sabato 27 gennaio 2018
Sei anni fa avevo pubblicato questo post.Sottolineavo con forza l'assoluta necessità di coltivare la memoria storica collettiva della nostra nazione per affrontare il problema che il sottoscritto riteneva fosse fondamentale nel 2012: l'inatteso rigurgito del nazifascismo in Italia. Pensavo e speravo che il mio contributo servisse a stimolare un dibattito e un confronto sul tema.
Non fu così.
Restò una speranza.
Lo ripropongo oggi, esattamente come era.
venerdì 27 gennaio 2012
di Sergio Di Cori Modigliani
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Art.21 costituzione della Repubblica Italiana.
Oggi,
ufficialmente, ricorre il giorno della memoria, in ricordo delle
vittime della persecuzione nazista ai danni degli ebrei, la cosiddetta
Shoah, iniziata ufficialmente nel 1933 in Germania e conclusasi nel
maggio del 1945.
Da
quando è stato istituito il Giorno della Memoria delle vittime della
Shoah, altre giornate sono state stabilite per ricordare avvenimenti che
hanno sconvolto la storia del XX secolo. Personalmente sono d’accordo
con lo storico Georges Bensoussan, il quale sostiene che “in tal modo si
è venuta a creare una mistica della memoria che rischia di portare
all’esatto contrario dello scopo che si prefigge, cioè a un’amnesia
collettiva, in virtù del fatto che grazie alla forme retoriche e
spettacolari che l’evento ha assunto lo ha trasformato in un fatto
mediatico, e quindi questa memoria tende ad avvolgere i crimini compiuti
di un’aura arcaica e ancestrale, isolandoli dal loro contesto storico
reale, facendo così dimenticare che in realtà furono il prodotto più
violento della nostra modernità”.
La
Shoah, al di là delle testimonianze storiche, del lavoro degli storici,
delle spiegazioni, delle risposte politiche e psicologiche che sono
state date alla “soluzione finale” voluta da Adolf Hitler, è stato
soprattutto –più di ogni altra cosa- un fatto esistenziale interiore,
vissuto dagli ebrei sulla loro carne, sulla loro pelle, sulla loro
identità.
Per gli ebrei, la Shoah non è un fatto storico, bensì un elemento emotivo.
La
“memoria” di ciò che è accaduto non viene innescata alla mezzanotte del
26 gennaio per poi spegnersi alla fine del 27 gennaio, dopo le solite
presenze dei soliti noti nei vari talk show, documentari alla tivvù,
fotografie di repertorio. E’ una parte integrante e indissolubile del
loro essere come persone sociali e non c’è momento della loro vita nel
quale non mantengano dentro di sè il ricordo di quella tragica vicenda.
Da
quando in Italia è stata creata la Giornata della Memoria, tutte le
istituzioni e tutte le personalità politiche ai più alti livelli
rappresentativi partecipano in maniera molto visibile, facendo in modo
di garantire con la propria presenza una specie di assicurazione
pubblica che in Italia, un fenomeno di questo genere non avverrà mai.
Ma
allo stesso tempo, proprio in virtù di questo esagerato, lapposo e
demagogico presenzialismo, è scattato un gigantesco fenomeno di censura e
di negazionismo che si è sviluppato sempre di più negli anni, con
geniale e strategica abilità, finendo per costruire una realtà storica
che presenta la “soluzione finale” come un’aberrazione e una follia
criminale dei tedeschi malvagi e con la consueta presentazione di
italiani eroici che hanno salvato tanti ebrei tra il 9 settembre del
1943 e il 25 aprile del 1945 durante l’occupazione tedesca militare del
suolo italiano.
Così
facendo, la destra italiana partecipa in prima fila nell’esaltazione
della Memoria Storica, nel nome di un’amnesia collettiva e subdolamente
negazionista: non si parla mai di chi, quando e come ha iniziato ad
applicare la soluzione finale nel territorio italiano, evento che si è
storicamente verificato cinque anni prima che un solo tedesco entrasse
dentro ai nostri confini geografici.
