giovedì 27 settembre 2018

Possono, i poveri, fare cultura? E quella cultura può fare mercato creando lavoro, diffondendo istruzione, abbassando il tasso di disoccupazione?




di Sergio Di Cori Modigliani

Chi ha gestito il potere mediatico e culturale in Italia, nel corso di questi anni, ha costruito una cappa di mistificazione pericolosa, davvero miope e suicida, incentrata nella costruzione di nuove mitologie tese a sostenere l'inevitabile primato della finanza sull'economia e, di conseguenza, quella degli economisti sui filosofi e gli artisti, che ha consentito di fondare l'atroce paradigma italiano (è un'idea originale solo dell'Italia) basato sull'assunto che da noi la "con la cultura non si mangia" oppure "la cultura non fa mercato".
A questo assunto è stata aggiunta, in parallelo, un'altra colonna dell'idiozia corrente che abbatte il concetto di idealità, di lavoro intellettuale e di attribuzione di valore a qualsivoglia attività dell'ingegno umano, sia in campo scientifico che artistico. L'Italia è diventato il Paese del mondo occidentale con il più basso indice di produttività culturale ma, soprattutto -caratteristica che ormai ci distingue da tutti gli altri- un paese in cui il valore intellettuale è stato sindacalizzato applicando il concetto base del liberalismo: la definizione del Lavoro come "costo" invece che come "investimento".
L'immane tragedia sociale che stiamo vivendo è basata su una falsificazione, divenuta argomentazione scontata che viene replicata di continuo senza che vi siano mai dei distinguo. Trappola micidiale alla quale i sindacati nostrani hanno dato un enorme contributo nel costruire il declino del nostro Paese. Non ho mai sentito un sindacalista famoso ai talk show televisivi rifiutarsi di usare il termine "costo del lavoro" sostenendo che vada invece usato il termine "capitale sociale d'investimento". Sono due mondi diversi e contrapposti.
Il nostro declino è il frutto dell'incorporazione di questa falsità.
Ciò che conta, ormai, è la capacità di seguire mode, parametri, statistiche e sondaggi invece che promuovere attività pensante. Si veicola il sentito dire, la frase a effetto, meglio se con sapore pragmatico.
Le idee non bastano, secondo alcuni. Invece, le idee bastano e avanzano.
Sono state le idee degli uomini e delle donne che hanno cambiato il mondo e il corso della Storia, certamente più di una Legge o di un dispositivo tecnico.
In un Paese come questo, porsi dunque la domanda del titolo di questo post, non ha alcun Senso. Da noi la Cultura non ha alcun valore per i ricchi, figuratevi per i poveri che devono badare a sopravvivere.
A nessuno verrebbe in mente di sostenere che la parte intellettuale dei poveri (una fetta consistente di cui non si parla mai) è in grado, oggi più che mai, di "inventare e fare mercato". 
E' accaduto, invece, nel XIX secolo, quando le condizioni erano ben peggiori di quelle odierne, è accaduto negli anni '50, è accaduto, ad esempio, in Argentina nel 2005.
L'esistenza dei "poveri" in Italia è stata sempre censurata. Da pochi anni, a tratti, qualcuno ne parla, ma sempre in termini statistici, o spirituali, o come "fenomeno" sociale che viene identificato come "piaga".
La mancanza di una classe intellettuale attiva e passionale, lucida, non schierata per motivi di bottega o narcisismo a favore delle segreterie dei partiti, ha prodotto una totale censura del dibattito come se i poveri fossero una specie di massa informe di individui affamati di cui, prima o poi, bisognerà occuparsi.
Pensando, va da sè, di cavarsela con delle briciole di carità stucchevole.
Nel frattempo si seguita a vivere come se i poveri non esistessero. Eppure esistono.
Fino a qualche decennio fa erano molto pochi. Poi, sono cominciati ad aumentare di numero, di volume, di spessore, di qualità individuali.
Ma i poveri non hanno nessuna possibilità di poter essere presi in considerazione come esseri umani se la loro condizione non viene alla ribalta e le loro vite non diventano visibili.
I poveri esistono da sempre, dagli albori della civiltà, basta leggere la Bibbia per capirlo.
