Di una bella donna tutta italiana.
Ma è anche l’immagine della Bella Italia quando vince, conquistando l’ennesimo alloro per meriti sul campo. E ciò che più conta, soprattutto oggi, è che si aggiudica l’agognato trofeo per una imbattibile competenza tecnica, dove la pertinenza specifica si coniuga al gusto dello stile italiano, a una profonda cultura personale e a una indiscutibile quanto meticolosa conoscenza della nostra arte.
Si chiama Milena Canonero, e ieri notte, a Los Angeles, ha vinto il suo quinto Oscar, come costumista del film “Grand Hotel Budapest”.
E’ una splendida immagine che mi rende orgoglioso ma, nella commozione patriottica che nutro sempre ogni qualvolta un nostro cittadino si fa valere in giro per il mondo, c’è il sapore tragico della indelebile macchia sul tricolore che ci condanna all’irrilevanza e all’esilio.
La grandezza di Milena, nella sua professionalità, è incontestabile e indiscutibile.
Ma ce l’ha fatta perché dall’Italia se n’è andata sbattendo la porta molto giovane, non appena laureata in Storia dell’Arte in quel di Genova, città dove è cresciuta, il cui ricordo ha sempre portato nel suo cuore.
“Non c’era scampo per me in Italia. Non avevo raccomandazioni, non volevo iscrivermi ad alcun partito, provenivo da una famiglia piccolo borghese con pochi mezzi, il che vuol dire in Italia essere condannati a una frustrazione e disperazione certa”. Così raccontava, con modestia, nell’intervista rilasciata per il suo secondo Oscar (“Momenti di gloria” nel 1982) quello che le fece conquistare la stima e il rispetto di tutti. Ancora oggi, tra gli esperti di cinema, quel film è considerato (per quanto riguarda scenografia e costumi) la migliore ricostruzione e invenzione iconografica dell’Inghilterra degli anni ’20 mai vista al cinema.
Se n’era andata a Londra, a metà degli anni’60. Dopo sei mesi di lavoretti tanto per mantenersi, dalla cameriera al portiere notturno dell’Hotel Bristol a Chelsea, riesce a passare l’esame per fare un master a Pinewood, celebri studi cinematografici londinesi, negli anni in cui il cinema inglese era l’avanguardia. Erano anni particolari, stimolanti e ruggenti (stiamo parlando del 1965) e Londra era piena di artisti americani fuoriusciti, trasferiti in Inghilterra per fuggire al perbenismo maccartista statunitense che ancora imperava, soprattutto a Hollywood. Durante il master conosce Riccardo Aragno, per caso, al bar, mentre prendeva il caffè e si lamentava con la nostalgia dell’espresso. Aragno era un giornalista, commediografo, grande divulgatore culturale che era scappato via dall’Italietta democristiana catto-comunista e a Londra aveva aperto un bar, una specie di club, “artisti esuli a Londra”, molto frequentato da chi partecipava alla swinging London. Diventarono amici e una sera la portò a casa di Peter Sellers dove c’erano due americani inviperiti che avevano buttato via il passaporto e si erano trasferiti in Gran Bretagna prendendo la residenza nella campagna inglese, a Edgware: Joseph Losey e Stanley Kubrick.
Nessuno dei due ritornò in Usa.
Kubrick era un uomo molto curioso, un intellettuale che aveva sempre voglia di imparare, e rimase affascinato dalle storie che la Canonero raccontava sui pittori italiani. Divennero amici e dopo qualche mese lei accettò di arredargli la sua villa in pieno stile modernariato degli anni’30, uno stile che piaceva tanto a sua moglie.
Riccardo Aragno era un intimo amico di Stanley Kubrick, che era innamorato dell’Italia. Lo aveva preso come suo consulente personale, assistente, complice. In Italia viene poco ricordato, forse perché era fuori dai consueti giri clientelari. Kubrick aveva fatto mettere nei suoi contratti con la distribuzione internazionale (allora era la Dear Film) una clausola per cui Aragno era l’unica persona autorizzata a tradurre il suo copione e a dirigere il doppiaggio in lingua italiana.
