mercoledì 16 ottobre 2013

Sunt lacrimae rerum. 16 ottobre 1943. 16 ottobre 2000. Due date che pesano come un macigno sull'Europa



di Sergio Di Cori Modigliani

E' inutile girarci intorno: siamo un paese di ipocriti, che ci piaccia o meno.
E se non ci piace l'idea di esserlo, oppure vogliamo non esserlo più, ebbene, la soluzione c'è.
Elementare, semplice, efficace: smettere di essere ipocriti e diventare adulti consapevoli e responsabili.

Questo post di oggi è unico e particolare: ha la forma di un cubo geometrico.
Il cubo è una rappresentazione della realtà composta dalla somma di sei quadrati, attaccati l'uno all'altro.
Se ci si pone davanti a un cubo, in linea diretta e frontale con i nostri occhi, vediamo soltanto un quadrato.
Ma poichè sappiamo di star guardando un cubo, dentro di noi abbiamo la percezione che ci consente di immaginare la proiezione anche delle altre cinque facce. In virtù di questo effetto, le altre facce, pur essendo uguali e identiche, avranno un Senso diverso. A seconda del tipo di illuminazione e della posizione, infatti, le altre cinque facce avranno un fuoco, una luce e delle ombre diverse.
In virtù di questa sua intrinseca particolarità, il "cubo" è diventato la rappresentazione geometrica della realtà che, pur essendo unica, è allo stesso tempo poliedrica.
E' l'unicità che ha in sè il germe della molteplicità.

Per cui, il cubo, da cento anni a questa parte, è considerato il simbolo della complessità dell'esistenza reale.
E' il significato dell'arte moderna, rappresentato nella sua sintesi sublime da Pablo Picasso, in grado di saper sintetizzare in termini estetici dirompenti l'irruzione della complessità nella nostra vita, prodotta e determinata dalla codificazione della teoria generale della relatività cosmica.
Una visione "cubista" dell'esistenza, quindi, comporta un'apertura mentale che consente di vedere e cogliere, al di là del quadrato apparente, anche le ombre, le luci, le proiezioni delle altre cinque facce.
Se si vuole insultare una persona, oggi, si dice "quello lì è quadrato".
Se si vuole fare un complimento, potremmo azzardare il neologismo "quello lì è un cubista".
Fu la frase che Pablo Picasso disse a George Braque, suo amico, quando lo chiamò nel suo studio e gli fece vedere un quadro appena ultimato. Il grande spagnolo, con intuizione geniale, capì ciò che Braque aveva fatto per istinto. Gli disse: "Sei un cubista. Hai ragione. La realtà non è quadrata, altrimenti Cristoforo Colombo non sarebbe neppure partito. Viviamo dentro un cubo. E' così".

Fine della necessaria premessa.

Come il resto dei 7 miliardi di terrestri, il sottoscritto vede e osserva il mondo sulla base del proprio vissuto.
Ciò che vedo e osservo è il frutto del mio composto esistenziale. Guardo come gli altri lo stesso quadrato della vita, ma le esperienze avute mi producono poi la proiezione delle altre facce del cubo.

I post sono tutti un quadrato.
Se, e quando, sono nutrienti, stimolano il lettore a produrre la propria idea delle altre cinque facce.
E' il mio auspicio sincero per il post di oggi.

Le quattro facce di questo post sono: 1). La mia esistenza. 2). Il mio essere europeo. 3). Il mio essere uno scrittore-giornalista. 4). Il mio essere italiano.


