante sperimentare di più il sentimento dell’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altra/o, in termini non solo personali ma politici, praticando quella “salda comunanza” (Martha Nussbaum) che esalta le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità.
Tutto questo può trovare una prima verifica nella sfera della micro-politica, la cultura sottostante e di supporto alle regole formali e alle grandi riunioni nazionali. E’ qui che i partiti politici tradizionali danno il peggio di sé. Abbiamo visto dirigenti dei partiti venire alle riunioni e poi leggere ostinatamente i giornali finché non è il loro turno di parlare o quello di un altro dirigente (rivale). Abbiamo visto ovunque i tipici atteggiamenti maschili – non solo di uomini – per cui ci si preoccupa solo del proprio intervento, poi si riaccendono i cellulari e ci si mette a chiacchierare in fondo alla sala. Tutti arrivano in ritardo: più importante sei, più in ritardo arrivi. Tutto l’impasto di una riunione o di un’assemblea assume l’aspetto livido di una contusione, di una profonda e persistente ferita alla democrazia. Da quel terreno cosa può scaturire di nuovo o di buono?
A livello di micro-politica un soggetto nuovo metterebbe invece l’accento su un modo di comportarsi radicalmente diverso, all’insegna dell’eguaglianza e della cooperazione fra generi, della capacità di ascoltare, della puntualità, dell’incoraggiare alla partecipazione i più timidi o chi ha meno esperienza. Ritroverebbe una fisicità della politica oltre le reti virtuali di Internet, avrebbe attenzione alla massima circolazione dell’informazione interna e cura che i nuovi partecipanti non si sentano “ospiti”, ma protagonisti alla pari degli altri. A predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza e della fermezza. Il mite, scrive Norberto Bobbio, ‘è l’uomo [donna] di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé’. Alle sue qualità intrinseche ne viene aggiunta un’altra – quella della fermezza, la capacità di non cedere, come ci ha insegnato Gandhi, ma di insistere con pacatezza. Così la cultura politica nuova si distanzia mille miglia da quella classica del Novecento, basata com’era in grande parte sul machiavellismo, sulla realpolitik, sulla furbizia e l’autoreferenzialità.
Per concludere:
quattro nodi radicali e di rottura per un soggetto politico nuovo e una proposta
1. Si rompe con il modello novecentesco del partito, introducendo nuove regole e pratiche: trasparenza non segretezza, semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, servizio non carrierismo, eguaglianza di genere non enclave maschili, direzione e coordinamento collettivo e a rotazione, non di singoli individui carismatici.
2. Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell’eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro. Si insiste invece sulla centralità dei beni comuni, la loro inalienabilità, la loro gestione democratica e partecipata.
3. Si rompe con la visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti. Si lavora invece per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati.
4. Si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni, rompendo con le pratiche mai esplicitate ma sempre perseguite dal ceto politico attuale: la furbizia, la rivalità, la voglia di sopraffare, il mirare all’interesse personale. Al loro posto mettiamo l’inclusività, l’empatia, la mitezza coniugata con la fermezza.
Una proposta:
Il futuro di questo manifesto, del progetto di radicale rinnovamento della soggettività politica che esso propone, è nelle mani di tutti e tutte coloro che lo desiderano attivamente. Si può iniziare dall’impegno a promuovere incontri, inventare momenti partecipativi e occasioni di confronto fondate su una comune condizione sociale o sul radicamento attivo nei territori. Una mobilitazione diffusa e connessa, che non imponga esclusività di appartenenze e che si ritrovi poi in un primo appuntamento nazionale.
Inoltre si può pensare che sia positiva la presenza alle elezioni amministrative di liste di cittadinanza politica che prendano a riferimento e contribuiscano a costruire questo progetto nazionale. Una rete orizzontale di rappresentanza che sia radicata nei territori e connotata dagli elementi di metodo prima indicati: democrazia, governo partecipato dei beni comuni, etica, nuova cultura delle relazioni. Non si tratta di aggiungere sigle contro tutto e tutti, né di sommare esperienze locali che restano locali, tanto meno di chiudersi nel recinto di una radicalità ideologica.
