di Sergio Di Cori Modigliani
Sugli intellettuali italiani e il potere.
Su che cosa sono gli intellettuali, che cosa fanno, ma
soprattutto a che cosa servono nella società attuale.
Dedicato ai cultori e aficionados della narrativa di
fantascienza.
A metà degli anni’60, la vita intellettuale
statunitense venne animata dalla pubblicazione di un romanzo scritto da un
curioso e originale intellettuale: Dallas Mc Cord Reynolds.
L’aspetto particolare di quel dibattito, che presto
coinvolse l’intera società, era relativo sia alla personalità dell’autore che
al suo libro. Reynolds, infatti, da molti anni se ne era andato dagli Usa per
protesta contro la politica maccartista, contro la persecuzione degli
intellettuali, contro le liste di proscrizione per i liberi pensatori, e
insieme alla moglie era andato ad abitare vicino a Potosì, nel deserto
messicano. A metà degli anni’ 30 era venuto alla ribalta per la sua attività
politica, in quanto segretario del Partito Socialista Americano, e aveva
lanciato un nuovo trend tra gli scrittori di allora, che consisteva nella
“divulgazione del pensiero economico raccontato al popolo nella autenticità
della sua narrativa esistenziale” facendosi personalmente carico di divulgare
le teorie keynesiane per spiegare alla gente in che cosa consistesse il
programma del new deal rooseveltiano. Scriveva in giornali e settimanali di
economia e gli storici della letteratura americana lo considerano uno dei
promotori e artefici della genesi della stagione del grande romanzo sociale statunitense,
quello di Steinbeck, Dos Passos, Caldwell, Faulkner, Styron, Katherine Anne
Porter. Poi, ai primi degli anni’50, alcuni amici lo convinsero –dato il
cambiamento politico- a lasciar perdere la sua nobile attività e dedicarsi a
scrivere racconti di fantascienza per guadagnarsi da vivere. E così, Dallas si
era inventato un nome d’arte, Mack Reynolds –e altri quattro pseudonimi- con la
cui firma aveva cominciato a pubblicare decine e decine di racconti epici
(tutti a sfondo sociale) pubblicati sulle riviste specializzate, considerate
dagli intellettuali colti, una dimensione letteraria di serie C. I libri di
Reynolds erano finiti sotto la lente d’ingrandimento di alcuni intellettuali
europei grazie a Simone de Beauvoir, la quale, dalla metà degli anni’50, faceva
su e giù tra Parigi e Chicago perché aveva intrecciato una lunga e complessa
relazione sentimentale con il commediografo americano Nelson Algren. Per
cercare di rabbonire Jean Paul Sartre che se ne stava a Parigi travolto dai morsi
della gelosia e dalla competitività, e fargli capire che pensava sempre a lui,
la de Beauvoir gli aveva inviato un pacchetto con cinque romanzi di Reynolds e
un biglietto di accompagnamento “dovresti leggere questi libri, potrebbero
davvero essere molto interessanti per te. So che consideri la fantascienza
robbaccia immonda per la massa: ti sbagli. Qui in Usa è il territorio dove vige
una totale libertà d’espressione e lì gli intellettuali scomodi sono liberi di
esprimersi. Pagano un alto prezzo: rinunciano agli allori e alla propria vanità
perché non vengono ospitati nei circoli che contano, in compenso dicono la
loro. Commetti un gravissimo errore di superbia gallica se non li leggi. Ti
penso sempre e comunque”. E così Reynolds era finito tra i discorsi di Edgard
Morin, Sartre, Malraux, Foucault, perfino Jacques Lacan.
Potere della curiosità delle femmine generose.
Nel 1967 esce “The Rival Rigalians”. Grazie
all’intercessione di Italo Calvino, il libro arriva in Italia, ma non riesce a
passare nella serie A. Viene comunque pubblicato subito nella fortunatissima
collana Mondadori degli Urania sotto il titolo “Genoa-Texcoco 0-0”. Il romanzo
ha un tale successo da obbligare l’editore a stamparne un’edizione
supplementare straordinaria, posizionandosi tra i primi 5 libri di fantascienza
venduti in Italia. E in Usa, il libro di Mack Reynolds, sconosciuto autore di
serie C, diventa un oggetto di culto intellettuale. Ma lui si rifiuta di
ritornare in Usa “fintantoché il mio paese seguiterà a bombardare degli innocenti
e pacifici contadini in Vietnam io non torno. Chiedetevi perché lo fanno”. E
sceglie, invece, di andarsene con la moglie in giro per il mondo a fare
conferenze sul libero pensiero.