Gli eventi biblici, dal sapore metaforico e simbolico, devono senza dubbio essere stato replicati in tutto il pianeta migliaia e migliaia di volte. I deboli sono morti, uccisi dal fratello prepotente. I forti, invece, ce l'hanno fatta.
Il primo povero deve essere stato qualcuno preso a sassate e calci dal fratello invidioso e malvagio ed è rimasto tramortito e sanguinante a terra. L'assassino se n'è andato a casa e la vittima, invece di morire, si è ripresa. Sofferente e in preda a un trauma per essersi accorto che il proprio fratello era un assassino, si è ritirato in un posto lontano incorporando un trauma individuale -l'abbandono, il tradimento, il sopruso, la violenza subìta- ma è sopravvissuto, inebetito dal dolore. E si è mescolato con altri poveri come lui. Nei millenni, i poveri si sono trasmessi questo trauma indotto, crescendo senza aver nessuna possibilità di recupero per via di una loro debolezza acquisita, essendo invece vincenti i violenti, i prepotenti, gli arroganti. I poveri, quindi, sono andati ad abitare nelle periferie del mondo.
I poveri sono l' Ombra, in senso junghiano.
Se non si incorpora la loro esistenza, si condanna se stessi a non vivere pienamente la propria, di esistenza, perchè non si ha accesso alla parte umbratile dell'essere umano, che è una parte fondamentale, proprio perchè la più emotiva, la più fragile, la più traumatizzata di fronte al più grande mistero della vita degli umani: l'esistenza dell'ingiustizia e della sperequazione sociale.
Socialmente i poveri sono delle non-persone, rese invisibili perchè non si prenda atto della loro esistenza.
Nella storia della civiltà del mondo è avvenuto che si siano mostrati e ribellati.
Pochissime volte è accaduto, ma è accaduto.
La più grande rivolta planetaria (quantomeno in occidente) dei poveri si è verificata 2.050 anni fa, nel cuore dell'Impero Romano, quando uno schiavo, Spartaco, organizzò la rivolta delle non-persone e sfidò Roma che, allora, traballò. Finì, va da sè, male. Ma l'idea della rivolta dei poveri venne interpretata come un pericolo talmente forte da obbligare il potere a dare un segnale molto forte, di terrore, di paura, di violenza. Dopo averli battuti in campo aperto, infatti, i romani, invece che riportarli in stato di schiavitù, scelsero di ucciderli tutti. Li crocifissero, uno ogni 25 metri, dal Campidoglio fino al porto di Brindisi, sui due lati della Via Appia. Li crocifissero vivi e obbligarono il popolo ad andare a vederli per non dimenticare. Il numero era talmente grande (si parla di decine di migliaia di persone, comprese donne e bambini) che i soldati impiegarono diversi mesi per coprire la distanza da Roma a Brindisi.
Ma fu efficace.
Talmente efficace che i poveri scomparvero dalla scena della Storia per quasi duemila anni, mèmori di quell'evento e terrorizzati all'idea di fare quella fine orribile.
I poveri, quindi, in Europa, crebbero e si diffusero in silenzio, discretamente, ai margini, mentre il potere costruiva teorie che ne giustificassero l'esistenza.
Fino alla metà dell'800, quando, nell'arco di soli cinque anni, dal 1845 al 1850, i poveri irrompono con fragore sulla scena sociale d'Europa.
Non è stato un politico, neppure un economista, a compiere questo miracolo.
Sono stati quattro artisti: un giornalista, un filosofo, un imprenditore, un romanziere, tutti attivi in quegli anni.
Loro hanno "inventato" i poveri, perchè li hanno resi visibili e hanno reso palese e condivisibile la narrativa esistenziale delle loro vite, li hanno sdoganati obbligando il resto della società a prendere atto della loro presenza umana.
Tre dei quattro che hanno realizzato questo evento rivoluzionario, va da sè, erano poveri, poverissimi. Il quarto, invece, era un ricco imprenditore che scelse di finanziare l'artista filosofo.
Erano Charles Dickens, Fedor Mickailovitch Dostoevskij, Karl Marx e Friedrich Engels.
Prima di loro, i poveri non esistevano nella coscienza collettiva europea. Stavano lì nelle loro vite pubbliche, ma considerati e trattati come cani e gatti (quando andava bene).
E' stata la letteratura ad aprire l'armadio dalle cui ante è fuoriuscita l'Ombra del Mondo Sociale. 