1). Il 16 ottobre del 1943 è accaduto un evento unico, nella Storia d'Italia, che ha segnato, formato e determinato la mia esistenza, nonostante mancassero ancora parecchi anni alla mia venuta al mondo.
Mio padre, allora un giovanotto impetuoso e sensuale, un ebreo italiano che abitava a Piazzetta Mattei nel ghetto di Roma, covava dentro di sè un unico obiettivo: riuscire a portarsi a letto mia madre. Il problema era che le ragazze di buona famiglia, a quei tempi, non la davano, a meno che non si fosse sposati. E mia madre, (anche lei una ebrea italiana che abitava a Corso Vittorio Emanuele) donna battagliera, forte e aggressiva, era stata perentoria: non se ne parla proprio finchè la guerra non è finita, poi si vedrà. Ma un maschietto di 25 anni se ne frega di queste minacce e le prova tutte, pur di sfondare. E così, la notte del 15 ottobre, insieme a un cugino di mia madre, Franco Modigliani, con abile stratagemma, convince mia madre e la sua amica del cuore ad andare a cena in una villetta della campagna romana, con la promessa che le avrebbero riaccompagnate a casa entro la mezzanotte. Alle dieci di sera (non ho mai avuto ragguagli sull'esito della cena) le due ragazze chiedono di essere portate a casa. La trattativa dura un'oretta. Alle undici partono, ma dopo due chilometri trovano un blocco stradale inaspettato. Il comandante Kappler aveva dato ordine di impedire, dalle ore 23, l'accesso e l'uscita dalla cinta di Roma ad ogni veicolo, per evitare che le formazioni partigiane -nel caso avessero avuto una soffiata- decidessero di compiere un'azione per evitare il rastrellamento di massa ordinato all'alba.
E così, i quattro se ne ritornano nella villetta, peraltro sprovvista sia di telefono che di radio.
Angosciate per il ritardo, al mattino presto, le due ragazze costringono i due giovanotti a trovare una casa di qualche conoscente nelle vicinanze, munito di telefono. E così apprendono la notizia dell'avvenuta deportazione degli ebrei dalla città di Roma verso i campi di sterminio. Mia madre, allora, con identità e documenti falsi, lavorava come segretaria nello studio privato di un avvocato cattolico, il Marchese Antonio Franchetti. Ebbe l'intuizione geniale di chiamarlo alle 9 del mattino a casa. Lui le spiegò che cosa stava accadendo e come si erano messe le cose, e le spiegò anche le modalità in cui, insieme a sua moglie, aveva provveduto a costruire una intercapedine tra il soffitto e il tetto per nasconderci almeno quattro persone. Mia madre, la sua amica, sua sorella e una cugina, finirono lì dentro per nove mesi. Ogni sera, prima di ritornarsene a casa, il Marchese portava su cibo e acqua. Nè lui nè sua moglie fecero mai menzione con nessuno del fatto, ma si ingegnò, in città, per fare ciò che poteva. Il 2 giugno del 1944, con gli americani alle porte di Roma, un gruppo di fascisti che lo tenevano sott'occhio lo denunciò alla Gestapo. Venne arrestato insieme alla moglie. Entrambi si rifiutarono di parlare. Il 4 giugno vennero fucilati entrambi. Il suo nome è stato sempre ricordato, custodito e tramandato nella memoria della mia famiglia come esempio della complessità dell'anima umana e del senso dell'essere italiani. Per ogni criminale delatore che ha venduto la vita di persone per qualche danaro facile, ci sono state nobili persone che hanno scelto di comportarsi come angeli benefici e protettori, fino all'estremo sacrificio delle loro vite.
Un minuto di silenzio in memoria del Marchese Antonio Franchetti, che riposi in pace il sonno dei Giusti.
Gran parte della mia famiglia di origine finì in un forno crematorio ad Auschwitz.
Mio zio fu tra i 16 romani che ritornarono a casa.
Si chiamava Luciano Camerino, era il figlio della sorella di mia nonna, cugino di mio padre.
Tornò a Roma insieme ad Anatolji.
Impiegò circa venti mesi.
Tornò a casa, attraversando l'Europa, a piedi, con un nuovo amico.
Era il tenente dell'Armata Rossa che gli diede da bere dalla sua borraccia entrando nella baracca il 27 gennaio del 1945. Il bravo soldato rimase sconvolto da quegli orrori e per il trauma divenne pacifista. Conosceva l'italiano perchè era laureato in Storia dell'Arte. Decise di disertare.
Con un trucco, buttò via la divisa, e divenne Antonio.
Scapparono via sfuggendo al controllo militare.
Insieme a mio zio, arrivò a Roma dove rimase a vivere. E' deceduto di morte naturale un anno fa.
Furono parecchi, allora, i soldati russi che buttarono via la divisa e scapparono. Molti vennero in Italia.
Oggi, noi, nel 2013, siamo abituati a considerare norma consuetudinaria vedere coppie formate da attempati borghesi in pensione sposati a giovani belle ucraine. Allora, nel 1945 erano, invece, i maschi russi che arrivavano sconvolti in Italia e poi sposavano delle italiane. Una curiosa e bella pagina dell'antropologia europea che non è mai stata raccontata.
Sono cresciuto con le storie raccontate dai miei zii Luciano e Anatolij (sposò l'amica del cuore di mia madre) e il vissuto delle loro esistenze ha forgiato negli anni il mio inossidabile pacifismo e il mio europeismo.
La mia vita, è la logica conseguenza di quel tragico 16 ottobre 1943 che oggi io ricordo con questo post.
In memoriam di quegli italiani caduti.

