di Sergio Di Cori Modigliani
Ci risiamo, come al solito.
Incapaci di assumerci la responsabilità delle nostre azioni storiche e delle (nostre) malefatte che compiamo nel nostro territorio, dato che la criminalità organizzata più efferata d’Europa è, per l’appunto, ahinoi italiana, non si può non sottolineare la genesi di un fenomeno nuovo che io vigorosamente contesto: la diffusione sempre maggiore di un odio massivo contro i tedeschi e la Germania.
Non essendo in grado, per opportunismo, corruzione, miopia, di esercitare una sana ed efficace azione (legale) contro i nostri criminali nazionali, ci si organizza contro un nemico esterno: i siciliani adesso odiano i continentali dai quali si sentono abbandonati (invece di recarsi in massa dai carabinieri per denunciare l’intero consiglio regionale, destra e sinistra) i sedicenti padani vogliono la secessione invece di interrogarsi sul perché e come hanno votato e accettato la distruzione del territorio del Veneto sotto una colata di cemento gestita dalle imprese edili delle più importanti famiglie calabresi, e mentre i livornesi se la prendono con i pisani, i tarantini con i foggiani, su “Il piccolo” di Trieste compare un articolo di denuncia sull’ingresso alla grande della camorra napoletana nel territorio del Friuli Venezia Giulia -senza mai però accennare alla condiscendenza delle amministrazioni locali- (come se i camorristi arrivassero dalla luna)….e intanto il potere gongola.
E così si cerca di inventarsi un collante nazionale ritrovando un’unità di intenti nell’odio contro la Merkel, fomentando la protesta contro i tedeschi, sempre più identificati come i veri e unici responsabili dell’attuale sconquasso europeo, e soprattutto italiano.
Per la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra una meravigliosa goduria.
Il che non vuol dire esimersi dall’esercitare una forte azione di critica politica al comportamento di Angela Merkel, ma non per il fatto che lei è tedesca, bensì per gli interessi retrivi che l’oligarchia finanziaria che la sostiene l’ha spinta ad interpretare. Né più né meno di quanto non lo faccia Nicolas Sarkozy, non lo faccia David Cameron, non lo abbia fatto Silvio Berlusconi e non lo stia facendo il nostro prode ragionier robotico Mario Monti.
Invece di protestare contro le “imposizioni della Germania” (così le ha definite Mario Monti) sarebbe il caso di interrogarsi, invece, se da quel paese, da quell’etnia, da quel popolo che, in Europa, è l’unico a non avere problemi economici, ad avere uno stato welfare che funziona alla perfezione, e ad essere il più solido difensore dei diritti civili nel continente, non ci sia anche qualcosa da imparare.
Dopotutto, oltre ad Adolf Hitler, la Germania ci ha regalato anche (tanto per elencare alla rinfusa i primi nomi che mi vengono alla mente) Johannes Bach, Ludwig Van Beethoven, Immanuel Kant, Wolfang Goethe, Karl Marx, Friedrck Nietszche, Albert Einstein, Wim Wenders, ecc. Evidentemente esiste una certa intelligenza e visionarietà caratteriale nel loro dna socio-psichico che nei secoli li ha arricchiti. Ma essendo stati anche gli inventori geniali del romanticismo hanno, inevitabilmente, da bravi romantici, anche la tendenza ad esercitare soluzioni estreme: vivono alla perenne ricerca di un equilibrio tra il Sogno e la Morte.
I tedeschi sono, per definizione, deliranti.
A differenza di noi italiani che siamo mitòmani.
Loro vivono fino in fondo la loro visione (o allucinazione) e davanti allo spettro della rovina, dell’aberrazione e della morte, non si fermano, perché sono allo stesso tempo zucconi e coraggiosi. Ma proprio perché sono intimamente tragici, sono profondi, e quando finiscono nei guai (vedi giugno 1945) imbevuti della loro cultura antropologica, sono in grado di elaborare fino in fondo il lutto, come si addice a tutte le etnie tragiche. E da lì riemergono, resuscitano, ad un più altro grado di evoluzione, perché praticano la sepoltura, la celebrano e traggono le lezioni dalla Storia.