Alla fine degli anni’60, dopo cinque anni di gavetta quotidiana, per Milena arriva la buona notizia: Kubrick le affida i costumi fantascientifici nel film “Arancia meccanica”. Cominciano a lavorare insieme e la Canonero stimola Kubrick e lo punzecchia per realizzare un grandioso film sull’Europa e sugli europei, sugli emigrati, sui disperati che cercano un posto, un luogo, una identità, ma senza politica né ideologia, “qualcosa di sospeso nel tempo, per regalare agli occhi una verità estetica dell’essenza autenticamente originale dell’essere europei”. E così, Kubrick si inventa “Barry Lindon” nel 1975 e chiama la Canonero. Gli affianca una architetta svedese, Ulla Britt Soderlund, che lo ha affascinato per una sua curiosa specializzazione: è la migliore conoscitrice dell’Arte Militare d’Europa. Poiché, nel film vuole mettere delle scene di battaglie che coinvolgono anche l’esercito svedese e danese, affida alle due donne la meticolosa creazione delle divise nel secolo XVII. Le due donne vincono l’Oscar. Quando il film viene distribuito in Italia, nel 1976, Aragno decide di attribuire il doppiaggio del protagonista a Giancarlo Giannini che, a quanto pareva, non stava nella lista dei papabili redatta dal sindacato lavoratori dello spettacolo di Cinecittà. L’attore viene protestato. Aragno invia una lettera in Italia lunga mezzo rigo: “Voglio Giannini perché è il migliore: o lui o niente film”. Saranno costretti ad accettarlo, con un costo complessivo (per il doppiaggio) aumentato di circa il 300% per via dei continui scioperi della categoria che evidentemente considerava pericolosissima l’idea che venissero attribuite mansioni per merito e non per appartenenza.
Milena Canonero è oggi la nostra bandiera perché ha scelto di scappare via da tutto ciò, da questa italia minuscola e misera.
Con il suo successo ci ricorda e ci regala l’imbattibile qualità dei nostri artisti e dei nostri professionisti e la condanna all’esilio che questo sistema partitico seguita a imporre a chiunque abbia voglia di imprendere, intraprendere, esprimersi, manifestarsi nella propria creatività.
Intervistata nel 2010, quando le chiesero perché dopo 40 anni non ritornava in Italia a fare dei film, con la sua consueta leggerezza, ha risposto: “A fare che? Non ho ancora voglia di ritirarmi, in Italia sarei disoccupata”.
Proprio perché rappresenta la Bella Italia, Milena Canonero non è il simbolo della nazione.
Ma è la bandiera e il simbolo del Paese, ben altra cosa.
Vivissimi complimenti per questa splendida ennesima vittoria.
Ci riempie di sgomento e di paradossale nostalgia per tutto ciò che potrebbe essere, da noi, se lo volessimo ma che non è perché, infine, non lo vuole nessuno.
Vai Milena! L’Italia ti ringrazia.
Ma è anche l’immagine della Bella Italia quando vince, conquistando l’ennesimo alloro per meriti sul campo. E ciò che più conta, soprattutto oggi, è che si aggiudica l’agognato trofeo per una imbattibile competenza tecnica, dove la pertinenza specifica si coniuga al gusto dello stile italiano, a una profonda cultura personale e a una indiscutibile quanto meticolosa conoscenza della nostra arte.
Si chiama Milena Canonero, e ieri notte, a Los Angeles, ha vinto il suo quinto Oscar, come costumista del film “Grand Hotel Budapest”.
E’ una splendida immagine che mi rende orgoglioso ma, nella commozione patriottica che nutro sempre ogni qualvolta un nostro cittadino si fa valere in giro per il mondo, c’è il sapore tragico della indelebile macchia sul tricolore che ci condanna all’irrilevanza e all’esilio.
La grandezza di Milena, nella sua professionalità, è incontestabile e indiscutibile.
Ma ce l’ha fatta perché dall’Italia se n’è andata sbattendo la porta molto giovane, non appena laureata in Storia dell’Arte in quel di Genova, città dove è cresciuta, il cui ricordo ha sempre portato nel suo cuore.
“Non c’era scampo per me in Italia. Non avevo raccomandazioni, non volevo iscrivermi ad alcun partito, provenivo da una famiglia piccolo borghese con pochi mezzi, il che vuol dire in Italia essere condannati a una frustrazione e disperazione certa”. Così raccontava, con modestia, nell’intervista rilasciata per il suo secondo Oscar (“Momenti di gloria” nel 1982) quello che le fece conquistare la stima e il rispetto di tutti. Ancora oggi, tra gli esperti di cinema, quel film è considerato (per quanto riguarda scenografia e costumi) la migliore ricostruzione e invenzione iconografica dell’Inghilterra degli anni ’20 mai vista al cinema.