E la filosofia.
Marx era talmente povero che fu costretto a non poter seguire la carriera accademica perchè non aveva neppure i soldi per mangiare, ma l'incontro con questo imprenditore illuminato, molto ricco, gli consentì di portare avanti i suoi studi. Quando Engels lo incontrò rimase sedotto dal talento vorticoso di quel giovane filosofo e lo portò con sè in Inghilterra dove gestiva una importante multinazionale dell'epoca. Dopo qualche mese di conoscenza, Engels propose a Marx un contratto scritto con il quale gli garantiva una rendita perenne fino alla morte affinchè potesse dedicarsi agli studi relativi alla "diffusione della necessaria acquisizione di consapevolezza del proprio sè nel mondo dei reietti dell'umanità".
Nella prima metà dell'800 le due più forti potenze europee erano la Russia e l'Inghilterra, che dettavano il bello e il cattivo tempo in campo economico, politico, militare, culturale. Napoleone aveva tentato di opporsi a entrambe ma aveva fallito. E la quantità di poveri, tra il 1815 e il 1845 cominciò a crescere a dismisura, alimentando con la loro energia umana, il necessario capitale sociale d'investimento da parte dei capitalisti che avevano bisogno di braccia e menti che lavorassero per loro.
Si intende: quasi gratis.
A questo servono i poveri.
Nel 1845 un giovane studente di università, poverissimo, in quanto figlio di un piccolo imprenditore agricolo maciullato dalla gigantesca crisi economica prodotta dall'affermazione della rivoluzione industriale in Russia (era la seconda potenza economica al mondo) presentò il suo romanzo d'esordio a un editore che lo accettò, per sbaglio. E lo pubblicò. Si chiamava "Povera gente" e descriveva la sentimentalità, la narrativa emotiva di una coppia di giovani russi, le loro ambizioni, i loro sogni, le loro aspirazioni, presentandoli -per la prima volta nella Storia- come esseri umani a pieno titolo. Quel libro venne letto soltanto da chi povero non era, dato che la stragrande maggioranza dei poveri erano analfabeti. Ciò che turbò le coscienze pensanti della borghesia russa fu che
 vennero a sapere che quei poveri avevano anche delle idee, ma soprattutto un'anima.  L'autore di quel libro non aveva neppure un posto dove dormire ed era ospite di un contadino nella cui stalla soggiornava. Si venne a sapere che i poveri erano dotati di Animus, erano Persona. Al giovane scrittore venne riconosciuto subito il meritato successo e così pensarono di inglobarlo nella borghesia in espansione ma lui, proprio in quanto povero consapevole, non subiva le illusioni di status della piccola borghesia, perchè "paradossalmente libero proprio in quanto povero" (sublime genialità sociologica di Dostoevskij). Quel romanzo produsse la genesi di circoli, associazioni, gruppi che cominciarono a dedicarsi alla promozione dei talenti meritevoli tra i poveri e il romanzo venne tradotto in inglese, francese e tedesco.
Nello stesso tempo, in quel di Londra, Charles Dickens si affermava come l'inventore del romanzo sociale. Nato e cresciuto in una famiglia di piccoli commercianti, quando aveva dodici anni subì lo shock che decretò il suo destino. Il padre, travolto dalla nuova organizzazione sociale nata dalla rivoluzione industriale, fallì e venne arrestato per debiti. Seguendo la normativa di allora, gli fu consentito di portarsi in galera l'intera famiglia, la moglie e gli otto figli, i quali, altrimenti, non avrebbero avuto di che vivere. Charles si rifiutò di andare e a 12 anni si ritrovò per la strada, solo al mondo, pieno di rabbia, di livore, di frustrazione, avido di conoscere e apprendere. Trovò lavoro come operaio in diverse aziende finchè venne assunto come aiuto tipografo di un quotidiano e lì scoprì il giornalismo e lo rivoluzionò. Iniziò dalla gavetta e ben presto inventò due concetti che non esistevano: il giornalismo di inchiesta e il giornalismo investigativo, raccontando sui quotidiani come vivevano i poveri deportati dalle campagne per venire a vivere in miseria lavorando come operai nelle fabbriche tessili di Londra. Cominciò a guadagnare dei soldi e aprì un suo personale quotidiano che andava a distribuire da solo insieme ai suoi amici e iniziò a pubblicare i suoi primi libri, a puntate, seguendo la moda dell'epoca, basata su un miscuglio di gossip mondano e di umorismo britannico: l'unica modalità accettabile di scrivere critica sociale. Finchè non decise di dar vita alla narrazione dall'interno della vita dei poveri. Nel 1849 inizia la pubblicazione