lunedì 22 settembre 2014

La comunicazione: questo sconosciuto. La gita festosa dei boliviani in quel di Lombardia.


"Comunicare è Natura. Tutti gli animali lo fanno. Saper accogliere ciò che viene comunicato è Cultura. E' ciò che ci distingue dalle bestie e pone il fondamento della civiltà umana".

                                                                      Wolfgang Goethe. 1802



di Sergio Di Cori Modigliani

Con tutto il rispetto per i simpatici boliviani ai quali auguro un grande successo per il futuro delle loro imprese, oggi mi viene da pensare a loro. 
Ecco il perché.

Fin dal mattino presto, la cupola mediatica si sta affannando nell'offrirci lo spettacolo del caro leader nostrano in visita guidata nella Silicon Valley, dove -così ci spiega la stampa di regime- il baldo fiorentino è andato a far valere la prorompente avanzata dell'industria italiana, quella che produce e propone alta tecnologia, innovazione scientifica, multimedialità  avanzata, efficienza, efficacia, alta produttività, la bandiera del Grande Paese che ha tutte le carte in regola per poter competere (e vincere) contro Google, Yahoo, e-bay, Microsoft, Apple e via dicendo: bene così.

Ed è apparsa nella mia mente una visualizzazione spontanea e si sono manifestati i boliviani, in gita festosa in quel di Lombardia.

Contemporaneamente al viaggio del caro leader, a Milano, è attualmente in corso la settimana della moda italiana, settore nel quale eravamo, 20 anni fa, incontrastati leader in tutti i segmenti di quella fascia di mercato, da quello più sontuoso dell'Alta Moda a quello del pret a porter. 
Siamo comunque sempre in pista, anche se un po' acciaccati, grazie al gigantesco credito accumulato nei decenni, per non dire addirittura nei secoli.
E' un settore che tira ancora. Grazie al lavoro degli italiani schierati sul campo.
Lì si produce, si fa impresa, si fattura, si acquista e si vende, come dire: si crea lavoro perché c'è sia l'offerta che la domanda e quindi si contribuisce ad alzare il livello dell'occupazione che conta, da distinguere dall'occupazione che non conta per niente se non in termini numerici. Voglio precisare: un'impresa che aumenta il proprio fatturato e lo reinveste, costruisce mercato, quindi ha bisogno di assumere per soddisfare le richieste della propria clientela, quell'impresa crea occupazione che conta nel mondo reale. Al contrario, un comune dove un ente fasullo come molti enti, assume nuovi impiegati, sta creando occupazione soltanto in termini numerici, non reali. E', in realtà, un ammortizzatore sociale ma, a differenza dei veri ammortizzatori sociali, quell'ente e quel comune producono clientela a favore di una classe dirigente politica corrotta che spesso ripaga il voto con inutili e dannosi investimenti. Sono due modelli di vita, di scelta, di fare impresa, completamente diversi e opposti, direi decisamente antitetici. Anche se i grafici e i numeri non fanno alcun distinguo.

Ma ritorniamo ai nostri boliviani in gita festosa in Lombardia.

Sono un gruppetto di simpatici stilisti che vogliono entrare nel mondo commerciale globale e sono arrivati a Milano per competere con Armani e gli altri. I nostri boliviani sono -rispetto a Giorgio Armani che uso qui come esempio emblematico a nome di tutti- indietro di almeno 60 anni e, per ciò che riguarda la cultura di tradizione, di almeno 400 anni. Sono simpatici, gentili, carini da morire, e quindi vengono accolti in maniera festosa ed educata. Poi, alle 6 del mattino del giorno dopo (l'ora in cui si chiudono gli affari) si incontrano quelli che nel mercato sono posizionati e sanno ciò che stanno facendo, e come farlo, e quando, e quanto e per quanto.

