di Sergio Di Cori Modigliani
“Quando una società civile
comincia a subire una mutazione sintattica e il termine intellettuale diventa
un sostantivo dispregiativo, filtrando nei diversi substrati sociali, allora
quella società sta ponendo le fondamenta per una futura quanto inarrestabile
feroce dittatura”.
Con questa frase, nel 1948, il filosofo Martin Heidegger apriva l’anno accademico
alla facoltà di filosofia di Heidelberg, lanciando il concetto di “colpa
metafisica sociale” e istigando la società pensante tedesca a ripensare se stessa,
elaborare in ogni sua forma il perché e il come il nazismo si era affermato,
invitando i giovani studenti universitari a costruire “una verità collettiva
salvifica e non censoria” per poter essere in grado di partorire delle società
future più evolute socialmente, ma soprattutto spiritualmente più ricche e
libere. Com’è noto, nel decennio seguente, i tedeschi si richiusero in se
stessi, limitando al minimo possibile una loro qualunque presenza a convegni di
studio internazionale e incontri professionali, investendo le proprie energie
soprattutto nella elaborazione del lutto collettivo. Non è certo un caso che sono diventati, in
Europa, la società che ha prodotto la più alta quota di anticorpi sociali
contro ogni forma di razzismo, hanno creato il miglior sistema al mondo di ammortizzatori
sociali garantiti e hanno costruito un
modello economico interno che –incessantemente- ha visto dal 1946 a oggi un
costante e continuo investimento nella ricerca scientifica, nell’innovazione
tecnologica, ma soprattutto nella Cultura e nell’istruzione pubblica di massa.
La
Germania ha dovuto gestire una crisi economica complessa davvero difficile (nel
1992), quando si è trovata a farsi carico del gigantesco fardello della sua
parte orientale e ha dovuto selezionare le modalità di impiego delle proprie
risorse. La fine della guerra fredda, per loro, ha significato trovarsi davanti
a un debito complessivo (cifre di oggi) di circa 1000 miliardi di euro cui
dover far fronte. Il crollo dell’impero sovietico, infatti, comportò
l’automatico default di circa quindici nazioni con le loro rispettive economie:
sopravvivevano grazie a buoni del tesoro garantiti dalla Banca Centrale
sovietica, che in un pomeriggio annullò tutto dichiarando fallimento. La Svezia
gestì Polonia, Ucraina, Lituania, Lettonia ed Estonia; l’Italia si prese
Bulgaria, Romania, Albania, Macedonia, Croazia e Slovenia, e altrettanto fecero
i francesi e gli inglesi con la Cekia, la Slovacchia, la Bielorussia,
l’Ungheria. Ciascuna di queste potenze gestì e organizzò il post-comunismo
trasformando il “salvataggio” in una anomala ma efficace forma di
neo-colonialismo. Oggi, la maggior parte
delle persone che straparlano a vanvera, parlando sempre della solita Germania
perfida che ha colonizzato il meridione europeo, dimenticano che l’Italia -a
sua volta- ha colonizzato il proprio meridione europeo e la ripresa economica
italiana nel 1994 l’hanno pagata soprattutto i rumeni, i bulgari, gli slavi,
gli albanesi. Il 65% delle industrie nel
ricchissimo nord-est italiano hanno realizzato allora profitti per migliaia di
miliardi di lire, dando inizio al processo di de-industrializzazione del paese
e andando a produrre nelle nuove colonie europee. Il 75% dei produttori friulani,
marchigiani e veneti sono diventati leader mondiali nel nome di un finto “made
in Italy” perchè le scarpe, i vestiti, i giacconi, venivano prodotti in
Bulgaria, Romania, Macedonia, Albania, dove c’era la possibilità di avere mano
d’opera quasi gratis senza nessuna libertà sindacale a salvaguardia dei
lavoratori. Tutti lucrarono, felici di ritrovarsi a vivere il grande sogno
colonizzatore a danno dei più deboli. Oggi che il destino dei colonizzati bussa
alle nostre porte, gli stessi colonizzatori di allora insorgono protestando.
Come accadrà ai francesi e ai tedeschi domani, quando toccherà a loro.
E’
per questo (dato che lo sanno) che loro si sono premuniti, che loro si stanno
preparando a riposizionarsi nel loro territorio investendo su se stessi e sulla
loro Cultura.
Il
mondo reale funziona così.
Ogni
nazione, quando si presentano delle crisi sistemiche, reagisce in maniera
diversa.
La
Germania non ha mai smesso, negli ultimi 60 anni, di investire nella Cultura.
Negli
ultimi tre anni, da quando è esplosa la crisi dell’euro e la conseguente
stagnazione economica, la Germania è andata in totale controtendenza rispetto al resto dell’Europa, e ha
addirittura triplicato l’investimento da parte dello Stato nell’ambito della
Cultura, da sempre considerato il vero e proprio motore e spina dorsale della
società. Uno scienziato tedesco, un artigiano tedesco, un impresario teatrale,
un artista tedesco, sia un musicista che pittore, artigiano, scrittore,
cineasta, oggi in Germania ha dei livelli di garanzia e di tenuta incomparabili
rispetto al resto d’Europa e del mondo. Il dato reale della disoccupazione
della forza intellettuale in Germania è dello 0,3%; in Italia sfiora il 50%
reale. In Italia, gli artisti e gli intellettuali sono i leader nella nuova
classe dei poveri creata da Berlusconi e da Monti.