Questo
è il motivo per cui mi rifiuto, in quanto ebreo italiano, nel giorno
della memoria, di offrire ai lettori come immagine in bacheca la solita
immagine di deportati ad Auschwitz, di bambini macilenti, di donne dalla
figura spettrale con tanti cadaveri ammonticchiati, con i soliti
tedeschi cattivi che indossano il cappotto di pelle nera.
In bacheca vedete la prima pagina del Corriere della sera in data 11 novembre 1938.
Basta leggere i titoli con attenzione per capire.
Il
giorno “ufficiale” in cui il fascismo e Benito Mussolini gettano
l’ultima delle loro maschere e danno vita alla più sconvolgente follia
criminale mai perpetrata nella storia di questo paese: l’identificazione
dei cittadini italiani di etnia ebraica (era sufficiente che fosse
ebreo anche uno solo dei quattro nonni e dal 1941 anche uno solo dei
quattro bisnonni) e l’attribuzione a quelle persone della dizione
“appartenente a razza inferiore dimostrata scientificamente, e di
conseguenza non capacitati né legalmente atti alla partecipazione
collettiva e sociale in termini di lavoro, occupazione, attività
statali, siano esse civili, militari o religiose”.
Con
decreto legislativo firmato dal duce Benito Mussolini e controfirmato
da Sua Maestà Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d’Italia, coadiuvati
da una lettera con sigillo firmata dal Papa che approvava a nome della
chiesa cattolica di Roma tale editto, il fascismo creava –per la prima
volta nella storia di questo popolo- il concetto legale di “pulizia
etnica” stabilendo una gerarchia razziale e ponendo le condizioni per
identificare cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Di
tutto ciò, presentato nei suoi aspetti narrativi ed esistenziali, in
Italia si parla poco, pochissimo, quasi niente. Agli italiani è stato
fatto credere che il fascismo sia stato una specie di semi-barzelletta
un po’ farloccona, gestita da alcuni prepotenti magari un po’ esagerati
(dopo tutto siamo italiani), una specie di farsa che poi si è
trasformata in dramma sfociando in tragedia quando sono entrati in scena
i veri cattivi, cioè la gestapo tedesca. Tant’è vero che nell’ultimo
decennio è fiorita addirittura tutta una scuola di pensiero che finisce
sempre nello stesso punto: minimizzare e “storicizzare” il fascismo, in
tal modo riuscendo –da bravi italiani irresponsabili- ad attribuire
l’esclusiva responsabilità dei fatti ai perfidi tedeschi. Non è stato
così.
E poiché di memoria si parla, che memoria sia.
E’
una pagina della storia ancora negata, silenziata, dopo 73 anni, se ne
parla appena e sempre in maniera confusa, pressappochista.
E’
stato invece l’atto ufficiale con il quale una banda di criminali ha
eliminato il concetto di Legge, di Diritto Civile, emanando un decreto
il cui unico scopo consisteva nell’avere carta bianca per eliminare
fisicamente dei concittadini che non avevano commesso alcun reato,
approfittando di tale evento per impossessarsi dei loro beni, dei loro
averi.
Fu il primo atto storico di costituzione in Italia del concetto di “casta privilegiata”.
E
non è certo un caso che non viene raccontata oggi la verità storica di
quei tempi, perché troppi sarebbero i nessi con gli atteggiamenti e i
comportamenti dell’attuale classe politica contro la quale ogni giorno
ci si indigna.
I
Scilipoti di oggi, i Borghezio di oggi, il mercanteggiamento ignobile
dei voti in parlamento, sono figli legittimi del fascismo e delle leggi
razziali. Da lì veniamo.
Ma gli italiani non lo sanno.
E
solo attraverso il ricordo di una memoria di narrativa eistenziale
privata è possibile sapere come sono andate le cose. A differenza dei
"perfidi tedeschi" che dal 1945, assumendosi tutta la responsabilità dei
loro atti, senza dar tregua a se stessi, invece di operare un processo
di revisione, hanno aderito al ben più profondo collettivo senso di
lutto generalizzato, per poi riemergere dal buio della Storia come una
etnia rinnovata, aperta e disponibile ad una idea democratica autentica
del vivere civile, in Italia invece si è scelta la strada della amnesia
collettiva.
Provengo
da una famiglia italiana che ha subito le leggi razziali, e tuttora ne
porto su di me –che sono nato vent’anni dopo- le ferite e il danno
subìto.