della sua autobiografia romanzata, David Copperfield, caposaldo della letteratura europea, che esce a puntate settimanali sul suo giornale per diciassette mesi. Ma Dickens non era contento, perchè sapeva che i poveri non leggevano "non perchè non vogliano, bensì perchè non sanno che esiste la narrativa in quanto gli aristocratici vogliono che loro non lo sappiano, altrimenti si ribellerebbero al loro infausto destino di animali, chi non sa leggere è condannato a essere una bestia da soma". Fu Andrew Blake, un suo assistente, povero in canna anche lui, studioso di letteratura con ambizioni impossibili da realizzare, che ebbe un'idea geniale che trasformò la società di allora: inventò il mestiere del " lettore". Per inventarsi e costruirsi il mercato lo fece gratis per le prime tre settimane, poi cominciò subito a farsi pagare una cifra accessibile per i poveri, il corrispondente di oggi di due euro. Andava in giro nei quartieri dove i poveri vivevano e proponeva loro di incontrarsi due volte a settimana al pomeriggio, tutti insieme nel sottoscala del condominio, dove lui leggeva le puntate di David Copperfield. E funzionò. La gente si entusiasmò nell'ascoltare quella storia e ben presto si diffuse come moda in maniera talmente massiccia che nacque il lavoro di "lecturer for poor people". Centinaia di giovani intellettuali poveri si presentarono al giornale di Dickens proponendosi e andarono a fare quel lavoro che divenne di tendenza (si direbbe oggi). Le persone si "assiepavano" per ascoltare quelle storie e poi rimanevano a discutere, animate dal lettore, condividendo un nuovo livello più evoluto di consapevolezza.
 Il successo di quella iniziativa divenne talmente dirompente che l'aristocrazia lo fece proprio e istituì addirittura la figura accademica del "reader", ancora oggi la più ambita mansione in ambito accademico nella cultura anglosassone, inesistente in Italia e Spagna dove non si è mai affermata.
I "readers" di David Copperfield formarono i primi nuclei delle originarie organizzazioni sindacali, riunioni alle quali l'imprenditore Engels portò il suo amico Karl perchè ne traesse stimolo per le loro attività.
E' accaduta la stessa cosa nel 2005 a Buenos Aires, in Argentina, quando il paese stava cercando di riprendersi dalle conseguenze del default e la disoccupazione intellettuale aveva raggiunto punte spaventose, in seguito alle politiche iper-liberiste di Menem e del Fondo Monetario Internazionale che avevano distrutto la diffusione dell'istruzione pubblica. Nacquero  "los talleres literarios" (trad.: "officine letterarie") sul dichiarato modello dickensiano. E così, i disoccupati intellettuali argentini, filosofi, scienziati, psicoanalisti, scrittori, pedagoghi, architetti, ecc., organizzarono "las lecturas" a casa loro dove per la cifra (diciamo di 10 euro) si andava ad ascoltare qualcuno con una competenza specifica su un certo tema e si stava insieme ad altre persone bevendo caffè e mangiando pasticcini. Reclamizzati con dei foglietti appiccicati agli alberi di tutti i quartieri (nessuno poteva permettersi pubblicità) ben presto si è affermata come scelta di vita per gente che voleva pensare, dibattere, acculturarsi, socializzando con i propri simili a un prezzo abbordabile per chiunque. In pochissimo tempo le "officine" sono diventate migliaia e migliaia, dedicate agli argomenti più disparati, e poco a poco questo fenomeno ha cominciato a spingere gli argentini a ritornare a partecipare attivamente alla vita politica. Il crollo di Menem, il default, e i conseguenti disastrosi governi di emergenza avevano spinto l'Argentina per la prima volta nella sua Storia -un paese dove la Politica era sempre stata una passione condivisa da tutti- a disertare le urne dissociandosi da ogni partecipazione. Nel 2003 e 2004, si erano verificate gigantesche manifestazioni di massa dove non c'erano più slogan peronisti, della destra, della sinistra, ma un unico striscione di apertura su cui c'era scritto "que se vayan todos" (trad.: "tutti a casa"). La gente non ne poteva più. E così, poco a poco, riesumando un'idea vincente vecchia di 150 anni, gli argentini hanno cominciato a modificare il proprio destino, e allo stesso tempo una marea di intellettuali disoccupati e disperati hanno trovato un sistema per sopravvivere svolgendo allo stesso tempo una funzione sociale che è stata poi ampiamente riconosciuta da tutti.
Senza diffusione del sapere, senza istruzione, i poveri e gli oppressi rimarranno sempre tali.

