di Sergio Di Cori Modigliani
"Se la libertà
significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente cose che non
vogliono sentire."
George Orwell
La rete è velocissima e immediata, per definizione. Grazie alla
diffusione dei social networks, facebook in testa, riesce a raggiungere un
livello esasperato di amplificazione grazie al suo impatto emotivo, sia in
entrata che in uscita. Un qualsivoglia evento produce subito una reazione a
catena che può raggiungere una visibilità esorbitante, oppure spegnersi dopo
qualche minuto scomparendo nel nulla. Va da sé che impiegati delle più
disparate agenzie di controllo, portaborse, galoppini, esperti di marketing
avanzato, funzionari anonimi dei partiti, i cosiddetti “influencers”, ogni
giorno monitorano il traffico e intervengono cercando di portare l’acqua al
proprio mulino, mascherati dietro i più astuti avatar. Producono e promuovono
falsi, cercano di pilotare l’opinione pubblica dove vogliono loro, spingendola
secondo modalità rozze o sofisticate, a seconda dei casi, ma l’attività
principale consiste nel falsificare la verità, delegittimare qualunque forma di
antagonismo allo status quo e contribuire ad annacquare il significato
potenzialmente esplosivo della rete, facendo in modo di creare molto spesso uno
stato di confusione nel fruitore.
La nascita del web e la sua gigantesca diffusione (solo in Europa
occidentale 250 milioni di persone collegate ogni giorno in maniera permanente)
ha comportato una modificazione molto ampia nella comunicazione, soprattutto di
quella politica e di quella deputata allo
scambio sociale, provocando e producendo dei risultati che affascinano i
sociologi e gli antropologi.
Essendo la rete un mondo “aperto”, accoglie chicchessia, la vera massa
delle nazioni. Per quanto i gestori del potere tentino di imbavagliarla e di
tenerla sotto controllo, non ci riescono perché non è possibile. E’ come
cercare di far stare zitti i tifosi allo stadio: è impossibile. Non solo. Ma
per il potere è più utile avere la possibilità immediata di tastare il polso
della nazione non appena svegli per regolarsi e comportarsi poi di conseguenza.
Circa un paio di mesi fa, in una conferenza per gli studenti appena laureati in
Scienza delle Comunicazioni a Harvard, il presidente Obama raccontava che, da
sempre, per consuetudine, la giornata presidenziale si apriva con un breve
incontro con i responsabili della comunicazione della Cia e dell’Fbi per essere
al corrente sull’idea del mondo a proposito dell’America. Non più. Il suo primo
appuntamento della giornata è con due esperti in social networks che presentano
un rapporto di sintesi su “che cosa si dice sul presidente nei più importanti
social networks d’America”.
Questa “immediatezza” della rete è la sua caratteristica più nota. Ma è
anche il suo limite naturale, perché frulla e ingoia e macina gli eventi e non
consente l’elaborazione, l’argomentazione, l’analisi dei fatti. I social
networks, infatti, hanno una struttura clanica, tribale. Per quanti amici uno
possa avere su facebook, ad esempio, finisce sempre a interloquire soltanto con
quelle cinque, dieci, venti persone al massimo, con le quali stabilisce una
specie di ideale cordone ombelicale di salvaguardia delle proprie idee. E’ la
piazza del villaggio elettronico profetizzato cinquant’anni fa da Marshall
MacLuhan. E in presenza “dell’evento X” diventa tifo odioso che fa scatenare le
pulsioni.
Fin qui, tutto ovvio.
Ciò che è meno ovvio, ed è oggi al vaglio degli studiosi di
comunicazione più eleganti, consiste nel “Paradosso Sociale della
Comunicazione” (così l’hanno definito in Usa: The Social Paradox) provocato da
questo divertente modo di comunicare: il rallentamento delle notizie e il
crollo del concetto di informazione. Ovverossia: l’esatto opposto di ciò che la
gente crede di star vivendo.