In
Italia, a differenza che in Germania -e adesso con Hollande anche in Francia-
la Cultura e l’istruzione di massa sono stati (dal 1994 a oggi in maniera
sempre maggiore e sempre più profonda) i due segmenti di mercato dove i
finanziamenti sono stati minori e dove i tagli sono stati maggiori. Con
l’assunzione del potere da parte di Berlusconi Lega Nord e AN questa tendenza
si è decuplicata e il governo Monti ha proseguito con miopia suicida quella
strada analfabeta, percorrendo lo stesso identico cammino. Basterebbe pensare
soltanto al fatto che tra il 2003 e il 2008 la Volkswagen ha assunto almeno
2000 persone tra architetti, designer, pittori, filosofi della comunicazione,
sociologi delle comunicazioni di massa, stilisti, con l’obiettivo specifico di
identificare i trend futuri su potenziali scenari diversi per poi andare a
produrre il tipo di automobile giusta, da affidare ad altri 500 neo-assunti
nella nuova generazione di ingegneri meccanici, esperti in carrozzeria
dinamica; per non parlare dei 10 miliardi di euro investiti tra il 2006 e il
2010 soltanto nel campo dell’innovazione tecnologica, nella ricerca scientifica
e nella cultura industriale, compreso il settore legato alle nuove
sperimentazione artistiche.
In
Italia, è passato invece il FALSO concetto di identificare la Cultura come un
bene superfluo, una attività hobbistica, una specie di passatempo inutile, che
esula dalla vita economico-sociale di una nazione e di cui si può
tranquillamente fare a meno, nei momenti di stagnazione, negando il principio “la
Cultura fa mercato”. La complicità degli
artisti e degli intellettuali italiani che hanno rinunciato alla propria
identità, al proprio ruolo, alla propria funzione, per mettersi al servizio
della corrotta oligarchia partitica -rinunciando quindi a ogni forma di
produzione autonoma, indipendente e trainante- ha prodotto un incalcolabile
danno alla società, e loro sono stati i veri responsabili dell’inizio della
nostra disfatta come nazione. L’Italia si è deliberatamente messa fuori dal
mercato occidentale della produzione culturale. Non esiste un autore italiano,
un telefilm italiano, un film italiano, un format mediatico italiano, un
pittore italiano, un movimento artistico italiano, una rivista italiana, un
documentario italiano, che abbia mercato al di là delle Alpi. Le rare eccezioni
sono perlopiù false; si tratta di prodotti realizzati da funzionari partitici
mascherati da artisti che vengono sponsorizzati e imposti sui mercati esteri
attraverso modalità clientelari. L’Italia, quindi, ha rinunciato ad avere anche
una possibilità su 100 di lanciare una moda (e quindi creare mercato) nel campo
della cultura internazionale, perché ha scelto di copiare modelli altrui, di
pedinare mode di altri, di seguire ed inseguire modelli estranei al dna
culturale della nazione. Gli scrittori italiani più venduti all’estero sono ancora
(nell’ordine) Alberto Moravia, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini e Leonardo
Sciascia, scomparsi decenni fa. Leggendo un qualsivoglia libro italiano o
guardando un qualunque film o telefilm italiano non si ottiene nessuna
informazione sul paese reale. Troviamo soltanto delle esasperazioni da
mitomani, dei bizantinismi formali, l’esaltazione della caricatura della realtà
a scapito della drammaturgia esistenziale, che può essere prodotta soltanto da
personaggi rappresentativi di una certa specifica società, di una certa
cultura, di un certo ambiente.
L’Italia
ha rinunciato a raccontare se stessa.
Ma
questo non è un prodotto della crisi economica.
E’
l’esatto contrario.
Poiché
l’Italia, nel nome del criminale consociativismo colluso, miope quanto ottuso,
ha scelto di non investire più su se stessa, di abbassare il livello e creare
un sistema di omologazione dell’analfabetismo di massa, è crollata la
possibilità di creare mercato attraverso la Cultura e la Ricerca, e di
conseguenza –nel momento massimo di crisi- non si creano le possibilità
dinamiche necessarie per “inventare” nuovi mercati, “creare” nuovi linguaggi,
“aprire” nuovi spazi di intervento. E quindi, farsi largo nei mercati internazionali.
Tutti
parlano soltanto di soldi e di economia, senza accorgersi che, così facendo,
stanno realizzando il sogno dei due Mario, Monti e Draghi: monetizzare il
bisogno e il desiderio, mercatizzare le esistenze, omologare il pensiero
facendo credere alle persone che il paese si riprenderà grazie a una
particolare teoria economica, a una certa fiscalizzazione, imponendo linguaggi
collettivi che usano lessicalmente e sintatticamente tutti termini che
provengono dal campo dell’ingegneria finanziaria, dal campo della ragioneria
tributaria. Così facendo si impone sul mercato la Legge Subliminale la cui
matrice (il vero Matrix) ruota intorno al punto per cui sono le banche a”dover” avere il controllo
della situazione. Fintantochè si parla di monete, di spread, di aliquote, di
percentuali, di grafici, di teorie, di soldi e si spingono le persone a voler
credere che una certa manovra economica o una certa legge economica o un certo
dispositivo economico finiranno per cambiare le loro esistenze e il futuro
dell’Italia, i finanzieri seguiteranno a vincere. Perché hanno preso in pugno
il controllo dell’immaginario collettivo: ciò che conta è che le persone
abbiano il danaro dentro la testa e parlino soprattutto di quello.