2). Porto l'Europa nel sangue, me la sento appiccicata addosso. Sono orgoglioso di essere europeo. Nei due decenni in cui ho vissuto negli Usa rispondevo sempre "sono un europeo con passaporto italiano". Sono un profondo e convinto assertore degli Stati Uniti d'Europa, dell'Europa dei Diritti Civili che ha saputo rimettersi in piedi, evolvere e progredire, dopo gli indicibili massacri del ventesimo secolo: 40 milioni di morti soltanto nei 5 anni della seconda guerra mondiale e complessivamente, dal 1 gennaio del 1900 al 31 dicembre del 1999, circa cento milioni di morti innocenti. Davvero un secolo sterminato. Mi sento più europeo di altri in quanto italiano e ancora più europeo di tutti in quanto romano.
Perchè l'Europa è nata a Roma.
L'Europa, secondo i più sofisticati antropologi, sociologi e filosofi di oggi, è nata con Enea.
Su questo punto, almeno, in Europa sono tutti d'accordo: è nata a Roma e grazie agli italiani.
Ufficialmente l'Europa nasce con il Trattato di Roma del 1957, quello è stato il primo mattone.
Ancora prima, dal punto di vista teorico e filosofico, è nata nel 1943 con il manifesto di Ventotene, firmato da due anti-fascisti che si trovavano nell'isoletta perchè condannati al confino, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Nel testo si trova la summa che contiene i codici formativi del senso dell'essere europei. In quello scritto sublime, che dovrebbe essere d'obbligo nelle scuole medie italiane, giace, fermenta e trova forma il concetto originale dell'Europa, intesa come comunità che nasce dalla nostalgia di una civiltà, proprio in quello specifico momento in cui venne scritto il documento, sembrava ormai impossibile. Un po' come appare oggi, travolti dagli interessi speculativi degli squali della finanza internazionale che hanno determinato la genesi di una Europa inguardabile, davvero irriconoscibile, perchè sorretta dall'idea del "Denaro" come punto di riferimento e coagulo di una collettività.
Essere europei, oggi più che mai, significa appellarsi alla tradizione della nostalgia.
Nel senso virgiliano del termine.
Nel senso che gli ha attribuito il nostro grande antenato romano, lo squisito poeta Publio Virgilio Marone, vissuto 2000 anni fa.
A lui spetta il record mondiale (quantomeno in occidente) anche sul web.
Una frase fondamentale, contenuta nell'Eneide, è considerata l'espressione al mondo che vince su tutte le altre, in assoluto, come uso e consumo. E' il nome di un sito, di un blog, di uno stilista, di una specifica linea d'abbigliamento, di una ditta di cioccolatini, di uno studio scientifico, di un franchising di successo, di almeno 500 negozi diversi in tutto l'occidente. Da tre anni è anche il titolo di un libro scritto da un geniale psicoanalista e filosofo contemporaneo serbo, nato a Lubjana, Slavoj Zizek.
Si chiama "Sunt lacrimae rerum".
Tradotto in italiano corrisponde a qualcosa del tipo "Si versano lacrime sulle sventure".
E' la frase cardine che viene considerata oggi dagli studiosi come l'atto fondatore di una nuova idea del mondo. E nasce circa 2500 anni fa. E' il pio Enea a pronunciarla. I sociologi e gli antropologi attribuiscono a questa frase un valore formativo che trasforma radicalmente l'immaginario collettivo dell'epoca e sancisce la coniugazione tra la Lex, ovvero il Diritto Civile, e la Compassio, ovvero la solidarietà umana, il Senso della comunità di eguali nata nel nome del bene comune condiviso.
La frase si trova nel I libro dell'Eneide.
Enea, cittadino emerito di Troia, uomo rispettato e amato dai suoi concittadini, fugge alla morte mentre Troia è in fiamme e reca con sè, nel corso della sua fuga, sia la tradizione del passato che la novità del futuro, rappresentati dal vecchio padre Anchise che Enea si incolla sulle spalle e il figlio Ascanio, di dieci anni, a cui stringe la mano per farsi sorreggere mantenendo l'equilibrio. Riescono ad arrivare nella città che, a quei tempi, era il centro nevralgico propulsore della vita di allora, Cartagine, simile a come potrebbe essere oggi New York, perchè a Cartagine si svolgeva tutta la vita intellettuale dell'epoca, c'era la grande movida di quei tempi, mercanti e intellettuali, artisti, affaristi e avventurieri, venivano da ogni parte del mondo per incontrarsi e scambiarsi le proprie idee, merci, manufatti, progetti. E lì, Enea viene accolto. Si diverte da matti, finalmente, dopo tanta sofferenza. L'eccitazione è molto grande, incontra tanta gente, e dato il suo status di persona di un certo calibro riesce a incontrare la regina, Didone, che si innamora pazzamente di lui. Enea