Proprio perché le notizie possono essere facilmente falsificate e le
“informazioni” viaggiano soprattutto sul binario emotivo, crolla l’interesse
quando non sono più al centro dell’attenzione della piazza, e quindi non
vengono più prese in considerazione. “L’informazione” sui social networks è
basata sul principio dell’usa e getta. Un articolo, oggi, ad esempio, sul
conflitto tra israeliani e palestinesi non produce alcuna risonanza né
interesse, perché in questo preciso momento, in Medio Oriente, non sono
presenti sulla scena gli attivisti tifosi dell’una o dell’altra parte, non
esiste carica emotiva messa in gioco, e non si attiva la spontanea
partecipazione dei membri del proprio clan d’appartenenza. E’ un modello che
rispecchia il vuoto culturale perenne nel quale viviamo, ovvero la
trasposizione nel mondo virtuale di un concetto marketing pubblicitario e
l’impossibilità di elaborare i dati e confrontarsi su di essi: la velocità
dello scambio di informazioni “paradossalmente” ci condanna a non avere più
informazioni reali, perché è l’emotività (proprio come nel mondo pubblicitario)
a solleticare gli input dell’attenzione e non il ragionamento o la ricerca della
verità. Facciamo un esempio chiaro: la comunicazione politica, oggi, che nasce
e si propaga in rete, è basata su “le idee o le opinioni che circolano” perché
la classe politica si basa sull’immediato, avendo come obiettivo il consenso e
non la propria progettualità. Quindi non c’è né il tempo (né la competenza) per
essere creativi in maniera “comunicativa” e allo stesso tempo “informativa”.
Proseguiamo con l’esempio. Il PD non vuole l’accordo con il PDL sostenendo che
“Berlusconi è impresentabile” e giù valanghe di tifosi a sostenere questo
principio dovunque in rete; oppure valanghe di persone a difendere il leader.
E’ perdente (ma non per loro) tant’è vero che è stato innescato da 20 anni e da
20 anni regolarmente non produce nessun risultato utile, se non quello della loro
autoconservazione. Eppure il PD seguita ad usarlo: è un modello della politica
feisbucchiano e vecchio. Usa e propone strategie perdenti il cui fine non è il bene
comune, bensì andare incontro ai propri tifosi per mantenere la propria rendita
di posizione (il PDL fa lo stesso). Se invece il PD avesse usato una forma di
comunicazione basata sui dati reali, sull’informazione argomentata e sulla
divulgazione di notizie, non soltanto avrebbe raccolto applausi e consensi ma
avrebbe inchiodato il PDL alle sue responsabilità. Bastava dire una frase
banale come questa: “Noi non possiamo fare nessun accordo con il PDL anche perché
il suo presidente Berlusconi aveva promesso la restituzione dell’IMU 2012 e
l’abolizione dell’IMU 2013 che comporta un salasso immediato per il Tesoro di
svariati miliardi che in questo momento non ci sono. A meno che Berlusconi e il
PDL non siano d’accordo a ridefinire il fiscal compact e quindi avviare un
tavolo europeo per consentire allo stato italiano di poter alleggerire il
proprio dovuto impegno”. Con una frase come questa, tutte le forze politiche
attualmente in gioco sarebbero state costrette a occuparsi allora del fiscal
compact (l’unico vero problema reale della nazione, nel senso che è la mamma di
tutti i problemi) e il PDL il PD e il M5s sarebbero stati obbligati a
esprimersi in proposito. Ma così facendo, sarebbe venuto fuori che sia il PD
che il PDL sono favorevoli al fiscal compact dato che lo hanno voluto,
sostenuto, approvato e votato. Perché da questo non si può sfuggire: o c’è
l’Imu e nuove tasse da strozzo oppure si apre un tavolo europeo e si denuncia
“ufficialmente” a Bruxelles il Fiscal Compact.
Si sarebbe, pertanto, parlato di Politica. Di quella “vera”, cioè del
Bene Comune dell’Italia e degli italiani che lavorano, che pagano le tasse, che
possiedono la casa in cui abitano. Invece, il tempo passa, la credibilità
finanziaria italiana decresce (la cosiddetta “decrescita infelice”) si avvicina
a passi da gigante una supplementare manovra economica eccezionale, e su
facebook, nei twitter, in tutto il web, la cosiddetta informazione in Italia
viaggia su battibecchi relativi al fatto se Grillo va d’accordo con gli eletti
in parlamento, se Berlusconi andrà o non andrà ai suoi processi, se Bersani
riuscirà a raccattare qualche voto e fare “il miracolo”.