“Ma
un romanzo, un telefilm, un film, quale impatto potrebbe mai avere nella
società tale da poter smuovere le cose? Quando mai un romanzo o un film o un
quadro hanno aperto il mercato dando lavoro e creando impresa?”.
A
questo tipo di domanda (tutti gli italiani, ormai, la pensano così) non si può che
rispondere con un esempio, che ho scelto come parametro di riflessione.
Chi
segue il mio blog e legge i miei post sa che, il più delle volte, la mia scelta
stilistica consiste nell’introdurre una premessa che spesso ha un sapore
informativo o aneddotico o romanzato e poi usarla per introdurre
l’argomentazione che mi interessava comunicare.
Oggi,
ho deciso di fare il contrario.
Volevo
sottolineare quale terribile perdita
“economica” sia per l’Italia (e per gli italiani) aver deliberatamente scelto
di cancellare l’idea che” la Cultura fa Mercato”, sostituendola con il più squallido “sono
i Mercati a determinare la Cultura”. Se
fosse stato così, la Storia dell’Arte non sarebbe mai esistita nei millenni.
Serve
una rivoluzione esistenziale interiore per sottrarsi alla monetizzazione delle
nostre vite, alla mercatizzazione del linguaggio, all’obbligo robotico di dover
essere costretti ogni giorno a parlare delle fantasie perverse di Monti e
Passera e di tutti coloro che decuplicano e centuplicano tali fantasie morbose
con la scusa di essere antagonisti e andargli contro.
Come
scrisse Dorothy Parker, una intellettuale americana che amo molto, attiva negli
anni’30 e autrice di racconti immortali sull’esistenzialità intima del mondo
femminile: “La cura migliore per la noia del vivere è la curiosità. Per quanto
riguarda la curiosità, non esiste cura, non la troveranno mai. Essa è
inguaribile”.
E
adesso, in conclusione, viene quella che doveva essere la premessa.
Accadde
in Usa.
Correva
l’anno 1959.
Gli
Usa si trovavano davanti a un bivio.
La
destra maccartista aveva raggiunto l’acme nella repressione interna degli
intellettuali, stilando delle vere e proprie liste di proscrizione e impedendo
l’accesso al mercato a persone considerate “scomode”. Hollywood si era
adeguata. Molti intellettuali americani erano scappati via soprattutto in
Francia e in Inghilterra, come Joseph Losey. Chi era rimasto, pur di poter
lavorare, accettava di guadagnare dei soldi scrivendo per conto terzi e vedendo
le proprie opere firmate da altri, rimanendo nel buio della clandestinità.
Kirk
Douglas, che era allora uno dei più famosi divi, aveva ricevuto una notifica
d’avvertimento in seguito a un film in cui appariva come protagonista,
“Orizzonti di gloria” uscito l’anno prima, per la regia di un giovane
sconosciuto, un certo Stanley Kubrick, membro del comitato anti-militarista
statunitense. Il film, in bianco e nero, era un atto di denuncia contro tutte
le guerre e in Francia era stata vietata la distribuzione per richiesta
specifica del generale De Gaulle che temeva potesse essere usato contro di lui,
impegnato in quel periodo in Algeria a soffocare nel sangue la rivolta sociale
degli algerini contro il colonialismo. In Usa era uscito ma era rimasto nelle
sale due giorni. Attaccato e denunciato dall’FBI come “chiaro prodotto marxista
pericoloso per i giovani” era stato ritirato dalla circolazione perché i
gestori del cinema non volevano guai e dopo qualche giorno lo avevano
restituito ai distributori. Quasi nessuno lo aveva recensito e la critica non
ne aveva parlato. Ma delle copie di quel film erano state fatte in formato
molto piccolo, a 8mm, e si proiettavano privatamente nelle case. Tutti
parlavano di quel film nel passaparola, con estrema cautela perché potevano
arrivare i funzionari dell’FBI a casa senza avvertire e quando trovavano le
persone che guardavano quel film, allora arrestavano tutti i presenti e il
padrone di casa finiva nei guai. Migliaia e migliaia di persone vennero
arrestate, prelevate dalle loro abitazioni private, per violazione delle norme
sulla sicurezza. Chi aveva quel film veniva licenziato e non trovava più occupazione. Ma l’onda dei
commenti serpeggiava e in giro se ne parlava. Ad Harvard il preside
dell’università organizzò una gigantesca conferenza sul film con migliaia e
migliaia di studenti assiepati, tenuta dagli scrittori Arthur Miller e Norman
Mailer ma senza proiettarlo, come invece aveva annunciato. Quando arrivarono
gli agenti dell’FBI entrando nella prestigiosa università, trovarono la tela
dello schermo sulla quale scorrevano mute le immagini di un film di Topolino
della Walt Disney mentre i conferenzieri parlavano di “qualcosa che non esiste
ma di cui bisogna parlare”. Fu un clamoroso smacco per l’FBI e si ritorse in un
boomerang.