Mia
nonna paterna, Rachele Bemporad, era una grande imprenditrice
triestina. Era il più importante editore del regno, associata con
l’ingegner Marzocco, da cui la celebre casa editrice Bemporad Marzocco.
Il 12 novembre del 1938 (tutto avvenne in maniera molto veloce per
approfittare dell’effetto sorpresa) si presentarono nel suo ufficio a
Firenze dove era la sede centrale e le comunicarono che la sua impresa
era stata requisita, comprese dodici tipografie e sei magazzini con
80.000 volumi dell’archivio. Non le consentirono neppure di telefonare a
un avvocato. I conti correnti nelle banche vennero chiusi e i soldi
trasferiti direttamente sul conto corrente intestato a “Ufficio Difesa
della Razza”.
Ritornò a casa e comunicò a mio nonno che non avevano più nulla.
Mio
zio, il fratello di mio padre, un precoce ed eccellente medico, era
allora vice primario all’ospedale San Camillo, a Roma. Lavorava come
chirurgo. Alle quattro del pomeriggio, dopo essere uscito dalla sala
chirurgica per una lunga operazione venne convocato alla direzione
sanitaria al pianterreno. Venne accolto da un suo collega, in divisa, un
medico di vent’anni più anziano che mio zio considerava un inetto e
pessimo medico, e aveva deciso di non volerlo neppure come secondo
assistente in sala chirurgica. Costui gli comunicò che era licenziato,
la sua laurea era revocata e non avrebbe mai più potuto esercitare la
sua professione in Italia. Quel mediconzolo prese il suo posto (oltre,
pare, al suo conto corrente nella banca dell’ospedale) e si
auto-promosse vice-primario. Nomina che venne confermata immediatamente
per “meriti acquisiti nel difendere la purezza della gloriosa razza
italica”.
Mio padre, invece, aveva un suo studio commercialista tributario e di mediazione finanziaria in borsa.
Arrivarono
alle ore 17 con la carta che certificava la sua cancellazione dagli
albi professionali. Gli venne requisito l’ufficio e sottratta la
proprietà e si impossessarono di tutti i conti correnti dei clienti, la
maggioranza dei quali erano cattolici che non ebbero la possibilità di
protestare. Chi lo fece, finì in carcere sotto l’accusa di “aver
prestato la fiducia a individui appartenenti a razza inferiore”.
Mio
nonno aveva sei tipografie. Era stato lo stampatore d’arte di Boccioni,
di de Chirico e del grande Savinio. Anche lui, alle ore 19, si vide
arrivare i funzionari dell’ufficio della razza che gli comunicarono la
notizia dell’avvenuta espoliazione.
Iniziò così, in tutta Italia.
Bande
di nullafacenti, approfittatori, opportunisti, andarono a spulciare
nelle anagrafi di tutta Italia sperando di trovare un antenato ebreo
nell’800 del vicino di casa per poter avere la scusa di presentarsi a
casa di qualcuno e portargli via tutto, oppure ricattarlo e imporre il
pizzo. Furono milioni gli italiani che subirono il ricatto e pagarono
mensilmente per anni una tassa clandestina perché non si sapesse che un
loro nonno era ebreo.
In
Italia nel 1938 bastava avere “un quarto soltanto di sangue ebreo nelle
vene per poter giustificare l’applicazione dell’editto regio”.
Di queste storie, di queste vite stroncate, in Italia non se n’è parlato mai.
Mai.
Se non tra ebrei.
Quando
si parla della Shoah, avrete notato, in Italia si fa iniziare la storia
dopo il settembre del 1943, quando sono arrivati i tedeschi. E invece
era iniziato tutto cinque anni prima.
Fu l’inizio di una cultura che sostituì l’arroganza e l’avidità di denaro al concetto di merito e competenza tecnica.
E promosse i furbi, i cinici, gli approfittatori.
Tutte
le tipografie dei miei nonni e i magazzini dei libri vennero venduti
subito ad un prezzo dieci volte inferiore del loro valore ad un abile
tipografo di Milano, un certo Arnoldo Mondadori, dotato di buone
conoscenze in Vaticano, il quale si prese anche altre sei piccole ma
solide case editrici nell’Emilia, a Torino, nel Veneto.