giovedì 13 settembre 2018

Il nazionalsovranismo non ha futuro.


di Sergio Di Cori Modigliani

Il solo fatto che i sovranisti italiani, francesi e tedeschi, abbiano scelto con entusiasmo di farsi rappresentare e guidare da un ideologo statunitense come Steve Bannon, (non parla non legge e non capisce nè l'italiano, nè il francese, nè il tedesco) l'uomo che sosteneva in Usa durante la loro campagna elettorale che gli italiani erano dei pezzenti che all'umanità avevano dato soltanto mignotte, pizzettari e mafiosi, ebbene...la dice tutta sulla stupidità auto-distruttiva, offensiva e denigratoria dei sovranisti europei nei confronti della insuperabile grandezza storica e civiltà degli italiani, dei francesi, dei tedeschi, degli spagnoli, degli olandesi, dei portoghesi, dei cechi, e di tutte le altre nazioni ed etnie europee.
E' un po' come se negli anni'80 Ronald Reagan si fosse proposto alla guida dell'internazionale comunista.
Gli stupidi, come è noto, hanno il fiato corto e la visione miope.
Durano sempre soltanto lo spazio di un mattino.
Ma io rimango un inguaribile ottimista.
Perchè l'Europa, comincia lentamente a svegliarsi.

domenica 9 settembre 2018

Salvini? E se fosse Conte il vero pericolo per la democrazia italiana?






di Sergio Di Cori Modigliani


Se dovessimo prendere per buone le affermazioni del premier Conte, potremmo serenamente desumere dalle sue parole che
a) quando la seconda guerra mondiale è finita, l'Italia era ancora alleata alla Germania.
b). i nazisti non hanno mai invaso l'Italia.
c) l'occupazione tedesca dell'Italia non si verificata perchè nell'autunno del 1943 la guerra era già finita e gli italiani stavano già lavorando alla ricostruzione, ma i tedeschi questo non l'hanno mai saputo.
d) la resistenza non è mai esistita perchè la guerra è finita l'8 settembre del 1943
e) il maresciallo Badoglio è stato il grande padre della Patria che ha prodotto il cosiddetto "miracolo economico".
Ecco un estratto del suo discorso formale di ieri, intervenendo alla Fiera del Levante di Bari:

"Oggi è l'8 settembre. Una data particolarmente simbolica della nostra storia patria, perché in quell'estate di 75 anni fa si pose fine ad un periodo buio della nostra storia, culminato con la partecipazione dell'Italia a una terribile guerra. Con l'8 settembre, inizia un periodo di ricostruzione prima morale e poi materiale del nostro paese. Un periodo che è stato chiamato, con la giusta enfasi, miracolo economico..."
Con un'unica frase è stata cancellata dalla memoria collettiva della nazione l'invasione nazista e la genesi della resistenza.
Se uno studente di liceo pronunciasse questa frase all'esame di maturità lo boccerebbero.
La maggior parte degli italiani, oggi, è portata a reagire sorridendo e irridendo alle parole scriteriate del premier sostenendo al massimo "forse è meglio che seguiti a non parlare e a non comparire", oppure ci scherzano sopra con battute salaci, oppure pensano che sono i media e i giornali ad alterare il significato delle sue frasi.

La mia posizione, invece è diversa.
Penso che il premier Conte abbia una cultura storica e umanistica sufficiente per sapere con certezza matematica che l'8 settembre è la data che certifica la nascita della guerra civile italiana (talmente tragica e dolorosa che in parte ancora non è conclusa, a mio avviso), cioè esattamente l'opposto di ciò che lui ha detto ieri.
L'8 settembre non è stata messa la parola "fine", è stata messa la parola "inizio".

Si tratta di aperto negazionismo.
Personalmente, anche se si tratta di una breve frase priva di senso reale, ritengo che faccia parte di un disegno strategico a lungo termine, finalizzato all'idea di cambiare la Storia, di cambiare a proprio diabolico uso e consumo il passato in modo tale da poter costruire un presente totalmente alterato.
Il negazionismo e la falsificazione bonaria del passato sono i primi mattoni verso l'architettura del totalitarismo.
Io non ci sto.
#noalnegazionismo

mercoledì 5 settembre 2018

Una riflessione di memento familiare sulle leggi razziali promulgate 80 anni fa.