Tutti
parlavano di un film che nessuno aveva visto. Sul New Yok Times ospitavano in
una pagina dei disegni fatti dai lettori nei quali “potete immaginare voi le
scene del film che non si può vedere”.
Intanto Kubrick era stato messo al bando e la
sua carriera, appena gli inizi, era subito abortita.
Ma
nonostante si fosse nel pieno della guerra fredda e l’FBI la facesse da
padrone, il clima era cominciato a cambiare. Si era in campagna elettorale e la
piatta e assonnata America degli anni’50 era ormai al tramonto. Per la prima
volta, nei dibattiti politici, invece di parlare del comunismo, dell’economia,
del lavoro, della famiglia, si parlò soprattutto di diritti civili, e nelle
università cominciava a fervere una certa ebollizione generale. I due
contendenti erano Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy, un giovane cattolico
sconosciuto che aveva provocato indignazione (tra i conservatori) e ammirazione
(tra i progressisti) perché alla sua prima intervista radiofonica aveva
dichiarato che le prime due cose che avrebbe fatto, se fosse stato eletto,
sarebbero state quelle di consentire ai negri l’accesso alle università nei
dodici stati del meridione dove era vietato (compresa la California) e avrebbe
portato al congresso la Legge per dar loro il diritto al voto. Nel 1960 in Usa
i negri non avevano ancora diritto al voto e non potevano andare all’università
a meno che non si trasferissero sulla costa nord atlantica.
A
Hollywood, gli attori progressisti decisero di fare qualcosa per cambiare la
situazione. Allora esistevano quattro filoni sul mercato: commedie
sentimentali, western, film epici, e polizieschi. Quelli che andavano per la
maggiore erano i film sull’antica Roma e sulla Grecia, tipo Ben Hur, la maggior
parte dei quali venivano girati a Cinecittà a Roma, che gli americani
battezzarono con il nome di “Kolossal”. Ne producevano centinaia all’anno
perché tutta l’ideologia del potere conservatore americano, voluto dal generale
Eisenhower durante la sua presidenza, consisteva nell’identificazione con
l’Impero Romano. I giovani delle classi colte e privilegiate a 15 anni
parlavano il latino e studiavano Tacito,
Seneca e Cicerone. Perfino la mafia si uniformò al mercato e nel 1960
aprì a Las Vegas il suo primo grande casinò: Caesar’s Palace con annesso un
enorme bordello con gigantesche vasche copiate da quelle dei Fori Traianei (gli
architetti erano rigorosamente italiani) dove si organizzavano i famosi week
end “Caligola & Octavian blue nights”, allora considerata la massima
trasgressione consentita alle classi dei ricchi privilegiati.
Lo
zoccolo duro del gruppo clandestino AFF (Actors For Freedom) composto da famosi
divi che oggi pochi ricordano (Marlon
Brando, Paul Newman, Warren Beatty, Robert Redford, Kirk Douglas, Spencer
Tracy, Friedric March, Peter Lawford) decise di muoversi facendo un film che
aprisse un varco nelle coscienze della gente e allo stesso tempo aprisse il
mercato abolendo definitivamente la censura preventiva. Ne parlarono per mesi e
alla fine decisero di confezionare un prodotto misto: con tutti gli ingredienti
che il pubblico voleva, in modo tale da garantirsi un grande consenso, ma con
un linguaggio molto colto, affidato a intellettuali di spessore in grado di
presentare una fortissima componente di battaglia sociale per i diritti civili.
Il primo consulente fu Herbert Marcuse, un giovane filosofo sconosciuto che si
era trasferito a Los Angeles e lo storico marxisa inglese Eric Hobsbaum con il
quale Marlon Brando si incontrò clandestinamente a Londra mascherato, in un
albergo, temendo di poter essere riconosciuto. Per sei mesi studiarono il
progetto e infine, grazie alla collaborazione degli inglesi e dell’intero
settore accademico della facoltà di storia antica dell’università di Cambridge
(da sempre la più radicale e a sinistra nella tradizione inglese, in
contrapposizione con la conservatrice Oxford) trovarono l’idea giusta.
Riuscirono a convincere Kirk Douglas, il più commerciale tra tutti gli attori, a partecipare
all’impresa, dato che lui aveva la possibilità di convincere i distributori. Il
fine consisteva nel far lavorare tutti quelli che stavano sulla lista nera e
che erano esclusi dal mercato fingendo di fare un filmaccio a fini puramente
commerciali. Avrebbero usato nomi finti, ma avrebbero fatto sapere in giro,
dopo l’uscita del film, chi erano. Scelsero come tema la rivolta degli schiavi
contro Roma organizzata da Spartaco. La sceneggiatura la affidarono a un grande
storico dell’epoca, il prof. Calder Willingham che aveva la cattedra a
Cambridge di Storia Antica, insieme a Howard Fast, Peter Ustinov e Dalton
Trumbo, che a Hollywood non ci poteva neppure mettere piede. Kirk Douglas,
all’inizio piuttosto riluttante, accettò. Ma non riuscì a trovare appoggi.