Ecco qui, in sintesi, la trama di quell’eccezionale
libro.
Siamo in un futuro molto lontano dell’umanità, intorno
al 2300.
Il pianeta non ha più continenti. Gli abitanti sono
circa 10 miliardi. C’è un governo centrale planetario. Il Dio che unifica le
persone è la tecnocrazia. Le persone sono praticamente degli inconsapevoli
robot che vivono in maniera piatta; c’è cibo e risorse materiali sufficienti
per chicchessia. Da trent’anni, però, il pianeta Terra è in guerra contro gli
abitanti di un pianeta in una galassia vicina, Texcoco. Il costo di questa
micidiale guerra è esorbitante e il livello di vita si è qualitativamente
abbassato di molto. Il punto è che la guerra non va né avanti né indietro,
perché il livello tecnologico raggiunto dai terrestri è identico, al
millimetro, a quello raggiunto dai texcochiani. Quindi, ogni arma sofisticata
d’attacco trova una identica sofisticata arma di difesa. Il romanzo inizia con
la consueta storia dell’eroe romantico, il cosiddetto “esploratore di talenti”.
Costui è un funzionario del governo centrale, un privilegiato che gira per il pianeta
a caccia di nuove idee tecnologicamente innovative. E’ uno che ancora pensa.
Per un caso del destino, si imbatte in una certa zona adibita a scavo minerario
e lì trovano dei cunicoli che portano a dei sotterranei dove abita una curiosa
e antica colonia di terrestri. Dentro una specie di primitiva grotta, il nostro
eroe incontra un pastore che gli spiega come loro vivano lì da centinaia di
anni. Non hanno nessuna tecnologia, ma l’esploratore rimane turbato da un fatto
clamoroso: costui ha memoria matematica. Fa i conti a memoria quando conta i
sassi e le pecore. Lo preleva e lo porta alla centrale planetaria. Gli
scienziati del potere sono sconvolti. Lo interrogano strabiliati dal fatto che,
alla domanda, quanto fa 2 +2 lui risponde 4 senza connettersi al sistema
integrato centrale, e sa anche quanto fa 55 x 12 e 14 al quadrato e così via
dicendo. I governanti capiscono che si tratta di un’arma avanzatissima che i
texcochiani, di sicuro, non hanno, poiché sia i terrestri che i texcochiani
hanno abolito la memoria circa cento anni prima. Avere una memoria matematica di tipo
fisiologico dà un vantaggio grazie al quale si può vincere la guerra. Ma lì
subentrano i politici. Perché se si vince la guerra, finiscono anche gli
investimenti nell’industria bellica. La pace non fa guadagnare tanti soldi.
Quindi, il pastore da genio diventa un nemico pericoloso per il sistema
planetario. Va protetto perché i texcochiani non lo vengano a sapere, ma va
anche silenziato. Il nostro eroe che si rende conto dell’intero sistema di
pensiero della baracca planetaria (altrimenti non sarebbe l’eroe) rapisce il
pastore e scappa via con lui inseguito dalla polizia planetaria, alla ricerca
dei suoi compagni, per cominciare a diffondere sulla Terra la pratica della
memoria matematica. Fine della storia.
L’autore, dopo il successo del suo libro, non ritornò
mai in Usa. Però accettò di lavorare per Hollywood, attraverso i suoi agenti
letterari. E così, nel 1968, accettarono la sua idea di telefilm. Si chiamava
Star Trek. Lui è il padre di quella saga.
Dallas Mc Cord Reynolds era l’intellettuale classico
occidentale.
E’ per questo che oggi, con entusiastico affetto, lo
ricordo con passione. E’ morto nel 1983
Ma che cosa sono gli intellettuali? Qual è la loro
particolarità?