Il pericolo, in questo momento, consiste nel fatto che l’oligarchia finanziaria planetaria –che ben conosce questo meccanismo a menadito- stia tentando di ipnotizzarli né più né meno di quanto non abbia fatto Hitler nel 1933 seguendo lo stesso schema: far fare a loro il lavoro sporco a nome di tutti.
Hitler, infatti, non era certo da solo, altrimenti sarebbe durato cinque mesi.
Dipende quindi dall’esercizio costante di un’attenta e vigile funzione critica propositiva di tutti gli europei “aiutare” i tedeschi spingendoli verso la loro impagabile capacità di Sogno e allontanandoli dall’ubriacante prospettiva magnetica della Morte.
Tradotto in termini attuali, si intende oggi per Morte la fine dell’euro, l’abrogazione della democrazia rappresentativa, l’allontanamento dalla prospettiva spinelliana della fondazione degli Stati Uniti d’Europa, il crollo verticale dell’economia.
I tedeschi non sono nemici. Stanno sbagliando, il che è molto diverso.
Mentre invece Berlusconi era un nemico del popolo e un nemico delle istituzioni.
Così come il ragionier robotico non è un nemico del popolo, ma è uno che non si rende conto di ciò che fa perché è troppo innamorato della propria immagine e ha fatto la scelta sbagliata, optando per l’attrazione del Buio invece che farsi sedurre dalla Luce.
E’ così diventato il più nefasto complice di un’oligarchia pericolosa.
Quindi, noi dobbiamo impegnarci a far ragionare i tedeschi. Impresa non facile per dei mitòmani che sono –per definizione- terrorizzati alla sola idea che la Tragedia esista. I mitòmani amano la Farsa perché essendo dei sociopatici non capiscono la differenza tra realtà e fantasia, ne fanno un’unica pappa che poi, nello scontro con i dati del Reale diventa prima melassa, poi delle sabbie mobili che ingoiano poco a poco, e infine un pantano verminoso che non produce più né piante né risorse né imprese. Quando finiscono dentro una tragedia la vivono in maniera farsesca. Sennò non sarebbero mitòmani.
Tutto ciò per dichiarare che mi sottraggo vigorosamente alla nuova moda anti-teutonica non a caso voluta, lanciata e praticata dalla Lega Nord, da La Destra, e diffusa in maniera populista e demagogica da organizzazioni tipo Forza Nuova che, in più di una regione italiana, si stanno cementando per osmosi con organizzazioni dell’estrema sinistra, diciamo così per bisogno tattico-strategico, applicando la infantile e falsa argomentazione per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Falso.
Il nemico del mio nemico non è detto che debba necessariamente essere mio amico, anzi: può portarmi fuoristrada. Questa, infatti, è una interpretazione cinica che appartiene a un’idea dell’esistenza reazionaria e oligarchica che parte dal presupposto di avere finalità e obiettivi per interesse e non per idealità. Basta un esempio per chiarire: se la Coca Cola inquina l’ambiente e io mi oppongo e vengo sostenuto da un suo nemico, la Pepsi Cola, domani può essere che io finisca per avere un ambiente gestito dalla Pepsi Cola che sarà magari molto più inquinato ma non potrò dire nulla perché la Pepsi Cola l’ho eletta io dato che era mia alleata. E così via dicendo.
Per avere anche una sola possibilità di rifiorire come popolo, come nazione, e dare il nostro contributo a rifare l’Europa noi dobbiamo cominciare a essere molto meno mitòmani e molto più tragici.
Sono i tedeschi migliori ad avere bisogno di noi, oggi.
Perché, proprio in quanto forti e ricchi (quindi non spinti all’angolo dal bisogno) sono in grado di gestire e guidare la necessaria rivolta contro il tentativo di definitiva involuzione reazionaria perpetrata dall’oligarchia planetaria rappresentata dalla Merkel.
C’è chi viaggia per altri orizzonti, invece. Come La Destra, ad esempio.