Se n’era andata a Londra, a metà degli anni’60. Dopo sei mesi di lavoretti tanto per mantenersi, dalla cameriera al portiere notturno dell’Hotel Bristol a Chelsea, riesce a passare l’esame per fare un master a Pinewood, celebri studi cinematografici londinesi, negli anni in cui il cinema inglese era l’avanguardia. Erano anni particolari, stimolanti e ruggenti (stiamo parlando del 1965) e Londra era piena di artisti americani fuoriusciti, trasferiti in Inghilterra per fuggire al perbenismo maccartista statunitense che ancora imperava, soprattutto a Hollywood. Durante il master conosce Riccardo Aragno, per caso, al bar, mentre prendeva il caffè e si lamentava con la nostalgia dell’espresso. Aragno era un giornalista, commediografo, grande divulgatore culturale che era scappato via dall’Italietta democristiana catto-comunista e a Londra aveva aperto un bar, una specie di club, “artisti esuli a Londra”, molto frequentato da chi partecipava alla swinging London. Diventarono amici e una sera la portò a casa di Peter Sellers dove c’erano due americani inviperiti che avevano buttato via il passaporto e si erano trasferiti in Gran Bretagna prendendo la residenza nella campagna inglese, a Edgware: Joseph Losey e Stanley Kubrick.
Nessuno dei due ritornò in Usa.
Kubrick era un uomo molto curioso, un intellettuale che aveva sempre voglia di imparare, e rimase affascinato dalle storie che la Canonero raccontava sui pittori italiani. Divennero amici e dopo qualche mese lei accettò di arredargli la sua villa in pieno stile modernariato degli anni’30, uno stile che piaceva tanto a sua moglie.
Riccardo Aragno era un intimo amico di Stanley Kubrick, che era innamorato dell’Italia. Lo aveva preso come suo consulente personale, assistente, complice. In Italia viene poco ricordato, forse perché era fuori dai consueti giri clientelari. Kubrick aveva fatto mettere nei suoi contratti con la distribuzione internazionale (allora era la Dear Film) una clausola per cui Aragno era l’unica persona autorizzata a tradurre il suo copione e a dirigere il doppiaggio in lingua italiana.
Alla fine degli anni’60, dopo cinque anni di gavetta quotidiana, per Milena arriva la buona notizia: Kubrick le affida i costumi fantascientifici nel film “Arancia meccanica”. Cominciano a lavorare insieme e la Canonero stimola Kubrick e lo punzecchia per realizzare un grandioso film sull’Europa e sugli europei, sugli emigrati, sui disperati che cercano un posto, un luogo, una identità, ma senza politica né ideologia, “qualcosa di sospeso nel tempo, per regalare agli occhi una verità estetica dell’essenza autenticamente originale dell’essere europei”. E così, Kubrick si inventa “Barry Lindon” nel 1975 e chiama la Canonero. Gli affianca una architetta svedese, Ulla Britt Soderlund, che lo ha affascinato per una sua curiosa specializzazione: è la migliore conoscitrice dell’Arte Militare d’Europa. Poiché, nel film vuole mettere delle scene di battaglie che coinvolgono anche l’esercito svedese e danese, affida alle due donne la meticolosa creazione delle divise nel secolo XVII. Le due donne vincono l’Oscar. Quando il film viene distribuito in Italia, nel 1976, Aragno decide di attribuire il doppiaggio del protagonista a Giancarlo Giannini che, a quanto pareva, non stava nella lista dei papabili redatta dal sindacato lavoratori dello spettacolo di Cinecittà. L’attore viene protestato. Aragno invia una lettera in Italia lunga mezzo rigo: “Voglio Giannini perché è il migliore: o lui o niente film”. Saranno costretti ad accettarlo, con un costo complessivo (per il doppiaggio) aumentato di circa il 300% per via dei continui scioperi della categoria che evidentemente considerava pericolosissima l’idea che venissero attribuite mansioni per merito e non per appartenenza.
Milena Canonero è oggi la nostra bandiera perché ha scelto di scappare via da tutto ciò, da questa italia minuscola e misera.
Con il suo successo ci ricorda e ci regala l’imbattibile qualità dei nostri artisti e dei nostri professionisti e la condanna all’esilio che questo sistema partitico seguita a imporre a chiunque abbia voglia di imprendere, intraprendere, esprimersi, manifestarsi nella propria creatività.
Intervistata nel 2010, quando le chiesero perché dopo 40 anni non ritornava in Italia a fare dei film, con la sua consueta leggerezza, ha risposto: “A fare che? Non ho ancora voglia di ritirarmi, in Italia sarei disoccupata”.
Proprio perché rappresenta la Bella Italia, Milena Canonero non è il simbolo della nazione.
Ma è la bandiera e il simbolo del Paese, ben altra cosa.
Vivissimi complimenti per questa splendida ennesima vittoria.
Ci riempie di sgomento e di paradossale nostalgia per tutto ciò che potrebbe essere, da noi, se lo volessimo ma che non è perché, infine, non lo vuole nessuno.
Vai Milena! L’Italia ti ringrazia.
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