Mi sono venuti in mente gli stilisti boliviani perché in California così viene vissuta (a leggere alcuni titoli) la visita del nostro caro leader, come un sartino di Cochabamba che vuol parlare con Giorgio Armani per fargli vedere a Milano le sue giacche e farsi un selfie da poter poi usare e sfruttare al massimo quando ritorna in Bolivia e forse (se ha fortuna) passare dall'86esimo posto al mondo al 79esimo.

E' l'Italia della mitomania.
E' l'Italietta degli annunci.
E' l'Italiona degli ultimatum roboanti.
E' l'italianità nella sua essenza clownesca.
E' l'infantilismo elevato a sistema di comunicazione.

Perché andare a Milano a sostenere il settore dell'industria che conta è considerato "da provinciali" ed è rischioso. Se per caso ci si trova impelagati in qualche convegno pubblico, ci si trova davanti gente esperta del settore, meritevole e competente (senza questo connubio non esiste neppure 1 probabilità su 100 di costruire mercato) che pone domande e richieste molto ma molto imbarazzanti. Perché a quelli, bisogna rispondere.

Totalmente assenti da uno dei settori trainanti della nostra economia, i rappresentanti del governo invece che a Milano hanno scelto di andare nella Silicon Valley, dove vige un sistema di regole che sta almeno 50 anni più avanti di noi e parlano una lingua agli italiani sconosciuta. E' un linguaggio con una sua grammatica, una sua sintassi, una sua fisionomia che non contempla l'esistenza né l'applicazione dei codici della italianità, quelli che privilegiano i furbi ai meritevoli, i falliti di successo agli esperti settoriali di cultura, le clientele di appartenenza alle squadre di competenza.

E' la tragedia berlusconiana della visibilità italiota, che prosegue incontrastata.

Ciò che conta è il tweet, il selfie con quelli che contano nel posto che conta.
E' l'immagine pedagogica di un paese dove si applica alla lettera (e al millesimo) il principio per cui vale chi conta e non conta chi vale: il simbolo del nostro tricolore.

E' fuffa elettorale che non produrrà mercato, non creerà lavoro, non aumenterà l'occupazione, non scioglierà nessun nodo economico reale, non porterà vantaggi.

In compenso, consentirà ai gestori della comunicazione di scatenarsi nel mondo virtuale e far sentire gli italiani protagonisti e all'avanguardia.

A questo ci penserà la cupola mediatica al seguito del caro leader.

La rivoluzione in Italia (l'unica che per il sottoscritto conta per davvero) passa attraverso un nuovo modello di comportamentalità, di affermazione dell'etica, di riconoscimento del Diritto e dello Stato di Diritto, dove lo sviluppo della creatività viene affidata ai creativi, gli ingegneri si ingegnano, gli architetti architettano, gli operai operano, gli scrittori scrivono, gli insegnanti insegnano, i medici medicano, ecc.

Tutto ciò per commentare l'uscita di Giorgio Squinzi, al comando di quella che considero la più clientelare, compromessa e irresponsabile categoria di professionisti italiani, quella degli imprenditori, sto parlando della categoria e non dei singoli, so bene che ci sono le eccezioni e di alcune ne ho parlato anche in questo blog. Comunque possiamo ben dire che molti di loro se ne sono sempre fregati dell'Italia come paese, perché hanno sempre vissuto e prosperato in una realtà in cui era prioritaria la modesta e misera provincia che albergava nella loro mente. 

Gli investitori internazionali non vengono e non verranno in Italia perché da noi c'è la criminalità organizzata, perché la libertà d'impresa dentro al mercato deve pagare il pizzo alle specifiche dirigenze partitiche, e perché il lavoro -come concetto- è concepito o come diritto o come dovere o come illusione e non viene mai contemplato come prospettiva di espressione del proprio sé. Tutti sanno che ciò che conta, nella Repubblica Italiana, è se e quando "uno che in politica conta" ti spinge, ti segnala, ti sostiene, ti valorizza, ti presenta.