E’ semplice ed elementare.
“Gli intellettuali dicono sempre, assolutamente
sempre, la verità. Perché gli intellettuali non mentono mai”.
Intendiamoci: “dicono sempre la Loro verità” proprio
perché –da bravi intellettuali- sanno che “La Verità” –quella cioè assoluta-
esiste soltanto nella mente di Dio (per ogni credente) oppure nell’accettazione
del principio tale per cui, “ogni Verità è il risultato della somma di tutte le
verità singole” (per ogni laico).
L’intellettuale dice sempre la Sua verità, è per
questo che è importante. E non abbassa mai la guardia. Non deroga. Non si
compromette. La sua verità è fuori discussione. Può non piacere, può essere
considerata brutta, odiosa, antipatica, ma non può mai essere considerata “non
vera” cioè Falsa. E’ la sua personale verità nata dalla sua idea del mondo
formata dalle sue letture, dai suoi studi, dalle sue peregrinazioni, dalle sue
esperienze sia di lavoro che di vita. Per un intellettuale, il valore primo
nell’esistenza, è la difesa della sua verità. Non può mai abdicare, altrimenti
non sarebbe più un intellettuale. Se la sua verità è considerata piacevole ed è
riconosciuta come buona per la cittadinanza, lei/lui è contento, può perfino
soddisfare la sua vanità. Se invece non è né accolta né riconosciuta, può soffrire,
può essere frustrato, forse rattristato dal suo isolamento. Ma non cambia
nulla. Perché ciò che conta per loro, è l’espressione della loro verità
specifica. Gli intellettuali –qualunque sia il loro specifico campo di
competenza, artistico o scientifico- si occupano sempre anche di economia e
soprattutto di politica.
Un intellettuale, ad esempio, può sostenere una
personalità politica perché ritiene che quel soggetto politico veicoli nel suo
progetto la propria idea del mondo che appartiene alla propria verità. Può
fargli propaganda, ne può divulgare il pensiero e la sostanza. Ma non può mai
dipendere da lui. Caso mai, è il politico che può dipendere da lui. Perché,
avendo l’intellettuale come primo valore in assoluto la salvaguardia e la
difesa della propria verità, ne può mantenere e custodire l’efficacia solo e
soltanto esclusivamente se è sempre autonomo e indipendente. Il lunedì può
appoggiare un candidato qualunque alle elezioni, ma il mercoledì può non
appoggiarlo più se il candidato politico (per motivi suoi) svela una idea del
mondo e della società che non corrisponde alla verità specifica
dell’intellettuale che lo sosteneva. Questo è il motivo per cui un
intellettuale può spendersi in maniera esorbitante nell’appoggiare questa o
quella idea, questo o quel partito, questo o quel candidato, a condizione che
–in caso di vittoria e affermazione- non usufruisca di alcun vantaggio per tale
vittoria, in nessun campo. Perchè, per l’intellettuale, ciò che importa è
vedere la “sua verità” affermarsi. Se ne trae un vantaggio, anche minimo,
allora vuol dire che l’affermazione della sua idea non è più un valore assoluto
e quindi lui deve scegliere: o accetta l’idea di non essere più un
intellettuale, oppure deve rinunciare ai benefici. Non sono compatibili.
La nostra civiltà occidentale è nata così.
La figura “dell’intellettuale” nasce con Socrate.
Viene condannato a morte. Una esperienza davvero
angosciante, estrema.
Lui spiega con molta chiarezza che quella sentenza e
la sua esecuzione appartengono però alla sua verità, corrispondono. Quindi, lui
deve accettarla. Potrebbe fuggire e salvarsi. Ma in tal modo sarebbe costretto
a rinunciare alla sua verità, quindi il suo Io si affloscerebbe, la sua vita
perderebbe Senso.
Questa è la ragione per cui gli intellettuali nei
millenni, e tuttora, affrontano anche il plotone d’esecuzione –se va male- pur
di salvaguardare la propria verità.