Carattere ribelle, arrogante e dispotico, il divo si irritò talmente tanto nel
trovare le porte chiuse che si infiammò per il progetto e decise di produrlo
lui, con i suoi soldi, vendendosi tutto quello che aveva, contando sul fatto
che i distributori alla fine avrebbero accettato perché c’era il suo nome. Come
infatti avvenne. La regia venne affidata a un regista di mestiere, Anthony
Mann, ma quello fu un trucco per far imboccare il distributore a firmare. Una
settimana dopo che erano iniziate le riprese, venne licenziato dal produttore
(Kirk Douglas) e sostituito da un giovane sconosciuto (Stanley Kubrick con nome
finto). Nello scrivere la sceneggiatura, nei dialoghi più corposi e più lunghi relativi alle lotte per il
potere dentro al senato romano, copiarono di sana a pianta –e per intero- delle
autentiche trascrizioni di sedute parlamentari del congresso, sapendo che gli
esperti, la critica più agguerrita, li avrebbe riconosciuti. Epica la scena
–che appartiene alla storia sociale degli Usa- in cui Stanley Kubrick decide di
costruire un duello dialogico del potere,
in cui Crasso, nel descrivere “l’insopportabile stato di indisciplina
dei patrizi più colti che osano addirittura simpatizzare con gli schiavi” si
rivolge al senatore Sempronio Gracco e pronuncia la seguente frase: “In ogni
città, in ogni provincia, in ogni lontano avamposto dell’impero sono state
completate le liste degli infedeli” frase identica a quella scritta da Edgard
Hoover al presidente Eisenhower quando comunicava con orgoglio il successo
della repressione degli intellettuali americani. Lo girarono a Hollywood, a
Roma e in Spagna dove riuscirono a ottenere ben 9000 soldati veri da poter
usare come comparse. Quando mostrarono il film al distributore, lui disse che
andava bene, firmò il registro per fare le stampe. Durante la notte, Kirk
Douglas e i suoi due giovani figli entrarono di soppiatto nella sede della
Pacific Title a Santa Monica e cambiarono tutti i nomi di chi ci lavorava,
mettendo quelli veri, compreso Stanley Kubrick e Dalton Trumbo.
Così
è nato “Spartacus”, uscito in tutte le sale americane il 5 dicembre del 1960,
un mese esatto dopo che Kennedy era stato eletto. Fu immediatamente attaccato e
denunciato dall’FBI per violazione della legge, dati i nomi di sceneggiatore e
regista, ma la critica si oppose. Il pubblico però evitò di andare al cinema.
Gli americani avevano ancora paura. Ma poche settimane dopo, quando ormai Kirk
Douglas pensava di essersi rovinato, arrivò l’inatteso regalo.
Alla
sua prima e unica intervista televisiva rilasciata a Walter Cronkite per il
network NBC, il 15 gennaio del 1961, alla nuova coppia presidenziale, lo stesso
giorno in cui Kennedy aveva giurato, alla domanda “come avete trascorso
l’ultimo giorno prima del giuramento?”, Jacqueline, la nuova First Lady
rispose: “Ho già capito che lo vedrò poco e allora gli ho chiesto di passare il
nostro ultimo giorno da persone normali, come quando eravamo fidanzati. E
allora lui mi ha portato al cinema e siamo andati a vedere Spartacus”. Cronkite
rimase piuttosto colpito da quest’affermazione e chiese conferma al presidente
che subito rispose “Sì, siamo andati a vedere Spartacus. Davvero un ottimo
prodotto americano. Un film bellissimo, uno di quei film che serve a pensare, a
interrogarsi. Lo consiglio vivamente a tutte le famiglie americane. Penso che
la gente dovrebbe portare i propri figli adolescenti a vedere questo film”.
Dieci
giorni dopo batteva tutti i record d’incasso.
Due
mesi dopo Stanley Kubrick e Dalton Trumbo andavano a Berkeley, in California,
dove tennero una conferenza sui diritti civili, invitati dal prof. Marcuse che
aveva la cattedra di Filosofia Morale. Gli studenti si infiammarono e dieci
giorni dopo organizzarono il primo sciopero studentesco della storia Usa per i
diritti civili, reclamando l’abolizione della discriminazione razziale e la
libertà di accesso all’istruzione di massa, come garantito dalla costituzione
massonica democratica. Il preside tenne duro e organizzò una serrata,
peggiorando la situazione perché in televisione disse la frase “Ecco l’effetto
Spartacus, ecco come la società implode quando si trasformano gli schiavi in
eroi popolari; arriva l’indisciplina, il caos, il turbamento dell’ordine
costituito”. Il giorno dopo, quattro professori si incatenarono all’ingresso
dell’università con la faccia dipinta di vernice nera, e da quel momento la
protesta dilaga in tutte le università americane. Qualche mese dopo, la casa
editrice University Press lancia la collana economica “Spartiachidi-strumenti
di rivolta per i diritti civili” e dopo neppure un mese la più importante casa
editrice del mondo, la Simon & Schuster, inizia la pubblicazione della
celebre collana “Spartacus ‘60’s-the age of rebellion”.