cerca di sottrarsi a questo amore perchè "sente dentro di sè di non essere pronto a lasciarsi andare" (così racconta il grande poeta) ma poi, inevitabilmente, cede alle lusinghe seduttive di questa bellissima donna, generosa, intelligente. Finchè, una sera, lei lo invita a una grande festa mondana per celebrare dei nuovi artisti. Lui ci va, con un suo amico. Si inerpica su questa collina e penetra in questo tunnel sotterraneo (una specie di discoteca di quei tempi) dove sono assiepati i musici, i cantanti, i venditori di cianfrusaglie e di bibite, i curiosi che si vogliono divertire. E a un certo punto Enea entra nella zona dedicata alla star dell'epoca e gli viene mostrata la sua opera, un gigantesco affresco su Troia in fiamme dipinto sul muro, un graffiti. Tutti si meravigliano e plaudono di fronte a tale bellezza visiva. Enea, invece, una volta ripreso dalla sorpresa, si rabbuia e a un certo punto crolla. Comincia a piangere disperatamente e pronuncia la celebre frase sunt lacrimae rerum, sentendosi in colpa, perchè capisce di non aver elaborato il lutto a sufficienza, di non aver capito dentro di sè "la necessità di piangere gli errori dei nostri padri per poter costruire un mondo d'amore per i nostri figli". In quanto padre, sente e porta su di sè questa responsabilità e consapevolezza. Ricorda, quindi, d'un tratto, il grande progetto di Troia, avamposto libertario al confine tra l'occidente e l'oriente, e come la dissoluzione distratta l'avesse portata alla sua inevitabile rovina. Capisce pertanto che non è cosa, per lui, trastullarsi e divertirsi. Lui deve rifondare Troia. Ma lo deve fare in senso più evoluto. Portando dentro di sè la cognizione della tradizione dalla quale proviene.
Sente l'obbligo, rispetto ai troiani morti, di andare a fondare una nuova civiltà nel nome dell'Amore per la solidarietà e la compassione tra uguali dinanzi alla Legge.
Non può rimanere con le mani in mano a divertirsi a Cartagine. Sceglie di spaccare il cuore a Didone, che accetta di lasciarlo andare verso il suo destino, comprendendo la sua ambizione. E così, Enea riparte verso il nulla, dopo aver sistemato il vecchio padre, accompagnato dal suo figlioletto. Va alla ricerca di un posto nuovo, di una zona fertile, nella quale gettare il seme di una nuova civiltà alla quale deciderà di attribuire il nome anagrammato dell'Amore.
Roma nasce così, come progetto di nostalgia di una civiltà giusta, equa e ricca, che si autodistrusse in seguito ai gravissimi errori di gestione dei troiani che si andarono a scontrare con i greci.
E questo è il modo in cui Virgilio ce l'ha voluta rappresentare, presentare e tramandare.
E così l'ha letta Dante Alighieri, un uomo di vastissima cultura che avrebbe avuto la possibilità di scegliersi qualunque tipo di guida simbolica nel suo viaggio nell'Inferno. Eppure, combattendo contro il potere papale d'allora, certo non a caso, sceglie proprio Virgilio, perchè in lui c'è "il seme" dell'utopia da cui noi tutti proveniamo.
L'Europa della civiltà e della cultura nasce intorno ai primi del secolo XIV, in quel Trecento che ormai si è lasciato alle spalle la sfuriata omicida delle invasioni barbariche ed è in cerca di una identità culturale.
Dante Alighieri la regala a tutti noi e la fonda.
Come aveva fatto Virgilio con l'Impero Romano.
Da lì, noi veniamo.
Dalla lontanissima Troia, attraverso l'Africa, per arrivare a Roma, e poi a Firenze.
Altiero Spinelli ricordava molto bene quella frase di Enea che ci racconta, in una sua lettera alla sorella, essere stato l'humus che ha alimentato l'idea di costruire il progetto degli Stati Uniti d'Europa recuperando "l'antico senso della nostalgia per una civiltà che sia in grado di realizzare la progettualità di ogni spirito libero, indipendente, autonomo, contrario a ogni forma di dittatura e di imposizione".
Questa è l'Europa.
E questa è l'Europa che dobbiamo andare a costruire tutti.
In quanto italiani è giusto farlo nel nome di Dante e di Enea, passando per Spinelli che ce l'ha ricordato.
Commemorare le tragedie europee è vuota retorica, falsa e demagogica, se non la si accompagna con un progetto innovativo, con una ambizione, che deve nascere dalla consapevolezza collettiva che è sempre figlia di quelle lacrime provocate da un lutto che non può e non deve essere negato.
L'era della auto-assoluzione dei popoli europei è finita.
Dobbiamo far nostri gli errori di chi ci ha preceduti e costruire l'alternativa per non commettere identico scempio.
In memoriam di Altiero Spinelli che ci ha dato lo strumento per tracciare il solco della nostra strada.