La figura dell’intellettuale, quindi, diventa
interessante e comprensibile –oltre che utile per la società- soltanto se si
accoglie il principio formativo di base, ovvero l’accettazione del principio
per cui si sta ascoltando, leggendo, comprendendo, la specifica verità di
quella singola persona, non la Verità oggettiva. Si può poi scegliere se
aderire o confutare; approvare o contestare. Ma non si potrà mai dire che non è
vero, si può soltanto dire che non è piacevole. Quando l’intellettuale, invece,
abdica alla propria funzione di autonomia e indipendenza rispetto al potere,
perde la propria identità e non può più essere definito tale. Si trasforma in
un qualcosa d’altro. Diventa un funzionario di quella determinata e specifica
fazione politica e diventa un essere che usa come strumento e competenza la
facoltà dell’abilità intellettuale. Ma non può più essere definito un
intellettuale. Non combatte per la sua verità. Combatte per la verità di
qualcun altro. Quindi diventa e si trasforma in un impiegato di idee altrui.
Scade di livello. Rinuncia a se stesso, e qualunque cosa dica, scriva o mostri,
non avrà alcun valore, perché tutti sapranno che il valore di riferimento non è
la sua verità, bensì il guadagno e l’utilizzo che ne ricava.
Alcuni esempi:
Franco Battiato è un intellettuale italiano. Il suo
specifico talento consiste nel cantare. Ma potrebbe anche fare il pittore o il
musicista o il fisico nucleare, sarebbe uguale. Lui, però, noi sappiamo, ci ha
sempre tenuto alla sua identità. In quanto intellettuale è stato nominato
assessore alla cultura della regione Sicilia, perché i politici hanno stabilito
(e sembra che i siciliani siano d’accordo) che “la sua verità” (ovvero la
battiatitudine del mondo) possa essere utile, funzionale ed efficace. Lui,
quindi, si mette al servizio della collettività, da intellettuale. E tale
resta. Nel farlo, infatti, non riceve alcun vantaggio. Nessuno tra i suoi fans,
ma proprio nessuno, acquisterà mai un suo disco perché lui è assessore.
Giustamente ha dichiarato che non vuole stipendio e ha precisato che può sempre
dimettersi in un qualunque momento. Perché è per l’appunto un intellettuale.
Lui domani può svegliarsi e stabilire che nel suo mondo socio-mentale è
fondamentale allestire uno spettacolo di burlesque tra le colonne del tempio di
Selinunte con Nicole Minetti vestita da pompiere. Se nel presentare la sua
bislacca iniziativa, gli dicessero che non è il caso, lui si dimetterebbe
subito e se ne andrebbe via disgustato. Non ho alcun dubbio. Non potrebbe
vivere rinunciando alla sua verità. E’ stato scelto proprio in virtù della sua
idea del mondo, della sua verità. Se piace, tanti applausi. Se non piace, lui
se ne va a casa, lo sceglie lui.
Gabriel Garcia Marquez venne contestato, di recente,
per il suo incondizionato appoggio a Fidel Castro. Sfidato da un altro premio
nobel sudamericano, il grande Mario Vargas Llosas, ci fu uno splendido
confronto pubblico a Buenos Aires su questo argomento. In tale occasione,
Vargas Llosas espresse la sua verità: salvare il diritto e la democrazia,
quindi contestare Castro perché mette in galera gli oppositori. Marquez con
grande onestà chiarì che la democrazia non appartiene alla sua verità. Lui
considera la democrazia una diabolica invenzione delle potenze coloniali
europee e quindi trovava Castro perfettamente in linea con la sua di verità.
Avevano entrambi ragione.
Due intellettuali onesti.
Due diverse proprie verità.
Ciascuno poi sceglie e decide a quale aderire.
Ciò che conta è la propria verità intrinseca,
qualunque essa sia.
Quando Pier Paolo Pasolini venne a tenere un seminario
al liceo classico che frequentavo a Roma, ci disse “siate intellettuali; dovete
essere degli intellettuali”. Noi eravamo adolescenti e non capimmo. Fingemmo lì
per lì di aver capito. Pensavamo che lui volesse da noi che studiassimo a
memoria la tragedia greca per prendere 8 all’interrogazione. Furono necessarie
altre riunioni per capire.