di Sergio Di Cori Modigliani

Sono ottimista di carattere.
Per quanti dolori e delusioni possa aver incassato nella mia esistenza, finisco sempre per pencolare dalla parte della bilancia che mi ricorda, invece, quanti piaceri e soddisfazioni io  abbia avuto la fortuna di meritarmi. 
Non è necessario scomodare l'intellighenzia psicoanalitica per riconoscere che questa mia valenza caratteriale sia una monumentale eredità che mi ha trasmesso mia madre fin da quando ero piccolo.
E, inevitabilmente, nella giornata di oggi, il mio ricordo va a lei che non c'è più.
Avevo 8 anni, quando venni a sapere, con dovizia di particolari, che cosa volesse dire appartenere a una famiglia di ebrei italiani che avevano subito le persecuzioni fasciste.
Era il 5 settembre del '58 e quel giorno la comunità ebraica di Buenos Aires, dove io ero nato e vivevo, aveva deciso di ricordare l'infausto evento di 20 anni prima, con una serie di convegni, conferenze e dibattiti dedicati al tema. Per l'occasione, erano venuti anche maestri e pedagoghi per parlare della questione ai bambini della mia età, con il dichiarato fine di coltivare la memoria collettiva.
Era la prima volta che mi veniva consentito di partecipare a un evento del mondo adulto.
Rimasi molto colpito e anche molto confuso.
Ricordo che non capii più di tanto e poi, al pomeriggio a casa, insistevo con mia madre per avere maggiori dettagli su una questione per me incomprensibile.
Ero un bambino capriccioso, tenace e molto insistente.
Alla fine, mia madre cedette e mi raccontò la sua personale giornata del 5 settembre del 1938, a Milano, nella sala dei professori del Liceo Parini.
Lei aveva 18 anni.
A metà del mattino, verso le 11, era entrato in aula il bidello e aveva detto che mia madre era stata convocata dal preside nella sala professori. Lei si era alzata e lo aveva seguito. Nella sua classe era l'unica italiana ebrea. 
Quando entrò nella sala riunioni vide che c'erano altri sette studenti. Tutti in piedi e spaventati. Anche i professori erano in piedi davanti alla grande scrivania. Il preside aveva un'aria impettita sull'attenti, come alcuni docenti. Altri, invece, erano appoggiati al tavolo. Il direttore dell'istituto aprì la cartella e lesse il documento ufficiale: A nome di Sua Maestà, Vittorio Emanuele III di Savoia, in ottemperanza al decreto governativo firmato ieri da Sua Eccellenza, il cavalier Benito Mussolini, capo del governo, e approvato e controfirmato da Sua Altezza Reale, vi dobbiamo comunicare che da domani mattina, addì 6 settembre 1938, in conformità a quanto stabilito dalla Legge, non potrete più essere accolti a frequentare le lezioni di questo Liceo Statale, in quanto appartenenti a razza inferiore e quindi identificati come potenzialmente pericolosi per la sicurezza dello Stato e delle istituzioni a esso collegate. Da domani, non potremo più permettere che il nobile sangue italiano corra il rischio di contaminazione entrando in contatto con israeliti. Abbiamo il dovere di difendere e salvaguardare la purezza della razza superiore italiana, essendo noi i guardiani della Patria Italica. Adesso potete andare.
Il professore di lettere si avvicinò al preside e insistè per stringergli la mano.
Il docente di fisica e matematica, invece, si avvicinò a lui e davanti agli otto studenti lo prese a schiaffi e gli sputò in faccia. Ci fu un parapiglia e il bidello spinse fuori gli studenti. 
Questo racconto mi colpì molto e dopo dieci minuti insistei con mia madre perchè me lo raccontasse di nuovo. E dopo, insistei ancora per avere altre spiegazioni. Mia madre mi spiegò ciò che poteva e io volevo sapere che cosa fosse accaduto al professore di matematica. Mi disse che il giorno dopo era stato licenziato, denunciato per disfattismo e aperta connivenza con membri di una razza inferiore e poi inviato al confino per due anni all'isola di Ventotene. Il giorno dopo martellai mia madre con domande e la obbligai a raccontarmi di nuovo la storia che mi aveva davvero molto colpito. Alla fine della giornata, mia madre, esausta, ci aggiunse una sua riflessione che è diventata la spina dorsale delle mie scelte esistenziali.
"Erano tempi brutti, tempi di cattiveria e di violenza " mi disse "ma se io oggi sono libera e viva, e lo sei anche tu, è stato grazie al professore di matematica. Ricordalo. Non lo dimenticare mai. Per quanti criminali e mascalzoni tu possa incontrare nella tua vita, ci sarà sempre una persona per bene che non sarà d'accordo e ti salverà. E' per questo che i buoni e i giusti, alla fine, nel mondo, finiranno sempre per prevalere sui cattivi".

Le leggi razziali del 1938 mi hanno consegnato questa lezione che ha forgiato il mio carattere nella mia vita.

Ed è nel nome di questo lascito materno che oggi voglio sottolineare la memoria dei tanti italiani per bene, fieri, dignitosi, e fuori dal gregge opportunista, che allora si opposero ed ebbero il coraggio di manifestare il proprio aperto dissenso, a costo della propria vita.
E' soprattutto grazie a quelle persone che tanti italiani innocenti si sono salvati.
Fu un momento atroce quell'autunno del 1938.
Ma era popolato anche da tanti, tanti buoni anonimi a cui va il mio ringraziamento postumo.

Esistevano.
Anche oggi, esistono.

Basta saperli riconoscere, e volerli riconoscere, e andarseli a cercare.
Se uno ha voglia di farlo, si intende.