Non a caso il 4 febbraio, da tutta Italia, si sono dati appuntamento a Roma, ben sorretti da Feltri, da Belpietro e da Guliano Ferrara, per una grande manifestazione al grido di “Abbasso la Merkel…contro le banche tedesche…non siamo servi dei tedeschi” ai quali, ahimè parteciperanno anche in “appoggio strategico” addirittura delle formazioni movimentiste della sinistra allo sbando puro.
Ed anche per rispondere a diversi quesiti che ho ricevuto per lettera tra ieri e oggi da alcuni miei lettori, ben sintetizzati da un commento a un mio post sulla Giornata della Memoria… “In seconda battuta vorrei sapere da Modigliani un pò più nello specifico (se ne ha voglia) che cosa è riuscita a fare la Germania rispetto a quello che invece non ha fatto l'Italia, per creare una società migliore e per cercare di ripartire dagli orrori del Nazifascismo. Grazie. Jack”.
Ecco la mia risposta a chi si firma Jack.
Sono nato e cresciuto in una famiglia italiana di ebrei socialisti antifascisti, e quindi educato da sempre a vedere i tedeschi come il diavolo da odiare. Qualunque cosa accadesse o di qualunque episodio si parlasse nell’arco di storia dal 1930 al 1945 era sempre colpa loro. E anche l’Italia intera era riuscita a stemperare la lettura del fascismo finendo per attribuire l’intera responsabilità dello sfacelo europeo alla Germania, ritenuta prima e unica responsabile; una situazione simile a quella di oggi.
Ricordo che cosa accadde quando –ero allora molto giovane- nei primissimi anni ’70 venne pubblicato un eccezionale libro. Era il frutto di un meticoloso e ottimamente documentato lavoro durato dieci anni, condotto e firmato da uno storico professionista italiano, davvero eccellente, il prof. Renzo De Felice. Il Libro “Storia del fascismo” veniva pubblicato da Einaudi in diversi volumi che cominciarono a uscire uno ogni due mesi. Un lavoro prestigioso, davvero sublime. Fu il terzo volume a scatenare il putiferio. Si chiamava “Gli anni del consenso”. Per la prima volta, un gruppo di studiosi italiani si assumeva la responsabilità di spiegare agli italiani come e perché i nostri predecessori si fossero innamorati del fascismo, come corressero volontariamente sotto il balcone di Piazza Venezia e quanto autentico fosse l’amore che il popolo manifestava nei confronti del Duce. Il prof. De Felice spiegava come quell’epoca storica rappresentasse “la presa del potere della piccola borghesia ottusa” attribuendo al fascismo la “responsabilità storica di aver gettato le basi per impedire lo sviluppo armonico di un capitalismo propulsivo che avrebbe potuto e dovuto spingere l’Italia verso la modernità”.
Apriti cielo!
L’intera sinistra intellettuale (comunisti in testa) insorse accusando De Felice (in pratica) di essere un mascalzone perché negava il ruolo degli italiani come vittime del fascismo. Lui difese a spada tratta il senso del suo immenso lavoro sostenendo che “il punto è proprio questo: non siamo stati vittime, bensì complici consapevoli”. Non ci fu nulla da fare.
La sua tesi non passò.
Certo, il suo lavoro era talmente inattaccabile dal punto di vista professionale, perché competente e dotato di una bibliografia immensa, con tonnellate di documenti portati a supporto della sua tesi, che nessuno osò contestarlo sulla verità dei dati. Ma si comportarono all’italiana (cioè da mitòmani): accettarono i volumi in cui si raccontavano gli aspetti nefastii, censurando l’altra parte, e finendo per isolare De Felice, attaccato perché introduceva il concetto che il capitalismo potesse essere anche generatore di ricchezza.
Fu l’occasione persa dalla cultura italiana. Dopotutto erano già passati 50 anni. Ma non ci fu nulla da fare. Anche perché gran parte di coloro che avevano sostenuto il fascismo si trovavano in parlamento seduti sugli scranni del Partito Comunista Italiano. La giustificazione che molti di essi diedero allora –e che la maggior parte dei nostri padri e nonni ha tramandato a noi dicendo il falso- era che “allora o ti iscrivevi al partito o non lavoravi”. Non era così, allora. E’ così oggi, come conseguenza del seme della mala pianta gettato nel 1922. Il fascismo non praticava il proselitismo. Erano gli italiani che entusiasti volevano iscriversi al partito pensando, in tal modo, di aggirare la fatica di studiare e applicarsi per conquistarsi il premio grazie al merito del loro operare. Indossando la camicia nera si ottenevano facilitazioni: fu la fondazione del paese dei furbi.