Da noi, non vengono a investire perché manca l'elemento base: il capitale umano sociale.

E' il segreto di Pulcinella che non si vuole diffondere.

E invece continuiamo a parlare di articolo 18





9 commenti:

  1. Citazione: "...se ne sono sempre fregati dell'Italia come paese, perché hanno sempre vissuto e prosperato in una realtà in cui era prioritaria la modesta e misera provincia che albergava nella loro mente."

    Vero, la micragnosità provinciale dei massimi imprenditori italioti, lodevoli eccezioni a parte, è parte della storia di questo sfigatissimo Paese, che deve la sua poco più che centenaria unità ad un deprecabile pastrocchio massonico, più che ad una esigenza sentita dalle sue genti, ma tant'è...
    Certo, onestà intellettuale vorrebbe che si ricordasse che fu magari un certo Mussolini, con la fondazione dell'IRI, a cercare di risolvere l'inconsistenza degli industriali dell'epoca, tanto impegnati a fottersi vicendevolmente (con il massone Agnelli capofila), che non a creare una sinergia produttiva capace di dare alimento alle loro macchine, ovvero una moderna siderurgia.
    Perchè indulgo sulla massoneria come comun denominatore delle vicende nostrane?
    Perchè ritengo che questa poco nobile e poco meritevole associazione, tolte le pie intenzioni di alcuni ingenui "devoti", rappresenti, allora come oggi, le stimmate facciali del tallone anglosassone che schiaccia il cosiddetto Occidente.
    Ma davvero qualcuno crede che alcune corone europee, con qualche finanziere Goy sullo sfondo, abbiano finanziato Garibaldi e gli altri grembiulini per fare dell'Italia quello che temevano di più, ovvero uno stato autenticamente democratico?
    Odio per la Chiesa cattolica a parte, gli unici "ideali" erano i soliti di sempre: fare cassa. Mi piacerebbe leggere su questo blog anche dei cognati di Garibaldi, tali Lemmi e Adami, importanti membri della comunità massonica livornese, così lesti ad assicurarsi il possesso di importanti assets (come diremmo oggi) pubblici della neonata Italia.
    Le considerazioni sono tante, i punti di vista possono essere divergenti (è sempre auspicabile), ma la verità (tale quando non teme di esibire fonti ed essere confutata) non deve spaventare nessuno, anche chi rischia di trovare l'opposto di ciò che va cercando.
    Propongo ai viandanti in cerca di qualche lume come me, di leggere ed eventualmente commentare, l'articolo che propongo nel link qua sotto:

    http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=9915&Itemid=100021

    Comunque, gentile Di Cori Modigliani, anche se non sempre condivido le Sue osservazioni, chapeau al Suo coraggio di dare spazio anche a voci non esattamente concordanti alla Sua.

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  2. Ehi. Non si dimentichi che c'era, e c'è, la massoneria buona (Keynesiana, illuminista) e la massoneria cattiva (fondamentalmente banditi) che si fanno la guerra fra loro da un secolo almeno, nel favoloso mondo post-maya del nostro buon Sergio.
    Personalmente non ne sono del tutto convinto ancora, mi mancano dati sufficienti. Ma le sue argomentazioni appaiono perlomeno logiche, quasi convincenti, sicuramente commoventi in questo mondo (quasi) senza speranza.
    Le tenga in mente, almeno.