3). Viviamo nell'epoca della informazione. Una frase che non vuol dire nulla, usata in maniera ampollosa. In verità viviamo nell'età della deformazione, della infermazione, della negazione della notizia.
E' vero che sul web e grazie a Google, oggi, si trova tutto.
E anche vero che si trova anche il contrario di tutto.
Dipende, quindi, dalla qualità della strumentazione interiore, essere in grado di sapersi districare e distinguere tra ciò che è solo apparentemente vero e veritiero e ciò che, invece, ci annuncia delle esistenze autentiche.
Còmpito degli operatori della comunicazione professionale, cioè i giornalisti, deve essere quello di allargare sempre di più lo spettro delle conoscenze reali oggettive degli eventi, per aiutare a diffondere il grado di consapevolezza generale della cittadinanza. Il mondo, ormai, lo si cambia solo e soltanto se lo cambiamo tutti insieme. Nessuno escluso.
Oggi, in Italia, si commemora in pompa magna la data del 16 ottobre 1943.
E' la giornata giusta per essere buoni con gli ebrei, sentirsi italiani brava gente, approfittare dell'occasione per dirsi l'un l'altro che noi, in fondo in fondo, siamo tutti brave persone e, per l'ennesima volta, siamo stati vittime dei perfidi teutonici, sanguinari e senza pietà. Dalla mezzanotte di questa giornata, tutto finirà nel consueto archivio e non se ne parlerà più, almeno per altri 365 giorni. Pur avendo scritto il punto 1 che ho volutamente identificato come cifra fondamentale di un mio percorso esistenziale, oggi, la data del 16 ottobre la voglio commemorare in modo virgiliano, accompagnando i discorsi pomposi, i comizi, le lacrime ipocrite dei falsari in doppiopetto, con una spruzzata di realismo giornalistico.
Perchè oggi, io commemoro l'assassinio di Antonio Russo.
Non ne troverete notizia nei telegiornali.
Neppure sulla stampa, neppure in rete.
Era un giornalista investigativo italiano, free lance, quindi privo di contratto con le testate, che nel nostro paese sono tutte proprietà di finanzieri e banche e non di editori indipendenti.
Faceva il giornalista di guerra. Era un pacifista e raccontava gli orrori della guerra dando voce a chi la voce non ce l'ha, perchè non ha megafoni, non ha padrini, non ha sostenitori: le vittime delle guerre, i profughi, soprattutto bambini e donne inermi. Era un attivista politico del partito radicale. Lavorava soprattutto per la radio radicale e negli anni'90 aveva descritto gli orrori e i massacri al di là del Mare Adriatico, nel Kossovo, in Bosnia-Herzegovina, in Macedonia, in Croazia, già ormai completamente dimenticati.
Nel 1999 sceglie di andare sulla prima linea del fronte a Grozny, in Cecenia, da cui inizia a fare reportage in onda su radio radicale, descrivendo raccapriccianti episodi di efferata criminalità. Finchè il 15 ottobre del 2000, grazie a un modesto telefono satellitare (la sua unica arma) telefona alla radio e in diretta spiega che si trova in Georgia, finalmente, e che il giorno seguente sarà di nuovo in Italia dove andrà direttamente in parlamento a consegnare il materiale cinematografico visivo e audio con il quale si daranno le prove che l'esercito russo ha massacrato decine di migliaia di persone innocenti, radendo al suolo intere città, usando armi chimiche e batteriologiche proibite dalla Convenzione di Ginevra e dall'Onu. E' contento e orgoglioso, Antonio Russo, perchè ormai è riuscito a scappare dalla Cecenia e ormai si trova in Georgia. Chiama anche sua madre, una farmacista, nella sua città di origine, Francavilla a mare, vicino a Pescara, in Abruzzi, annunciando il suo ritorno quella stessa notte.
Il giornalista Antonio Russo, all'aereoporto internazionale di Odessa non ci è mai arrivato.
Nell'albergo nel quale si trovava deve aver incontrato qualcuno di cui si fidava e non avrebbe dovuto.