Elemento, questo, cooptato dal doppiogiochismo togliattiano che ha spinto valanghe di intellettuali e artisti a iscriversi al PCI e lavorare per l’Arci mettendosi al servizio del proletariato (in teoria) mentre, invece, in pratica si trattava del modo furbo di far carriera. Il Pci e l’Arci lo sapevano. Ma così si garantivano il voto. E così hanno partecipato alla costruzione di una nazione di furbi, educando la popolazione della sinistra all’idea che il “Partito” era sostitutivo della “Norma Legale”: l’inizio dell’abbattimento dello stato di diritto. Ancora oggi, sostenere quest’interpretazione, equivale a essere messo alla gogna.
Nel 1951, sei anni dopo la guerra, in una celebre quanto drammatica giornata, Konrad Adenauer si presentò al Bundestag in seduta congiunta e lesse un elenco di 1.756 nomi di importanti personaggi tedeschi di allora, molti dei quali, in quel momento, erano seduti davanti a lui come parlamentari, sia a destra che a sinistra. A quell’elenco appartenevano persone che avevano “volontariamente” prestato servizio appoggiando il nazismo. Adenauer chiese, “a nome delle generazioni che verranno, di aiutare la Repubblica Federale di Germania ammettendo le loro responsabilità, aiutando la Legge a gettare le basi di uno stato di diritto democratico, a dimettersi da ogni loro incarico e a mettersi a disposizione del Ministero della Giustizia che valuterà ogni singolo caso applicando quelle che sono le norme previste dal nostro ordinamento giudiziario”. Lo fecero tutti, tranne 46 persone. 20 di queste, nei successivi sei mesi commisero suicidio perché non sopportarono il peso del disprezzo collettivo sociale che gli dimostrarono. Gli altri 26, poco a poco, vennero sempre di più isolati. Tutti gli altri subirono regolari processi. Il 72% venne condannato, molti di loro anche a dure pene detentive. Nessuno ebbe lo sconto.
La notizia venne diffusa in tutto l’occidente, ad esclusione dell’Italia. Si temeva l’emulazione.
Sul nazismo, in Germania, calò una cortina di silenzio, che non aveva niente a che spartire con il negazionismo. Affatto. Preferivano non parlarne e non dibatterne pubblicamente perché non riuscivano a sostenere il peso della vergogna collettiva. Ma lo facevano regolarmente nelle case, negli uffici, nelle scuole. Cominciarono a uscire libri (sia romanzi che saggi, a tonnellate) in cui gli autori confessavano la propria adesione al nazismo e spiegavano le ragioni, senza vittimismo e senza pretendere pietismo. L’attore Maximilan Schell portò a teatro una piece che tenne cartellone per due anni e che raccontava la storia della presa di coscienza di un ex nazista.
Nel 1960 Rolf Hockhut con il libro, divenuto poi testo teatrale, “Il vicario” raccontò la storia della complicità del regime nazista hitleriano con il vaticano e con l’Italia. Nel nostro paese venne contestato (ovviamente) e censurato. Nessuno lo mise in scena. Sbancò in tutti i teatri d’Europa.
La figlia di Thomas Mann per cinque anni di seguito condusse una trasmissione radiofonica nell’ora di punta, tra le 18 e le 20 che si chiamava “noi nazisti inconsapevoli” e ruotava tutta intorno alla necessità dell’assunzione della responsabilità in proprio.
Perché la domanda, martellante e costante era sempre una e una sola “Com’è possibile che un’etnia così intelligente e colta come la nostra non si sia accorta che si stava mettendo nelle mani di una banda di criminali?”. Semplice ed elementare.