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  3. Caro amico, i massoni "buoni" sono come i "socialisti onesti" della celebre barzelletta: semplicemente non esistono. A meno che non intenda coloro che ho definito ingenui devoti nel mio precedente commento.
    Il discorso sulla massoneria sedicentemente "keinesiana e illuminista", è la trasposizione del condizionamento truffaldino dell'opinione pubblica americana, messo in opera da una elite tanto pervasiva quanto invisibile ai più.
    Si è mai chiesto com'è possibile che in uno Stato (gli USA) in cui il l'1% della popolazione possiede e decide praticamente tutto, il resto del "parco buoi" si divide pressoché perfettamente in due schieramenti, l'uno speculare all'altro ma entrambi incapaci di guardare verso l'alto, dove alberga il famigerato 1%. Buoni (a seconda dei tempi) come carne da cannone o clienti del Supermarket-America?
    Siamo spesso critici verso noi italiani, anch'io a volte lo sono, ma gli americani (verso i quali sono umanamente solidale) non Le sembrano il popolo più clamorosamente coglionato della storia?
    Mi creda, è molto difficile ammetterlo, ma siamo stati diseducati al senso critico da dosi massicce di retorica deviante, volgarmente detta propaganda.
    La verità è molto più semplice da intuire, basta saper leggere (almeno) i numeri che, si sa, non hanno opinioni. Infatti non mentono mai.
    Mi stia bene.

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    1. Ho sempre sostenuto che coloro che sono alla ricerca della veritá devano mantenere sempre un approccio "Vulcaniano" su tutte le tematiche.
      Complimenti per la sua equilibrata disamina.
      D.

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    2. Si scrive DEBBANO, non DEVANO. ma forse su Vulcano non conoscete la grammatica italiana...

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    3. Grazie prof Ciruzzo per la puntualizzazione..
      Mi permetta pero' di farle notare che:

      Anche un verbo comune come dovere può talvolta lasciarci in dubbio, tanto più se dobbiamo usarlo in un contesto formale: è più corretto devo o debbo? devono o debbono? deva o debba? devano o debbano? Comunque scegliate, state tranquilli; non farete brutta figura. Le forme verbali citate sono, infatti, intercambiabili: potete ricorrere all'una o all'altra senza sbagliare. Le forme devo, devono, deva, devano sono più diffuse rispetto alle altre, ma questo non vuol dire che debbo, debbono, debba, debbano siano sbagliate (anzi, il congiuntivo debba ha ormai preso piede rispetto al concorrente deva).

      Cit. WWW.Accademia della Crusca .it

      Pace e Prosperitá
      D.

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    4. Signor Roberto Q.,
      Le voglio rivolgere i miei più fervidi e sentiti ringraziamenti per il Suo commento, come pure per la segnalazione dell'articolo di Blondet. Avevo già seguito, anni fa, alcune trasmissioni della professoressa Angela Pellicciari su Radio Maria, ma il suo libro sul Risorgimento, da cui Blondet trae amplissimi stralci per la stesura del suo articolo, è una vera chicca, di cui non conoscevo -- o avevo dimenticato -- l'esistenza.

      Grazie davvero per avermene rinfrescato la (debole) memoria di italiana. Che comunque continua a sentirsi tale, senza per ciò stesso vedersi moralmente obbligata a un nuovo "obbedisco" a cui i ricatti degli attuali banditi/burocrati transnazionali vorrebbero piegare, una volta di più, i loro ostaggi sprovvisti di attestato di appartenenza alla "specie protetta", l'unica, cioé, destinata dalle odierne élites dominanti (o dovrei scrivere prevaricanti?) alla fruizione di tutele e salvaguardie giuridiche e sociali.
      Saluti cordiali, marilù l.

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  4. Non posso che concordare, Roberto, su tutto
    Grazie

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  5. "Nel lungo periodo saremo tutti morti" e infatti nel lungo periodo stiamo morendo tutti. Uno dei buchi neri del pensiero di Keynes é quello di aver lasciato credere che la spesa pubblica sia sempre un bene anche quando trattasi di spesa clientelare. É cosi che oggi si confonde la spesa improduttiva con quella distruttiva giustificando opere come l'expo perché in fondo si da lavoro a 80 mila persone. Pazienza se quei soldi alimentano clientele e mafia. Keynes parlava di assumere operai per scavare buche di giorno e riempirle di notte, forse non sospettava che qualcuno, in Campania, quelle buche le avrebbe riempite di rifiuti tossici.

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