Difficile trovare in giro una notizia, un post, un riferimento a ciò che
bisognerebbe fare, a ciò di cui si dovrebbe parlare, al punto nodale sul quale
il PD il PDL e il M5s dovrebbero riferire in lunghe conversazioni alla nazione,
spiegandoci come intendono affrontarlo: come e chi e quando e per quanto
sceglie e decide come risolvere il problema di cassa del sistema bancario
italiano che si aggira intorno a una cifra tra i 120 e i 200 miliardi di euro?
La realtà ci regala, anche oggi, l’ennesimo dato “reale”: per il nono
giorno consecutivo la borsa valori di Milano è in controtendenza rispetto al
resto d’Europa e a Wall Street. In Italia va giù mentre dalle altre parti va
su. Non ci sono più soldi da noi. Il che vuol dire che il governo (qualunque
sia il governo) dovrà rivolgersi al cosiddetto fondo salva-stati inventato da
Draghi e chiedere un voluminoso prestito che ci affosserà, perché comporterà
dei costi aggiuntivi di interesse insostenibili per la nazione. Si viene a
scoprire (sul mercato) che banche considerate “virtuose” e solidissime fino al
20 febbraio, nelle Marche e nel Veneto, stanno invece calando a picco, proprio
nelle zone dove il PD e il PDL hanno perso centinaia di migliaia di voti.
Perché oggi si comprende l’autentico esito del voto: i 12 milioni di voti persi
da PD+PDL+Lega Nord (andati in gran parte al M5s e per il resto in astensione)
appartenevano anche a clientele andate perdute, il che ha comportato
immediatamente un forzato riassestamento del mondo bancario che non è più
sostenuto politicamente da chi evidentemente ha provveduto a insabbiare le
ispezioni di BANKITALIA. Il PD ha fatto campagna elettorale nelle Marche, dove
i sondaggi lo accreditavano di un buon 38%, presentando come fiore all’occhiello
la meraviglia della Banca delle Marche con i conti a posto. D’Alema è stato
battuto. Il M5s è risultato primo partito e il PD ha perso circa il 14% del
proprio elettorato. Una settimana fa, la Banca delle Marche ha dichiarato di
avere un buco di 670 milioni. Come mai? Idem in Veneto, dove tra PDL e Lega
Nord hanno perso circa il 22% del loro elettorato. Stessa identica scena. Gli
istituti di credito portati come esempio fino al 24 febbraio, denunciano oggi
gravissime perdite improvvise. Come mai? Perché nessuno se lo chiede? Hanno
detto il falso prima e pensavano che andando al potere avrebbero risolto “in
modo italiano” la questione? Oppure è accaduto qualcosa in quest’ultimo mese che
a nessuno di noi è stato detto?
Domande, domande. Tante domande.
Dobbiamo cambiare passo. Dobbiamo ritornare a fare domande basiche,
elementari, lineari: “Dove sono andati a finire i soldi degli istituti
finanziari italiani visto che le prime 200 banche nazionali dichiarano di stare
con l’acqua alla gola? Come mai?”.
Io, in questi giorni, mi sto chiedendo questo.
Forse ho perso la mia vena poetica e sono diventato troppo prosaico e
troppo pragmatico, ma questa domanda mi pungola il cervello di continuo. Più
seguo le vicende economiche ogni giorno e ciò che sta avvenendo in tutte le
borse, e più me lo chiedo, pensando che dovrebbero chiederselo tutti gli
italiani; a mio modesto parere è l’unica cosa di cui dovrebbero parlare i
giornalisti nei loro piatti talk show televisivi. “Dove sono andati a finire i
soldi delle banche italiane che fino al 22 febbraio erano considerate solide,
affidabili e con i conti a posto e che oggi si scoprono tutte, all’improvviso,
in grave, gravissimo affanno di liquidità?”.
Per quanto mi riguarda, tutto il resto sono inutili chiacchiere da bar.