Alla fine degli anni’60, in Germania accadde una curiosa ondata di reazioni collettive che tutt’ora è studiata nelle facoltà di sociologia. Nella stragrande maggioranza dei casi nei quali qualche giovane adolescente veniva a scoprire che il proprio padre aveva aderito al nazismo, il giovane rompeva con la sua famiglia, se ne andava e rendeva pubblica la propria posizione dichiarando di vergognarsi di provenire da una simile famiglia. Il ’68 tedesco nacque come reazione al nazismo dei propri padri. Fu un fenomeno totalmente originale e diverso, unico nel suo genere. Era normale incontrare nel 1970 un giovane ventenne tedesco che, piangendo sincere lacrime, parlava della vergogna provata nell’aver scoperto che la ricchezza dei propri genitori proveniva dall’acquisizione impropria di beni altrui facilitato dal nazismo perché la vittima era un ebreo o un omosessuale o un disabile o un perseguitato politico (l’handicap fisico per i nazisti era considerato elemento sufficiente per poter essere considerato di “razza inferiore perché geneticamente impura”).
Due episodi mi viene da raccontare. Uno vissuto personalmente.
L’altro, invece, appartiene all’esperienza di un’altra persona: Jack Grossburger, il padre di un mio amico statunitense che ho incontrato qualche anno fa. A cena, a casa sua, per caso cominciammo a parlare dei tedeschi. Lui era stato in Germania come soldato dell’esercito americano, ed era un fiero democratico.
E lui mi raccontò ciò che gli era accaduto.
Nel 1955, dieci anni dopo la fine della guerra. Allora lui lavorava come responsabile marketing dell’American Express per l’Europa e quindi doveva viaggiare molto nel nostro continente. Lo mandarono per la prima volta in Germania. Arrivò a Francoforte, allora importante centro industriale e di affari. Trascorse l’intera giornata dedicandosi a colloqui d’affari. La sera andò in albergo si fece una doccia e poi, verso le 8.30 scese giù e andò dal concierge. Gli chiese doveva poteva andare a divertirsi. Cercava un bar, un locale notturno dove incontrare delle donne, un posto dove andare a ballare.
Il concierge gli disse che non c’era nessun posto aperto.
Lui insistè.
Il concierge chiamò il direttore dell’albergo, il quale, con educazione gli spiegò che non c’era nessun posto aperto in tutta Francoforte, perché i cinema chiudevano alle ore 20, i ristoranti anche e non c’era nessun posto aperto la notte.
L’americano rimase esterrefatto. Non ci poteva credere. Si trovava in una delle città industriali più importanti, era venerdì sera e alle 20 era tutto chiuso.
“Ma come mai?” gli chiese.
“Così è da noi” rispose il direttore dell’albergo “da noi la gente lavora e basta”.
Ma l’americano insisteva per sapere le ragioni; con il direttore aveva chiacchierato al mattino raccontandogli la sua esperienza di soldato in Germania e volle sapere a tutti i costi come fosse possibile una cosa del genere.
Il direttore alla fine cedette. Lo guardò negli occhi e gli disse:
“Mi meraviglio di lei, che è stato anche soldato. Ed è americano. Ma lei si rende conto di quello che noi tedeschi abbiamo fatto all’Europa? Pensa che un popolo in grado di fare una cosa del genere abbia voglia, la sera, di andare a divertirsi?”
“Ma sono passati dieci anni” rispose Jack “quanto pensa che dovrebbe durare?”.
“Non ne ho idea. Durerà quello che deve durare. Quando ce lo potremmo permettere allora rialzeremo la testa. Per il momento è meglio lavorare e pensare al futuro”.
L’americano mi confessò che rimase sconvolto. E non ha mai dimenticato quella sua esperienza.
L’altro episodio è avvenuto molto tempo dopo. E’ accaduto a me, nei primissimi anni’70.