A
gestire “culturalmente” l’operazione fu un certo Telesio Interlandi,
direttore responsabile di una rivista che si chiamava “La difesa della
razza”. Il suo editorialista di punta era un avvocato molto ambizioso,
di Arezzo, che lavorava come assistente di ruolo alla cattedra di
Diritto Pubblico a Roma. Si chiamava Amintore Fanfani.
Venti
giorni dopo, a Napoli, il preside della celebre “scuola di diritto
latino” della facoltà di giurisprudenza, Massimo Ferrara (cattolico), un
giurista stimatissimo in tutto il mondo, contestò la legge razziale
sostenendo che aveva una falla che ne decretava la sua inammissibilità.
Si rifiutò di applicarla con dieci ebrei che lavoravano nel suo
istituto.
Amintore
Fanfani, accompagnato da Interlandi e da dieci squadristi si presentò
in facoltà. Lo prese a schiaffi davanti agli studenti e gli impose le
dimissioni.
Un mese dopo, Fanfani diventava ordinario alla cattedra che gli aveva sottratto.
Fu la presa del potere dei furbi, degli ignavi.
Fu l’assassinio della cultura d’impresa e l’inizio del seme dell’abilità trasformista.
Oggi, gli ebrei, in Italia non sono più il nemico istituzionale né il nemico di mercato.
La Storia è cambiata.
E’ molto peggio.
Siamo diventati tutti, ebrei sotto le leggi razziali, in questo gennaio 2012.
Oggi,
il nemico delle istituzioni e del mercato, sono tutte le brave persone
che pretendono di farsi valere sulla base del proprio merito, che
vogliono entrare nel mercato e imprendere avendo accesso a opportunità
che la Legge dovrebbe garantire a tutti per diritto costituzionale,
sulla base del proprio titolo di studio e delle proprie capacità.
Indifferentemente ebrei, cattolici, mussulmani, settentrionali o
meridionali.
Ma subiamo tutti, la gogna delle leggi razziali.
Delle
“leggi razziali” sui generis, invisibili, non scritte, non costituite.
Addirittura democratiche e quindi impossibile da denunciare: colpiscono
chiunque e dovunque.
Se
oggi l’Italia è così com’è è anche grazie al fatto che è stata negata a
questo popolo l’opportunità di avere accesso alla Memoria storica di
quei tempi, perché pochi, pochissimi, sanno ciò che è veramente accaduto
in Italia dall’11 novembre del 1938 in poi. Gran parte di coloro che
approfittarono di quell’occasione per far carriera, per arricchirsi,
scegliendo delle impensabili scorciatoie d’opportunità sulla pelle di
altri, comportandosi come autentici criminali, sono finiti nei posti di
comando nella Repubblica Italiana.
E hanno trasmesso ai loro figli e nipoti quell’interpretazione della vita e del lavoro.
Una
concezione aristocratico-oligarchica del potere, basata
sull’annullamento dei diritti dei cittadini, sulla cancellazione delle
ambizioni, sulla negazione del rischio d’impresa, per poter far
trionfare il malaffare. E la corruttela permanente mascherata sempre
sotto il manto dell’ideologia, a seconda dei casi, delle mode, dei
tempi.
Nel
Giorno della Memoria, per renderla più attiva e viva, mi è sembrato
giusto ricordare da dove veniamo cercando di non fare della piatta
retorica, della demagogia consueta.
Non
sono stati fatti ancora i conti con il fascismo che è dentro la spina
dorsale della mente italiana, è per questo che l’Italia non riesce a
riprendersi.
Ed è per questo che, oggi, i fascisti stanno rialzando la testa sotto nuove forme, nuove sigle, mentite spoglie.
Sanno che non è cambiato niente.
A questo serve la memoria, ed è per questo che è importante.
Perché,
come diceva Elie Wiesel “se non sappiamo da dove veniamo, che cosa ci
hanno fatto, che cosa abbiamo fatto, come possiamo pretendere di poter
avere anche una minima nozione di dove stiamo andando?”.
Che i morti di Auschwitz riposino in pace l’eterno sonno dei giusti.