Il 16 ottobre, alle 16 del pomeriggio, il suo corpo viene trovato su un vicolo di campagna vicino all'aereoporto, con il torace fracassato. Nè i video, nè le registrazioni, nè le fotografie, nè il suo cellulare sono stati mai trovati. L'ambasciata georgiana ha restituito il corpo sostenendo che deve essere stato un pirata della strada. Da allora, le autorità italiane non hanno mosso mai nessun addebito, nessuna richiesta di chiarimento, non hanno espletato neppure le consuete formalità di rito. Nel 2005 la giornalista investigativa Anna Politkovskaja riesce a procurarsi delle prove documentate che segnalano la sua morte come un omicidio dei servizi segreti russi agli ordini di Vladimir Putin. Ne parla con la stampa internazionale e annuncia una sua visita a Stoccolma in data 8 ottobre 2006. Al pomeriggio del 7 ottobre, la giornalista russa viene uccisa da quattro colpi di pistola dentro l'ascensore del condominio in cui abitava. Nessun testimone. La sua morte venne archiviata come il risultato dell'aggressione di un pazzo solitario.
Circa un anno dopo sono state arrestate due persone con l'accusa di essere stati loro gli esecutori.
Sono stati poi assolti per insufficienza di prove.
La Cecenia è una piccola repubblica dell'estremo est europeo, o forse già Asia Minore come viene considerata in termini geo-politici. Nel 1996, censimento ufficiale, contava 1.089.000 abitanti, la maggior parte dei quali dediti alla pastorizia, all'agricoltura. Un paese piuttosto povero, in prevalenza di religione mussulmana, composto da una etnia mite e riservata, di tradizione pacifista. Negli anni'90 il governo ceceno si rifiuta di far applicare la nuova legge di Putin che impone la religione cristiano-ortodossa come religione di stato. Da lì nascono conflitti insanabili che danno vita a una guerra tra la Cecenia e la Russia. Vengono uccise circa 300.000 persone (dati Onu) e 200.000 dati per dispersi. Nel 2010, la popolazione è calcolata intorno alle 500.000 unità. Nel 2015 è accreditata di una popolazione intorno alle 200.000 persone. I pochi sopravvissuti stanno scappando via e vanno nel continente americano e in Oceania.
Nessuno parla di loro perchè tanto sono mussulmani, quindi vengono considerate non-persone.
Il Consiglio d'Europa si è rifiutato di affrontare la richiesta di denunciare e condannare Vladimir Putin per "crimini contro l'umanità" al Tribunale Internazionale dell'Aja, come era avvenuto per il dittatore serbo. L'Onu si è rfiutata. La Commissione Europea anche. Il Parlamento europeo pure.
Che senso ha commemorare le vittime dell'infamia nazista avvenuta 70 anni fa se non siamo in grado di denunciare le atrocità commesse nel 2000?
Non è questa la mia Europa.
Non è questa l'Europa di Virgilio e di Dante e di Spinelli.
Antonio Russo sosteneva di avere le prove documentate delle atrocità commesse. E' morto assassinato.
Cinque anni dopo, la Politkovsaja sosteneva lo stesso. E' morta assassinata.
Come giornalista europeo e italiano, quindi, non posso che prendere atto della morte del giornalismo come momento di affermazione del diritto di cronaca e di denuncia.
L'altro ieri a Berlino, ieri a Grozny, domani potrebbe accadere a Parigi o a Roma o a Madrid.
Che garanzie abbiamo, con questa Europa?
Motivo per cui, oggi, non andrò a commemorare il 16 ottobre 1943 nei luoghi deputati alla retorica buonista di quanto siamo bravi noi italiani, di quanto siamo buoni e di come erano malvagi i tedeschi, alla presenza di ipocriti falsoni doppiogiochisti. Non posso dimenticare che nel 1976, Giorgio Napolitano scriveva su l'Unità che il fisico nucleare Sakharov, deportato in Siberia e campione dei Diritti Civili, era "un ciarpame della Cia".
Il Mattino di Napoli è stato l'unico giornale italiano ad annunciare che nella giornata di ieri ci sarebbe stata una commemorazione di Antonio Russo organizzata dalla Free International Press diretta da Virgilio Volo a Roma. Lo trovate qui http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CULTURA/antonio-russo/notizie/
E della Cecenia  ne parla  il sito peacereporte : http://it.peacereporter.net/articolo/3098/
Andrò invece a dare la mia testimonianza contro la dittatura di Putin alle ore 18.30 davanti all'ambasciata russa, insieme a uno sparuto -ma pur sempre esistente- gruppo di giornalisti indipendenti europei.
In memoriam di Antonio Russo, giornalista free lance assassinato.
4). Infine, come cittadino italiano non posso non ricordare con raccapriccio la totale latitanza dell'attuale Ministro degli Esteri, Emma Bonino, la quale, insieme a Marco Pannella, ha tralasciato di ricordare l'efferato omicidio di un giornalista di Radio Radicale.
In memoriam dell'Italia radicale.