I
sociologi considerano il film Spartacus il simbolo e la stazione di partenza
del grande cambiamento epocale nato negli anni’60 in occidente. Poco dopo,
Hollywood si adegua e parte, lancia in resta, dando il via a un nuovo filone,
quello del grande cinema sociale, che ci ha regalato tra i più bei capolavori
della storia del cinema.
Questo
post è una risposta collettiva ai commentatori che mi chiedono: ma a che cosa
servono gli intellettuali? Che cosa vuol dire “la Cultura fa mercato”? In che
modo?
Ecco
a che cosa servono: ad aprire una breccia e spianare la strada che poi la
classe politica adeguata percorrerà per il bene comune. Senza quegli
intellettuali, Kennedy non avrebbe potuto compiere nulla di ciò che ha fatto
nei pochi anni in cui fu al potere.
Ma
è anche vero che l’operazione fu vincente perché c’era una nuova generazione di
politici democratici che aveva staccato la spina dall’ossessione complottista
dei conservatori in salsa guerra fredda e aveva deciso di seguire i fratelli
Kennedy.
Il
loro incontro ha prodotto un poderoso cambiamento sociale.
Senza
uno di questi due interlocutori non può avvenire nessun cambiamento.
Nel
2009, cinquant’anni dopo, quando esplode la grande crisi economica dentro la
quale ci troviamo oggi, un gruppo di intellettuali newyorchesi, mèmori di
questo precedente, decide di riproporre Spartacus in versione post-moderna come
format di serie televisiva. Trovano il gruppo Starz, indipendente, che accetta
di mandarlo in onda nel 2010 con un vero e proprio trionfo. Lo vendono in 68
paesi del mondo. Rai e Mediaset si rifiutano di acquistarne i diritti. Ma gli
italiani lo possono vedere, a pagamento, perché lo acquista Skygroup e lo manda
in onda anche in Italia. Nel marzo del 2012 viene trasmesso gratis nel canale
“cielo” di Flavio Briatore, senza neppure un euro speso in pubblicità; una
serie che non ha visto quasi nessuno.
Il
prof. Chomsky sostiene che la serie televisiva Spartacus è stata “la vera madre
e madrina del movimento “occupy wall street” perchè ha aperto uno spiraglio
nell’immaginario collettivo di una società dormiente e ipnotizzata dal culto
del danaro e dell’arrivismo sociale”.
In conclusione allego
un breve articolo apparso qualche giorno
fa su “Il Fatto Quotidiano”. L’autore
del post è Daniele Pitteri, un sociologo della comunicazione.
Il motivo per cui lo sottopongo all’attenzione
del mio pubblico è perché non ha avuto nessuna accoglienza positiva. In
compenso, lo stesso giorno, facebook era pieno di “condividi anche tu” relativi
a due post pubblicati sullo stesso quotidiano in cui si parlava di economia, di
banche, di spread, di teorie delle monete. Di questo articolo, neppure una
parola, nessun commento.
Vale la pena di leggerlo.
Perché in
Italia la cultura è ridotta così male?
È ridotta
così male perché da quasi quarant’anni, in pratica da quando esistono a Roma un
Ministero e nelle città un assessorato espressamente dedicati, la cultura è progressivamente scomparsa dalla vita quotidiana ed è rimasta confinata a lato di essa (nella
scuola, dove comunque è vissuta dagli studenti in maniera ostativa, rientrando
nella sfera dell’“obbligo”) o dietro di essa, nei musei, luoghi della memoria e
del passato, nonostante i tentativi tardivi e rari di modernizzarli,
utilizzando, in maniera il più delle volte amorfa, sbagliata o fuorviante, le
nuove tecnologie della comunicazione.
È ridotta così male perché essendo a
latere o dietro le cose della vita quotidiana non è considerata una priorità dalla politica, che anzi, soprattutto a livello locale e
soprattutto a livello municipale, la utilizza come strumento di distrazione dai
problemi economici e sociali (che riguardano per l’appunto la vita quotidiana)
o, ancor più spesso, come leva di propaganda, funzionale alla costruzione di
una solida immagine e di una solida reputazione, perché, si sa, basta riempirsi
la bocca con la parola cultura che si diventa immediatamente uomini di cultura.
È
ridotta così male perché in maniera diffusa (cittadini, istituzioni e addetti
ai lavori) se ne ha una considerazione erronea sotto molti profili.
Sotto il profilo quantitativo circolano da anni tre balle a cui molti credono e se ne riempiono la bocca
per dimostrarsi informati (ma perché non si informano, invece?).
La prima balla, quella stratosferica, dice: in Italia c’è il 70% (per alcuni più del 50%, per altri addirittura il 90%) del patrimonio culturale mondiale.
La seconda balla, corregge il tiro (forse si è capito che la prima è insostenibile) e dice che la percentuale così alta si riferisce ai beni protetti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Falso anche questo: su 936 siti tutelati 47 sono in Italia, il 5%, poco più della Spagna (44) e della Cina (43), che dividono il podio con noi.