Ero in vacanze con amici, in giro per l’Europa, nel mese di luglio. Senza dirlo ai miei genitori, avevo deciso di andare all’isola di Rugen a vedere il concerto dei Rolling Stones, dato che ero un rockettaro incallito. Insieme a noi c’era un’amica tedesca. Ci eravamo incontrati tutti a Nizza, in sei, e da lì su una Diane Citroen (una macchina piccolissima e anche scomoda) attraversavamo l’Europa fino al Mar Baltico. Arrivammo ad Amburgo e andammo tutti ospiti a casa dei suoi genitori, una famiglia protestante. Il padre era molto simpatico, un medico chirurgo, che votava per la democrazia cristiana tedesca, la CDU. La sera a cena, noi ragazzi cominciammo a discutere per una questione di soldi. Dividevamo le spese ma c’era stata una differenza di opinioni relativa a 10 marchi che Pierre, l’amico francese, avrebbe dovuto dare alla ragazza. Lui sosteneva che doveva dare soltanto 5 marchi. Io lo difesi perché pensavo che avesse ragione. Andò avanti per un po’. Ad un certo punto, lei mi guardò (parlavamo tutti tedesco) e mi disse: “Certo però per 5 marchi, si vede che sei ebreo. Voi ebrei siete tutti uguali, siete una razza tirchia”.
Io non dissi niente, e neppure ci feci caso, abituato com’ero all’Italia dove –ancora oggi-dire a qualcuno “nun fa er rabbino” è considerata norma collettiva consuetudinaria.
I genitori si scambiarono un’occhiata. La madre fece un cenno.
Il padre si alzò, si avvicinò, accarezzò la figlia sulla testa e le chiese di alzarsi.
Lei si alzò.
Il padre le mollò due robusti schiaffoni facendola avvampare. La prese per un braccio e la portò nella sua stanza dove la costrinse a rimanere senza uscire. Ritornò al tavolo, si sedette e ci disse “Per questa sera Ulrike non è disponibile. Domattina, dopo colazione, vi chiederà scusa e potrete proseguire il vostro viaggio”. Dopodichè si rimise a mangiare parlando con la moglie di Fassbinder, un regista allora di moda. Come se niente fosse.
In Germania non esiste attualmente nessun gruppo attivo politico di derivazione neo-nazista, se non qualche pacifico punk naziskin solitario che non dà fastidio né noia a nessuno.
Sulla base dei dati forniti dal ministero degli interni della nostra repubblica, invece, risulterebbe che in Italia negli ultimi dieci mesi c’è stata una proliferazione di gruppi nazi-fascisti. Ufficiali, oggi, ne contano circa 250, tutti radicati nel territorio.
Nel 1970, il leader socialista tedesco Willy Brandt invitò Golda Meir (in pensione, fino a pochi mesi prima era primo ministro dello stato d’Israele) a partecipare a Bonn, allora capitale tedesca dell’ovest, a un meeting dell’internazionale socialista. Golda Meir ci andò. Invece che una settimana, rimase in Germania tre mesi. Quando ritornò a Tel Aviv scrisse una commovente lettera nella quale spiegava che “ho ascoltato i vostri discorsi, ho guardato la vostra televisione, ho letto i vostri giornali, ho parlato con i vostri connazionali, e ho trovato una nazione restituita ad una democrazia davvero avanzata. Ho potuto toccare con mano un senso di autentico pentimento collettivo rispetto alla stagione del nazismo che mi fa ben sperare per l’umanità e per il futuro di tutti sul pianeta. Penso che al mio governo farebbe davvero cosa gradita ricevere la prima visita ufficiale di un vostro rappresentante”.
Fino a quel momento nessun tedesco era mai stato invitato in Israele.
Erano passati 25 anni.
I tedeschi vennero accolti e trattati con rispetto.
In Italia, di anni, oggi, ne sono trascorsi 80.
Ancora dobbiamo ascoltare alla tivvù una deputata del parlamento come Alessandra Mussolini che spiega il motivo per cui suo nonno debba essere considerato un grande statista. E le statistiche ci informano che attualmente il 65% dei siti online sono tutti di chiara marca neo-fascista. Il fascismo -da cui l'immagine in bacheca- non è stato soltanto un fenomeno politico. E' stato anche e soprattutto una scelta di vita e una specifica interpretazione dell'esistenza, di cui Nicola Cosentino ne è l'epìtome.
Paese che vai, usanze che trovi.
Paese che vai, spread che trovi.
Hai capito, Jack, il mio punto di vista?