Oggi è una giornata di lutto e di lotta.
Così va vissuta.
Così la vivo io.

13 commenti:

  1. Visto come vanno le cose le occorrerebbe subito una valida scorta.

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  2. Io non ho niente contro l'EUROPA o gli STATI UNITI DI EUROPA ma ho tutto da dire contro QUESTO TIPO DI EUROPA dove è tutto basato sulla legge del piu forte e dove non esiste nessun tipo di solidarietà per chi è in difficoltà (vedi Grecia ecc)......o si cambiano le cose subito, da domani, oppure via immediatamente dall'europa dall'euro e da tutto il resto....I-M-M-E-D-I-A-T-A-M-E-N-T-EEEEEEEEEEEEEEE

    Se dobbiamo stare in una Europa dove ognuno se la deve cavare da solo in ogni ambito quale è il vantaggio di rimanere dentro?....per ora NESSUN VANTAGGIO anzi abbiamo fatto sacrifici per entrarci, facciamo sacrifici per rimanerci, ma i vantaggi?
    Questa oligarchia ci porterà ad una nuova guerra.......GARANTITO

    Del resto, ci hanno provato in tanti a fare un'europa unita e nessuno ci è mai riuscito a partire dall'impero romano, a Carlo Magno, a Napoleone fino addirittura allo stesso Hitler e ogni tentativo è stato un fallimento perchè mai dovrebbe avere successo questo tentativo basato solo su una moneta unica?

    Io personalmente sono per l'uscita immediata da tutto questo delirio costruito solo ad uso e consumo degli oligarchi.

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  3. La stessa retorica e la stessa ipocrisia la troviamo negli interventi ufficiali su Lampedusa. Nessuno che ricordi come gli eritrei scappino da un regime dittatoriale, ma l'Eritrea oggi è governata col pugno di ferro da un personaggio non diverso da Putin, da Hitler, grande amico di Berlusconi, ed a cui il nostro Paese ( e penso anche l'Europa) dà sostegno, contributi finanziari ed armi. Questa gente scappa dalla miseria e dalla violenza e noi li lasciamo morire in mare, discutiamo sul diritto di asilo, li denunciamo come clandestini, promettiamo funerali di Stato mai avvenuti, facciamo i buonisti, ma poi ne foraggiamo la classe dirigente che specula e ingrassa sulle lacrime degli Eritrei che vorrebbero solo vivere nel loro Paese in pace.