Vogliamo costruire un soggetto che determini una trasformazione complessiva, costruisca anche alleanze e mediazioni ma con l’ambizione tutt’altro che minoritaria di mettere in campo un’altra Italia. Di lavorare per un’altra Europa.
Primi firmatari: Andrea Bagni, Paul Ginsborg, Claudio Giorno, Chiara Giunti, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Nicoletta Pirotta, Marco Revelli, Massimo Torelli, (Redattori del testo) Giuseppina Antolini, Danila Baldo, Giuliana Beltrame, Piero Bevilacqua, Valter Bonan, Paolo Cacciari, Nicoletta Cerrato, Adelaide Coletti, Emmanuele Curti, Sergio D’Angelo, Giuseppe De Marzo, Gianna De Masi, Silvia Dradi, Luigi Ferrajoli, Dario Fracchia, Luciano Gallino, Domenico Gattuso, Luca Giunti, Celeste Grossi, Danilo Lillia, Marinunzia Maiorani, Teresa Masciopinto, Luca Nivarra, Leo Palmisano, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Anna Picciolini, Marina Pivetta, Sandro Plano, Chiara Prascina, Corinna Preda, Giuliana Quattromini, Leana Quilici, Alessandro Rampiconi, Domenico Rizzuti, Stefano Rodotà, Chiara Sasso, Enzo Scandurra, Laura Tonoli, Mapi Trevisani, Vittorio Vasquez, Fulvio Vassallo Paleologo, Guido Viale.
Da bambino all'uscita dal cinema dopo aver visto un cortometraggio su Mussolini, a mio padre, vecchio fascista, ho chiesto- Ma come potevi credere a un imbecille cosi?- Ci fu un attimo di silenzio, mia madre impallidì, poi lui mi rispose "Fuori dalle circostanze che le hanno prodotte non si possono spiegare certe cose."
RispondiEliminaAnni dopo in un filmetto Luce vidi e senti i democratici antifascisti
a Bari nel 43. Non dico di aver capito le circostanze ma le ho intraviste.
Ieri leggevo questo:
Fondi ai giovani ricercatori italiani
Il Partito democratico cancella il merito
"La gestione dei soldi così tornerà ai baroni"
Oggi leggo, sintetizzo molto
"...cerchiamo larghe alleanze...
Per far che'. Andare a Puerto Allegre a discuterne?
Dal 1968 questo paese non e'stato capace di far un salto nella modernita'. A preferito pagare, comprare ogni possibile opposizione.
Lasciamo perdere chi e' stato emarginato, criminalizzato. Adesso
non hanno piu' soldi, solo un vecchio e decrepito stato che ben li
rappresenta e una moneta che non e' la loro.
Sinceramente mi viene solo in mente l'ultima scena di Via col vento quando lei chiede -E'di me cosa ne sara'?
Che qualcosa bisogna fare prima che sia troppo tardi lo capiscono in tanti quando la banca rifiuta un finanziamento o uno scoperto di poche migliaia di euro, nonostante i buoni rapporti del passato. E gli impiegati-amici ti fanno capire che hanno ricevuto dalla Banca d'Italia ordini ben precisi perché alla loro politica interessano solo i grandi: preferiscono la famiglia Ligresti con 2,5 miliardi di euro di scoperto al commerciante che deve tamponare per pochi giorni con 5.000,00 euro. E' questa la politica neoliberista all'amatriciana che ha ben poco a che fare con il vero capitalismo di tipo nordeuropeo.
RispondiEliminaI firmatari di questo manifesto sono, appaiono, persone valide e preparate. Ma hanno un appeal pubblico che non sia limitato a pochi addetti? Il problema principale è bucare la comunicazione, trovare spazi per far conoscere agli italiani cosa stanno rischiando (senza aspettare che lo vedano da soli fra qualche mese ed allora saranno reazioni violente e non azioni propositive).