“Siate appassionati, siate veri” ci spiegò poi “andate
nel vostro lavoro civico di cittadini ad occuparvi di ciò che volete nel nome
di una appassionata idea interiore che voi sentite vostra, unica,
insostituibile. Se siete figli di zingari, ebbene: siate zingari. Perché quella
è la vostra verità. E il mondo ha bisogno anche della zingaritudine, così come
ha bisogno di tutto il resto. Non aderite al pensiero omologato, al pensiero
consumistico della televisione, al pensiero collettivo che è rassicurante, ma
non è mai intellettuale, perché non esprime nessuna verità e tantomeno somma di
verità: è soltanto la verità del profitto che si presenta sotto mentite
spoglie”.
Un intellettuale non si può candidare in un partito
alle elezioni. Mai. Per nessun motivo.
Può, se vuole, scegliere di formare il candidato X del
partito Y che lui vuole sostenere.
E’ una cosa diversa.
E’ la spaccatura che si è procurata in Europa nel 1949
tra la Francia e l’Italia, quando le due nazioni scelsero di andare per strade
diverse; quando i francesi difesero come leoni l’esistenza della classe
intellettuale e gli italiani, invece, decisero di rinunciarci.
Accadde in seguito alla conferenza stampa di due
intellettuali francesi: Andrè Malraux e Jean Paul Sartre, di ritorno in Francia
dal loro viaggio a Mosca.
Stalin, infatti, aveva saputo che entrambi si erano
lanciati in una furibonda campagna contro l’adesione della Francia nella Nato e
contro il colonialismo francese in Nord Africa. Li invitò quindi a Mosca. Ci andarono,
per venticinque giorni. Erano due colonne della sinistra combattente di allora.
Nella conferenza stampa organizzata dal partito comunista francese a Parigi,
nel teatro Olympia gremito di folla, Malraux parlò per venti secondi. Disse:
“Sono sempre stato comunista da quando avevo tredici anni. Essere stati in Urss
è stato fenomenale, meraviglioso. Posso dirvi, quindi, che non essere comunisti
a diciotto anni è da criminali; ma esserlo, dopo i quaranta, è da imbecilli
irresponsabili. Io ho 41 anni”. La gente lì per lì non capì e rimase attonita.
Prese la parola Sartre che attaccò subito: “Il comunismo è una colossale truffa:
è la morte del libero pensiero”.
Il giorno dopo i due vennero identificati come due
mascalzoni agenti della Cia.
In Italia si fece una scelta diversa e gli
intellettuali accettarono, poco a poco, invece, di aderire –formalmente e
ufficialmente- a delle consorterie politiche che imponevano scelte che non
consentivano l’esibizione della propria verità. Perché “il partito era la Verità”.
Come è tuttora.
Qualunque sia il partito.
Quando Leonardo Sciascia, grande intellettuale
siciliano, si iscrisse al partito comunista palermitano, la sua avventura durò
tre giorni. Venne espulso e sbattuto fuori per mancanza di disciplina. Per sua
fortuna Pannella lo accolse offrendogli copertura tra i radicali garantendogli
che la “sua verità” sarebbe stata rispettata. Come avvenne.
Accadde lo stesso con la più grande intellettuale che
l’Italia abbia avuto negli ultimi 50 anni, di cui non si parla mai, proprio mai
(e non è un caso) Maria Antonietta Macciocchi, finita poi in auto-esilio
volontario a Parigi.
In Italia gli intellettuali non esistono più, a
differenza degli altri paesi occidentali.
O meglio, esistono, ma non hanno accesso al mercato.
Sono marginali, clandestini, nascosti. Esistono, ma la loro presenza ed
esistenza è negata e relegata ai margini. Sono diventati i veri banditi del
nostro tempo; perché sono stati banditi dal sociale.
Sono considerati pericolosi. E’ vero. Lo sono.
Il 99% dei cosiddetti intellettuali italiani nnon sono
tali: sono funzionari che veicolano verità non loro. Sono impiegati funzionari
di alto livello, tutto qui.
E’ il trionfo del berlusconismo.