    Grazie, Sergio, per questa tua sofferta testimonianza che rende ancora più stridente il confronto con i nanerottoli ed i finti uomini che sgovernano la nostra Italia. Speriamo solo che non ci tocchi più di piangere su queste sventure e che non ci sia più bisogno di Giusti come l'avv. Franchetti.

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  4. Questo è un post splendido. Per meglio dire: splendente.
    Dipenderà forse dalla troppa luce, ma io non vedo facce, vedo raggi che si intersecano e rimandano continuamente a due punti focali come a due pilastri che ne sorreggono tutta la struttura: l'isola intesa come isolamento, distacco, esilio da una parte e, dall'altra, l'utopia, cioè il mondo ologrammato e portato nella memoria/sogno come Enea porta sulle spalle Anchise e, al fianco, il piccolo Ascanio. Poi ognuno di questi due protagonisti indiscussi della Sua avvincente narrazione ha nel suo corredo (almeno) tre abiti di scena, un corredo da... due al cubo (neanche a farlo apposta, 16). Per esempio, l'isola è, di volta in volta, Cartagine (con sullo sfondo i contorni fumosi di Tiro e di Troia), la villetta nella campagna romana, Ventotene. L'utopia, è di volta in volta, Roma (che è però anche l'isola per il transfuga disilluso Anatolij-Antonio) il Russo giornalista (mentre il russo geopolitico è la sua antitesi tenebrosa, il suo esilio), l'Europa dei poeti e dei suoi ideatori fondanti, o fondatori idealisti, come i -- di nuovo-- due compagni d'esilio, separati dal resto ma nella memoria inseparabili, Spinelli e Rossi.
    Le sue lacrime sono "luce che scende dagli occhi", Modigliani, proprio come canta nella sua "Luce -- tramonti a nord-Est" la friulana Elisa, che si chiama quasi come Didone Elissa, per colmo di coincidenze e trasfigurazioni. Un modo per attenuare con la melanconia l'amarezza, e per non sfigurare troppo se aggiungo, sommessi, gli auguri, proiettati da questo punto in avanti, fino a un giorno non meglio precisato, un po' prima o un po' dopo il prossimo solstizio d'estate.

    Con sincera ammirazione e neanche un filo di ipocrisia, marilù l.

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    1. Ipocrisia no, ma sviste sì: all'ottavo rigo, invece di "da ... due al cubo (neanche a farlo apposta, 16) si legga: "da doppio di ....due al cubo (neanche a farlo apposta, 16)."
      Grazie, marilù l.

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  5. Putin ...

    E' stato assassinato con il polonio Aleksandr Livinenko, avvelenato con la diossina Viktor Yushenko, fatto esplodere Tupolev polacco .... e quante altre "cosette" questo individuo ha sulla sua coscienza ... ancora un po' e i "bravi ragazzi" di Oslo gli daranno il "solito Nobel per la Pace" ...

    Kenneth

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  6. Non so lei ma io sarei per gli stati SOVRANI uniti d'Europa.

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  7. Caro Modigliani, quanto ha scritto è illuminante e nonostante tutto ci consegna la speranza, la necessità, di cambiare, prima noi, poi l'Europa.

    Luca

    Link corretto:
    http://www.ilmattino.it/napoli/cultura/antonio_russo/notizie/339565.shtml

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  8. Bellissimo, grazie per questa riflessione condivisa.
    Anche a me piacerebbero gli Stati Uniti d'Europa, ma non questa Europa dove solo alcune nazioni vengono favorite a scapito di altre che sono condannate a morire di fame.
    Gabriella

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  9. Che bello "sentire" e saper scrivere così.

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  10. Ma?..mi sorge il dubbio che tu, Sergio, metta un pò troppo l'accento sulla pagliuzza russa evitando di parlare dell'immensa trave americana..... Così, in generale, è una mia impressione per la quale vorrei leggerti......

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