La terza balla è condensata nelle parole dell’ex ministro dell’Economia, ma gode comunque di grandissimi fan: “con la cultura non si mangia”.
La prima balla, quella stratosferica, dice: in Italia c’è il 70% (per alcuni più del 50%, per altri addirittura il 90%) del patrimonio culturale mondiale.
La seconda balla, corregge il tiro (forse si è capito che la prima è insostenibile) e dice che la percentuale così alta si riferisce ai beni protetti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Falso anche questo: su 936 siti tutelati 47 sono in Italia, il 5%, poco più della Spagna (44) e della Cina (43), che dividono il podio con noi.
La terza balla è condensata nelle parole dell’ex ministro dell’Economia, ma gode comunque di grandissimi fan: “con la cultura non si mangia”.
A livello europeo la cultura (senza
contare i comparti delle culture materiali: moda, design, etc.) impatta sul Pil
per il 3,3%, dando lavoro a 6 milioni e settecentomila persone. Per
intenderci quasi quanto l’industria automobilistica. Nonostante questo, la
cultura non rientra nei programmi del governo Monti, che tuttavia nessuno prende per pazzo (se non
considerasse invece il settore automobilistico uscirebbe da Palazzo Chigi in
camicia di forza). E, ed è qui il dato più imbarazzante, non rientra neppure
nei programmi della maggior parte delle associazioni di rinascita politica e
culturale del paese nate nell’ultimo biennio, quelle per intenderci che fanno
capo a Montezemolo o
a Giannino o
a Auci, né in
quelli dei candidati che si sono sfidati alle primarie. Le une e
gli altri ne parlano un po’ (e neppure tutti), ma mai come leva strategica.
Giusto per confronto: nella “gretta” Germania della signora Merkel, in questi
anni di crisi la cultura e l’istruzione sono stati gli unici settori in cui la
spesa statale è aumentata.
Sotto il profilo qualitativo l’elenco dell’errata considerazione è lungo. Mi
limito a due esempi.
Il primo: almeno negli ultimi 20 anni la cultura è considerata solo ed esclusivamente una leva utile ad alimentare il turismo, quello sì improvvisamente divenuto un settore da tutti ritenuto strategico (quando eravamo la prima destinazione turistica del mondo tuttavia non ci si faceva molto caso, tant’è che siamo diventati la sesta). E quindi: grandi mostre e grandi eventi, magari anche super musei, tutto e sempre con funzione di “attrattori turistici”. Ma la cultura è un bene che deve servire in primo luogo alla cittadinanza. Deve generare un valore finalizzato ad accrescere il capitale culturale, che non è fatto solo di beni materiali, ma anche di beni immateriali, buona parte dei quali si condensa nella testa, nella memoria, nella capacità dei cittadini. Quanti più cittadini leggono, suonano, dipingono, visitano musei, scrivono, ascoltano musica, eccetera, tanto più alto è il patrimonio culturale di un paese, di una città di un borgo. Se si pensa invece prima a coloro che non abitano la città, il risultato inevitabile è un paese povero, economicamente, eticamente, socialmente.
Il secondo: la composizione e il profilo della platea degli addetti ai settori culturali è cambiata e si è ampliata. Per capirlo basta leggere l’enorme (e facilmente reperibile online) documentazione prodotta dalla Commissione Europea da cui emerge che il settore cultura oggi comprende: i beni culturali e le attività ad esse legate; lo spettacolo dal vivo; le industrie dei contenuti (editoria, tv, cinema, comunicazione); le culture materiali (moda/abbigliamento; design/arredamento; enogastronomia). Eppure il Ministero e gli assessorati competenti continuano a interloquire solo con una platea tradizionale, fatta di associazioni, musei, teatri, eccetera eccetera eccetera.
Il primo: almeno negli ultimi 20 anni la cultura è considerata solo ed esclusivamente una leva utile ad alimentare il turismo, quello sì improvvisamente divenuto un settore da tutti ritenuto strategico (quando eravamo la prima destinazione turistica del mondo tuttavia non ci si faceva molto caso, tant’è che siamo diventati la sesta). E quindi: grandi mostre e grandi eventi, magari anche super musei, tutto e sempre con funzione di “attrattori turistici”. Ma la cultura è un bene che deve servire in primo luogo alla cittadinanza. Deve generare un valore finalizzato ad accrescere il capitale culturale, che non è fatto solo di beni materiali, ma anche di beni immateriali, buona parte dei quali si condensa nella testa, nella memoria, nella capacità dei cittadini. Quanti più cittadini leggono, suonano, dipingono, visitano musei, scrivono, ascoltano musica, eccetera, tanto più alto è il patrimonio culturale di un paese, di una città di un borgo. Se si pensa invece prima a coloro che non abitano la città, il risultato inevitabile è un paese povero, economicamente, eticamente, socialmente.
Il secondo: la composizione e il profilo della platea degli addetti ai settori culturali è cambiata e si è ampliata. Per capirlo basta leggere l’enorme (e facilmente reperibile online) documentazione prodotta dalla Commissione Europea da cui emerge che il settore cultura oggi comprende: i beni culturali e le attività ad esse legate; lo spettacolo dal vivo; le industrie dei contenuti (editoria, tv, cinema, comunicazione); le culture materiali (moda/abbigliamento; design/arredamento; enogastronomia). Eppure il Ministero e gli assessorati competenti continuano a interloquire solo con una platea tradizionale, fatta di associazioni, musei, teatri, eccetera eccetera eccetera.