Basta vedere facebook o leggere i siti on line e la
produzione media standard sul web per accorgersene.
Le persone vivono ormai in un mondo dove è considerata
norma veicolare idee non proprie, verità non proprie, assunte da link, da altri,
da fonti esterne a se stessi. Gli italiani stanno perdendo la facoltà minima di
relazionalità, basata sul fatto di esporre la propria idea sul mondo
manifestando una propria opinione radicata, qualunque essa sia. Hanno sempre
bisogno di fare citazioni, di fornire (o chiedere, il che è uguale) fonti,
date, dati, aggrappandosi a eventi esterni a se stessi. Diventa sempre più raro
leggere qualche rigo scritto da qualcuno senza che venga menzionato qualcun
altro, qualche teoria, qualche punto di riferimento, qualche scuola, qualche
ente, qualcosa cui aggrapparsi pur di non essere se stessi. Si è sviluppato un
egocentrismo becero mescolato a narcisismo e culto settario di certi totem che
elimina la possibilità di sviluppo intellettuale, di confronto, di dibattito.
Vogliono tutti dare risposte e tutti le pretendono.
Gli intellettuali non offrono mai risposte. Non ne
hanno. Non è il loro compito.
Questo spetta alla Politica.
Gli intellettuali, ed è questo il loro compito,
pongono invece domande. Aiutano a porsele. Tutto qui.
A questo servono.
A porsi domande, e a spingere a farle agli altri.
I più grandi e potenti intellettuali del mondo, com’è
noto, sono i bambini, tra i 3 e i 5 anni. E’ l’età in cui vivono soltanto di
domande perché vogliono capire, vogliono sapere; hanno voglia di essere
intellettuali, di costruirsi la propria verità. E spesso fanno domande
portentose che inducono più di un adulto a riflettere a lungo, a interrogarsi.
Perché sono liberi. Sono ancora liberi. Ci penserà poi a 6 anni la scuola a
ghettizzare la loro libertà.
E’ un’altra storia, quella dei liberi. E’ fatta di
domande.
Quando aveva 22 anni e frequentava la facoltà di
medicina a Padova, Galileo Galilei finì nel suo primo grande guaio. Chiese a un
professore perché mai veniva dato per scontato che il pianeta Terra fosse un
ente immobile incastrato dentro una sfera celeste; chi l’aveva detto che non si
muoveva? Venne espulso per sei mesi, capì l’antifona. Galileo era senz’altro un
uomo dotato di poderoso talento e di genio unico. Ma è probabile che, allora,
ce ne fossero tanti altri come lui. Toccò a Galileo emergere. Perché lui “pose
delle domande” ad altri e a se stesso. Gli altri, invece, davano per scontato
ciò che c’era. Dasoli, in quanto ricercatori, si condannarono alla non
conoscenza.
L’intellettuale serve per rileggere la realtà con
occhi diversi.
E’ la molteplicità e la somma di tante potenti proprie
verità che arricchisce una Cultura e la rende solida, formativa.
In Italia,si sta diffondendo sempre di più una totale
adesione a verità che non sono verità ed è davvero raro leggere o ascoltare
qualcuno che sostiene la “propria intrinseca verità”. E’ la caratteristica di
una società chiusa e gretta, che non si pone più domande perché non è più
abituata a porsele. Cerca soltanto risposte, come nel gioco d’azzardo e in
tutte le compulsioni fobico-ossessive: si cerca la soddisfazione immediata e
garantita. Si evitano le domande, si preferisce rincantucciarsi in risposte già
note in precedenza, sono rassicuranti. Così facendo si rinuncia ad aumentare il
proprio potere personale, perché non aumenta l’allargamento dentro il proprio
Sé della “propria verità intrinseca”.
In questi giorni si vota all’Onu per accogliere la
Palestina tra gli stati membri. La Francia e la Spagna voteranno sì. La
Germania ha detto che voterà no. La Gran Bretagna (che aveva spinto da un anno
per l’evento) all’ultimo momento ha dichiarato che ha cambiato opinione: si
asterranno. In Italia, poiché non c’è stata possibilità alcuna di dibattere e
confrontarsi sull’argomento (a differenza del resto d’Europa) nessuno può
comprendere il perché l’Europa sia spaccata a metà su questa vicenda, tantomeno
comprendere l’impatto che avrà sull’interesse generale geo-politico, e quindi
economico ed esistenziale.