Finalmente qualcosa si muove e il Fatto oggi ha ospitato l'intervento del giornalista scrittore argentino Horacio Verbitsky, che racconta come la crisi dell'Argentina iniziò privando i lavoratori dei loro diritti e penalizzando i pensionati. Una cura alla Berlusconi-Monti che causò molta povertà al popolo e tanto arricchimento alle banche ed ai potenti. Dopo dieci anni di cura Kirchner (marito e moglie) che ridiede ai lavoratori i loro diritti, che riportò sotto il controllo pubblico il pensionamento, i risultati sono un complessivo miglioramento delle condizioni del paese: "Mentre nel decennio precedente (1989-1999)solo il 50% dei lavoratori che arrivavano all'età della pensione riuscivano a ottenere un assegno pensionistico, oggi tale percentuale è superiore al 90%. I salari dei lavoratori sono i più alti dell'America Latina e il costo del lavoro per unità di prodotto è inferiore rispetto al 2001 in quanto sono aumentati la produttività e i profitti delle imprese. Questa sorprendente realtà coincide con quella tedesca: sono gli alti salari a stimolare gli investimenti e la produttività".
L'art. 18 è solo un'arma di distrazione di massa che peggiorerà la nostra situazione.D'accordo che ci sono differenze fra l'Italia e l'Argentina, ma non ci sono più i Bushes e i loro segugi a dirigere il mondo, anche se l'Europa delle banche si sta servendo di sicari sobri e prezzolati per uccidere l'economia nazionale. Dobbiamo quindi agire per cambiare il sistema, in particolare l'Europa del Mercato, per rimettere di nuovo l'Uomo al centro dei processi culturali e produttivi.
Sono perfettamente d'accordo. Ma ho dei dubbi in merito alla capacità del popolo di capire e sopratutto reagire.
RispondiEliminaSono anni che mi sgolo per urlare quello che sta accadendo oggi. Prima venivo deriso. Ora ho smesso di parlare con la gente ed ascolto solamente i loro rantolii di rabbia. Solo rqabbia senza nessuna comprensione di quanto sta accadendo e di come è potuto succedere.
Il signor Monti (come i suoi predecessori, ma sopratutto lui) ha tutto il mio disprezzo, ma purtroppo sono fortissimamente dubbioso sul fatto che l'italianità possa essere sconfitta e possa, questo popolo malandato, reagire.
L'italianità è il vero male che ci affligge. E' stato rappresentato bene nello show di Sabina Guzzanti, attraverso l'intervento di quel comico nuovo, di cui non ricordo il nome. Quello che si è disintossicato in Svizzera ed è riuscito ad uscire dal tunnel dell'italianità.
L'italianità dei valori della famiglia (mafiosa? imprenditoriale? (Agnelli, Benetton, Marcegaglia, Berlusconi etc.)
L'italianità macerata dal cattolicesimo che non ha ancora smesso di credere alle favole...
L'italianità della furbizia a poco prezzo, dell'individualismo sfrenato, dello sfoggio del nulla, l'italianità cafona che non sa nemmeno cosa vuol dire il rispetto per il prossimo, l'italianità che guarda con sospetto il diverso e non si rende conto che la diversità è la nostra vera ricchezza...
Ma come lo curiamo questo popolo devastato e depravato?
ma come facciamo capire ai giovani che non si può essere tutti laureati? Come lo capiscono che la laurea non è un diritto ma una conquista?
Potrei andare avanti per ore a scrivere, ma so che non serve a nulla. ogni cosa nasce e muore.
E l'Italia, per come l'ho conosciuta, viva, intelligente, laboriosa, vivace, fantasiosa, impertinente, rigogliosa...
... è morta e non esiste più.
Tra poco è pasqua. Io la chiamo la festa dei cannibali per quanti innocenti agnellini vengono squartati e divorati per onorare il loro bue d'oro.
E' la stessa fine che li aspetta. Che vadano in pace.
Nibiru.
@ Nibiru
RispondiEliminaBellissimo commento,molto duro ma purtroppo perfettamente aderente alla realtà,se mai ti può consolare,concordo su tutto quello che hai detto e vivo le stesse emozioni e situazioni che vivi tu,che dire,speriamo che alla fine di tutto,gli Italiani ne usciranno ripuliti dentro,oltre che nelle tasche.