"Esilio, è anche vedersi esiliati dal proprio immaginario, è anche perdere un linguaggio"
Roland Barthes
di Sergio Di Cori Modigliani
Ogni libro è la continuazione di un altro libro, anche se l'autore, magari, neppure lo sa.
Intendiamoci, non è tenuto a saperlo, potrebbe anche trattarsi di un testo redatto 423 anni prima, e che l'autore ignorava fosse stato mai scritto.
Il grande Dostoevskij sosteneva (agli albori della sua carriera, dopo l'inatteso successo giovanile) di essere figlio di Eugene Sue, autore di un polpettone d'appendice, I misteri di Parigi, uscito a puntate sul Jounal des debats a Parigi, negli anni'40 del XIX secolo. I meandri della sua mente, per motivi francamente irrilevanti, avevano captato in quell'oscuro scrittore commerciale l'asse portante del clima della sua epoca, e come un poderoso fertilizzante aveva prodotto uno strabiliante frutto immortale.
Si è quindi, sempre, in quanto autori, figli di qualcuno, anche quando si è bastardi.
Stessa cosa per gli artisti visivi.
Lo sapeva molto bene Andy Warhol, un genio potenziale, che a metà degli anni'50 lavorava a Los Angeles come cartellonista per guadagnarsi da vivere: confessò a un suo intimo amico che non aveva nothing to look at and lo learn from (trad.it: "niente da guardare e da cui imparare"). E così, curioso e disperato come ogni artista è giusto che sia, si era licenziato, aveva preso tutti i suoi risparmi e si era fatto diecimila chilometri per andare a visitare la Galleria degli Uffizi a Firenze. Lì aveva trascorso ventuno giorni, andando ogni pomeriggio a osservare per ore le stanze del Botticelli. Quando decise di ritornare in patria, si trasferì direttamente a Manhattan in cerca di fortuna, ed è proprio in quel periodo che produce un centinaio di schizzi realistici che ritraggono Marilyn Monroe che esce nuda dalla schiuma dell'Oceano Pacifico. La nascita di Venere lo ossessiona e lui la vuole copiare di sana a pianta per celebrare la nascita di quello che lui sentiva avrebbe dovuto essere il rinascimento americano negli anni' 60, necessario strumento per andare oltre l'asfissiante maccartismo di quei tempi bui. Contrariamente alla vulgata corrente, che (in Italia) ha voluto vedere nel padre della pop art una specie di briccone ignorante con il cappello da cowboy, Andy Warhol era un artista di vasta cultura classica, che andava in giro per Manhattan portandosi in tasca delle cartoline dei quadri del Botticelli, in attesa di raccogliere gli insegnamenti del maestro fiorentino per adattarli ai suoi tempi. E' cosa nota che l'artista americano è considerato (anche se non da noi) il più colto conoscitore dell'arte italiana che l'America abbia mai avuto.
Anche Vincent Van Gogh aveva una sua personale ossessione che lo aiutava a lenire la sua sofferenza animica: le stampe giapponesi. L'arte dei suoi contemporanei ammetteva di non capirla nè lo interessava. Cercava qualcosa, ma non sapeva cosa, nè dove andare a cercarla. Era rimasto fulminato da due o tre immagini che aveva scovato per caso, mentre aiutava suo fratello Theo (reduce da un viaggio a Tokyo) a disfare le valigie; erano disegni stampati su un foglio di carta usato per avvolgere un paio di scarpe. Da lì inizia la sua ossessione per le stampe giapponesi e obbliga suo fratello a ordinargliele per posta. Quando arriva il primo pacco dal Giappone, prende le sue stampe e se le porta a letto, nascondendole sotto al cuscino. Trascorre lunghe settimane in preda a curiose allucinazioni prodotte dalla vista di quelle immagini. Erano gli antenati dei manga, disegnati con un tratto circolare (che in Europa non esisteva) e che Van Gogh trovò irresistibili. Non è certo un caso che il più costoso e famoso tra i suoi dipinti (I girasoli) da 40 anni si trova in Giappone dove è sempre stato sulla parete dell'ufficio privato del presidente della Mitsubishi Bank. Quando è morto, lo ha lasciato in eredità a una fondazione dell'imperatore che ha dato vita al Seiji Togo Memorial Sompo Japan Nipponkoa Museum of Art di Tokyo. In Giappone, a differenza che in Europa, Van Gogh è considerato il primo artista occidentale ad aver introdotto lo stile e il clima nipponico nel nostro continente.
Quando un giapponese vede i suoi quadri pensa a casa sua.
Stessa cosa avviene con i libri, siano essi romanzi o saggi.
Alcuni offrono una sensazione e una sensività familiare calda, e regalano un ritrovato tepore amicale e parentale. Purtroppo mi capita di raro con gli autori italiani, categoria quasi inesistente ormai, soppiantati da gente che scrive, che è tutto un altro dire.
L'ultima pescata, avvenuta una ventina di giorni fa, mi ha fatto un immenso regalo.