La cultura, infine, è ridotta così
male perché non si sono curate, e si continuano a non curare, tutte le periferie,
includendo in queste non solo quelle urbane e metropolitane, ma anche e
soprattutto, quelle rurali o tutte quelle aree che insistono in territori e
regioni ritenute secondarie, soprattutto per l’assenza di grandi città. Ma,
come dimostrano i cambiamenti in atto nei paesi emergenti (anche europei, si
pensi ad esempio alle repubbliche baltiche), la loro vera forza propulsiva
deriva da due elementi (oltre alla flessibilità economica): l’orgoglio e la
rivendicazione culturale e la valorizzazione delle aree (città e territori)
periferiche, luoghi piccoli e lontani che diventano motore del cambiamento.
Che dire..premesso che avevo colto nel segno il post precedente..questo fotografa ancora più impietosamente la situazione del paese.
RispondiEliminaTante grazie per l'inesauribile fonte di retroscena sul passato,valido aiuto per la comprensione delle cose e per connettere eventi spesso isolati e trattati senza la giusta contestualizzazione sia nei testi che nei rotocalchi storico/culturali.
Non so se riesco ancora a resistere qua.
Grazie e bravo
RispondiEliminaDiego
Complimenti per l' articolo.
RispondiEliminaMi sembra chiaro come, nell'opera di deculturizzazione del paese avvenuta durante il "ventennio berlusconista", un ruolo chiave sia stato rivestito dall'impero massmediatico.
Daltronde fù una delle armi più letali utilizzate dal regime fascista durante il ben più noto ventennio.
Spero che il seme che con tanta sapienza e acume diffonde possa trovare terreno fertile per germogliare in abbondanza e dare copiosi frutti a noi Italiani.
RispondiEliminamagnifico! acculturiamo anche facebook..inondando le bacheche di arte, cultura, pensieri, libri, immagini simbolo.
RispondiEliminaalcuni lo stanno già facendo. m.g.m.
Credo che qui possa essere applicato quanto dice Deleuze sulla distinzione fra Arte e Comunicazione (pubblicitaria).
RispondiElimina"Oggi ci sono molte forze che si propongono di negare ogni distinzione fra il commerciale ed il creativo. Più si nega questa distinzione e più si pensa di essere originali, aperti e colti. In verità si traduce solo un' esigenza del capitalismo, la rotazione rapida. Quando i pubblicitari spiegano che la pubblicità è la poesia del mondo moderno, quest'affermazione sfrontata dimentica che non c' è arte che si proponga di comporre o di rivelare un prodotto che risponda all' attesa del pubblico. La pubblicità può anche scioccare o voler scioccare, ma risponde comunque ad una presunta attesa. Un'arte produce invece un che di inatteso, di non-riconosciuto, di non-riconoscibile. "
da "Che cos'è l'atto di creazione?" di Gilles Deleuze
Il brano è preso da un'intervista del "Cahiers du Cinéma". Era il 1983. Ve lo consiglio. Fa nascere numerose considerazioni sul come si è arrivati da li a qui.
MM
Caro anonimo MM quanto aveva ragione Deleuze.. Chissà se tornerai a vedere se qualcun'altro condivide il nostro vedere.
EliminaCaro sergiodicorimodigliani, non basta leggere Gottlob. Occorre averne esperienza. Lei pensa che gli analitici a la page come Richard, che la politica dei vincitori ha imposto, l'abbiano avuta? Che una cultura con una lingua predisposta ai doppi-sensi come quella inglese abbia avuto l'esperienza del Sinn?
cordialmente,
akueo .
Questo articolo verrà rilanciato su http://www.delusidalbamboo.org l'8 dicembre.
RispondiEliminaUn abbraccio
Guido
Salve,
RispondiEliminacerto che usare una citazione del prof Heil, Heil Heiddegger...in critica al nazismo è fantastico, non parlo ovviamente delle sue collusioni precedenti (era stato rettore durante il Terzo Reich, nevvero?) quanto della sua sistematizzazione del discorso sull'ontologia che prelude ad ogni forma di totalitarismo, per dirla con Levinas.
Caspita:)
Di nuovo un ottimo post, grazie.
RispondiEliminaTra l'altro contribuisce a ridimensionare parecchio l'etichetta di "esportatori della democrazia" su scala planetria di cui gli U.S.A., soprattutto negli ultimi anni, amano così tanto fregiarsi. A questo riguardo e a proposito di cinema, mi sembra che contribuisca parecchio alla decostruzione di quel mito propagandistico e anticulturale il recente e bellissimo -- perché compostamente ma implacabilmente tragico -- film di Kathryn Bigelow, "The Hurt Locker", sulla guerra 'infinita' in Iraq.
Con sincera stima, Marilù L.
Consiglio anche la lettura di questo articolo:
RispondiEliminahttp://www.liberopensare.com/index.php/articoli/item/409-gli-incantesimi-di-hollywood