L’Italia che cosa vota? E perché vota sì, oppure vota
no, oppure si astiene?
Non si sa neppure, in Italia, che il Regno d’Arabia
Saudita non voleva che si portasse adesso la domanda all’Onu. In Arabia Saudita
sta nascendo una poderosa nuova borghesia emergente che sta producendo degli
inediti quanto clamorosi risultati, e laggiù sta nascendo una classe di intellettuali
mussulmani pensanti di grande spessore che vogliono radicalmente cambiare la
struttura del mondo mussulmano. Essendo l’Arabia Saudita il più grande e
importante paese arabo –in quanto è sede dei due luoghi santi dell’Islam- tutto
ciò diventa fondamentale per la comprensione del nuovo quadro geo-politico
planetario. Da noi, la gente di tutto ciò non sa nulla. Così come nessuno sa
nulla a proposito del fatto che da quattro giorni il ministro Riccardi, insieme
al plenipotenziario del Vaticano, è chiuso dentro una stanza a El Cairo insieme
ai quattro più importanti ayatollah mussulmani della zona del Mediterraneo a
discutere. Di che? Di che cosa parlano? Come mai non ci dicono niente
ufficialmente? Come mai il governo italiano, all’improvviso, è diventato una
pedina così importante nello scacchiere mediterraneo? Di tutto ciò se ne parla
a Praga, a Copenhagen, ad Amsterdam, ad Aberdeen, a Oporto, a Kiev, e in tutto
il continente americano. Ma non in Italia.
Tutti a caccia di risposte. Immediate, per giunta.
Tutti in cerca di un guru, di un comico, di una setta,
di un salvatore, di una teoria che fornisca immediatamente la risposta
paradisiaca, senza comprendere che le risposte sono irrilevanti.
Ciò che bisogna cambiare è la qualità della domanda.
Così si apre il proprio cervello.
Se non si cambiano le domande, le risposte saranno
sempre le stesse, anche se sembrano diverse.
Che poi, a dare le risposte, siano Romano Prodi o
Silvio Berlusconi o Pierluigi Bersani o Pierferdinando Casini o Matteo Renzi o Beppe
Grillo, che cosa cambia?
Dato che si chiede loro sempre la stessa cosa?
Come qualcuno comincia a capire e rendersene conto
-guarda caso quando le chiacchiere risultano zero e arrivano i veri conti e le
domande sono di tipo diverso- la risposta è talmente agghiacciante da far
comprendere a chiunque che fino a quel momento erano state sbagliate le
domande: e mi riferisco qui all’Ilva, e alla risposta del potere: o morite di
fame o morite di cancro.
Questa sarebbe una risposta?
Questa è una risposta accettabile per una società
democratica?
Questa è una risposta consentita nella più ricca
nazione d’Europa?
Questa è una risposta comprensibile nella nazione che
risulta la prima produttrice manifatturiera dell’Europa?
Questa, vi sembra, è la risposta di una nazione
evoluta?
Cominciate a cambiare il tipo, la forma e la qualità
delle domande.
Vedrete come Mario Monti comincia a sudare freddo.
Loro viaggiano su software sicuri per una società
sempre più robotizzata. Hanno risposte standard buone per le solite domande. Se
la domanda cambia vanno in tilt. Come tutti i robot.
Cambiate le domande se volete capire.
Le risposte, non hanno importanza.
Ciò che importa è la qualità degli interrogativi.
E’ un po’ come per i viaggi.
Non conta tanto la destinazione, quanto il viaggio di
per sé mentre uno lo vive.
A questo servono gli intellettuali: a far circolare le
idee senza imporne nessuna.
Purchè siano idee e non un pasto precotto dall’odore
nauseabondo.
In Italia, davvero pericolosissimo.
Altrimenti la gente non si berrebbe Bersani o
Berlusconi come una novità.