Si tratta di un autentico gioiello.
Il suo nome è "I sentieri delle ninfe" sottotitolo: "nei dintorni del discorso amoroso".
L'autore è Fabrizio Coscia.
L'editore è Exòrma di Roma.
Il prezzo è 14,90 euro.
A questo punto, di solito, è d'obbligo specificare subito la denotazione di appartenenza del libro: saggio, romanzo, pamphlet, memoriale, ecc. E' una direttiva perentoria degli editori.
E qui abbiamo subito la prima squisita sorpresa (lo si capisce già a pagina 3).
Siamo in presenza della perfetta esecuzione di una commistione di generi, che impone immantinente nel lettore una attività creativa soggettiva, tale da spingerlo verso l'immersione nel territorio liquido dei libri veri, ovverossia quei rari testi che dovrebbero essere definiti come una carta geografica dell'esistenzialità, una mappatura necessaria (nonchè imprenscindibile) per comprendere che si tratta di un viaggio, di un percorso, di una passeggiata colta nei meandri della sensualità letteraria.
Come dire: si va da qualche parte.
E' dotato anche di una sua poderosa magia originale, ragion per cui, se lo si legge alle ore 15 senza aver preso ancora il caffè del primo pomeriggio, si può pensare di star leggendo l'interpretazione di un critico d'arte, ma se si rileggono le stesse identiche pagine alle ore 23, magari dopo un'ottima cena e un'inattesa sorpresa di amorosi sensi soddisfatti, allora si pensa di star leggendo un sensuale romanzo di stampo sudamericano, forse un parente del Vargas Llosas de la ciudad y los perros (ciascun libro ha il diritto di di avere i parenti che gli va di avere) per poi accorgersi la mattina dopo alle 11 -nel riprendere le stesse identiche pagine- che si tratta invece di un pamphlet politico, decisamente un baedeker ispirato dal primo Wilhelm Reich su come educare se stessi per contrastare il fascismo oggi.
Nella dichiarazione di paternità familiare (confessata dall'autore nel sottotitolo) che annuncia di voler raccogliere l'eredità di quell'epico frammento di un discorso amoroso di Roland Barthes, c'è una proposta per i nostri tempi, robusta, e finalmente utopistica: riattivare le fila del nostro immaginario collettivo erotico, avendo identificato la mostruosa decadenza dei nostri tempi come un effetto della incapacità di saper leggere la realtà della nostra vita -e quindi gustare, godere, sorprendersi, fantasticare- perchè si vive immersi in una realtà sempre più sessuofoba dove l'idea di base della pornografia ha preso il sopravvento e l'egemonia sull'erotismo e quindi sull'amore, cercando di eliminarli.
Non a caso siamo quotidianamente pregni di odio convulso contro qualcuno.
Nel presentare la terza edizione del suo "la rivoluzione sessuale", nel 1935, a Vienna, poco prima di scappare via, il biologo-psichiatra Wilhelm Reich aveva definito lo stato dell'arte in quello specifico momento storico come un teatro in cui "il fascismo e il nazismo, che stanno per distruggere l'Europa, sono il frutto di una pianificata organizzazione strategica della repressione sessuale che allontana dall'erotismo e dalla ricerca dell'espressione della libertà dei sensi per offrire un panorama di odio e di violenza.....ci attendono tempi bui in cui la libertà di stupro e di accanimento fisico diventeranno norma consuetudinaria ai danni delle femmine, inevitabile esplosione dell'impotenza maschile generata dalla produzione di odio, da cui l'innamoramento per le armi piuttosto che per le modalità di seduzione".
In questo senso, il libro di Coscia, può essere letto anche come un pamphlet politico, un baedeker pedagogico per combattere la parte più pericolosa del fascismo in agguato oggi: quella dentro di noi.
Perfettamente in linea con i suoi parenti austriaci (Reich) e francesi (Barthes) l'talianissimo Coscia legge per noi la Storia dell'Arte come la risoluzione di un enigma antico che ruota tutto intorno alla figura della imago, l'oggetto carnale della passione dell'artista.
Per aiutarci a penetrare nel discorso amoroso, l'autore usa come strumento di viatico conoscitivo l'idea delle "ninfe", entità semidivine, la cui caratteristica naturale consiste nel volersi sempre sottrarre ma contemporaneamente attrarre, diventando quindi il parametro sentimentale di un'ossessione della nostalgia, proprio perchè è giocata sull'assenza. Non soltanto riesce a non essere mai noioso o pomposo nella sua dotta esamina, tutt'altro. Ci fa vivere sulla nostra pelle (tanto per fare un esempio) l'ansia del pittore francese Pierre Bonnard per la sua compagna-modella, la donna più dipinta nella storia dell'arte, e noi ne seguiamo le tracce quasi si trattasse di un libro giallo, ma sul più bello, la storia vira e sfonda da un'altra parte fantasmagorica, finendo addirittura per diventare narrativa personale e sfondando nell'auto-biografico. Ma non si tratta di un volo pindarico, nè di un trucco letterario, bensì una necessità stilistica che l'autore firma con la sua propria carne e il suo proprio sangue, mostrandoci addirittura in maniera sfacciata la fotografia delle gambe di colei che siamo autorizzati a pensare si tratti di una certa Linda, essendo stato il libro dedicato a lei in quanto ninfa compagna musa amica.
E' anche una storia d'amore, quindi.
Forse, chi lo sa, è la storia d'amore dell'autore, perchè no?
E quando scatta nel lettore l'inevitabile meccanismo del curioso voyeur, il libro vira di nuovo e finiamo nella camera da pranzo della Lolita di Nabokov, la più proverbiale tra le ninfe del nostro tempo, ma non c'è tempo per accomodarsi a occhieggiare le sue moine perchè il viaggio ci porta invece dalle parti della eterea Laura del Petrarca e le immagini si susseguono vorticose e quando pensiamo di aver capito che cosa stia accadendo, siamo finiti dentro "Solaris" il celebre film di fantascienza russo e altre immagini (questa volta cinematografiche) si aggiungono senza mai confonderci. Perchè esse sono come un solvente, necessario per diluire la tela del nostro immaginario.
Dice, infatti, l'autore, verso il finale (pagina 155) per chiarire apertamente che cosa stia facendo:
"Ancora un'altra foto (perchè è proprio di ciò che tratta questo libro, ovvero delle immagini e di che cosa si afferra, si percepisce, si scopre davanti alle immagini; che cosa si affronta e si rischia quando le guardiamo)....."
e poco oltre....."chi si avventura nei dintorni del discorso amoroso sempre si espone a perdere una rotta. Lo fa, cioè, con la consapevolezza di potersi smarrire, perchè, in un certo senso, è quello il vero obiettivo dell'intrapresa del viaggio. Nella parola "discorso" è implicito il senso del movimento, del passare da un luogo all'altro; ma vi è anche quello dello "scorrere", del fluire. Qualcosa che ci riconduce, ancora una volta, alla natura liquida che hanno in comune la scrittura e le Ninfe, come se non si potesse scrivere d'altro se non d'amore".
Un bellissimo viaggio, questo libro, che consiglio a tutti.
Dotato di leggerezza calviniana e di corroborante utopia sentimentale.
Un prodotto italiano, anzi, decisamente partenopeo. Un po' come le porcellane di Capodimonte. Due sono gli echi di memoria che mi ha ispirato, uno di vita vera vissuta e l'altro mediato dalla tivvù perchè si trattava di una intervista che ho avuto la fortuna di vedere in diretta quando ancora vivevo e lavoravo in California. Accadde circa 25 anni fa, quando (già molto malato) Federico Fellini venne a Los Angeles a ritirare l'oscar alla carriera. Rilasciò al Larry King show una lunghissima intervista di un'ora e mezza, mai vista in Italia. Fu uno dei rari momenti in cui, all'estero, mi sono sentito orgoglioso di essere italiano. Fellini fu superbo. Alla fine, in chiusura, Larry King gli chiese: "In conclusione, se ci riesce a farlo con una frase perchè il tempo è scaduto, mi potrebbe dare la sua definizione di erotismo? Qual è, per lei, la punta massima dell'erotismo?". Fellini non ci pensò neppure un attimo. Rispose d'istinto: "Non ho alcun dubbio al riguardo. Il massimo, consiste nell'andare a un appuntamento con una nuova amante ardentemente desiderata, sperando proprio che lei non arrivi mai".
L'altro memento riguarda la mia interpretazione de "I sentieri delle ninfe" che mi ha ricordato i tempi, 40 anni fa, quando lavoravo come critico teatrale al corriere della sera e avevo incontrato uno dei più grande teatranti d'Italia, un autore e interprete meraviglioso che io avevo sostenuto e spinto considerandolo in Italia, nel 1977, il numero 1: Leo De Berardinis. Insieme alla sua compagna di vita e di palcoscenico, Perla Peragallo, era riuscito in una impresa a dir poco impossibile, oltre che impensabile: aveva costruito uno spettacolo sintetizzando in una armoniosa unità Eduardo De Filippo e Samuel Beckett, in una edizione epica per il teatro italiano.
Questo libro mi ha regalato quel particolare sapore partenopeo, l'imbattibile capacità della cultura napoletana di saper sintetizzare generi apparentemente incompatibili producendo un risultato originale, come aveva fatto in musica, ai suoi tempi, Pino Daniele.
A dimostrazione dell'invidiabile buon stato di salute della Napoli creativa che pensa, sempre in grado da secoli di sorprenderci.
Lo consiglio ai giovani millennials curiosi, amanti dell'arte e della vita.
E se qualcuno tra di loro, sempre così sintetici, mi incitasse a definirlo con un'unica frase, direi: finalmente un libro intellettualmente arrapante.
Cibo gourmet per i palati che verranno.
Scritto proprio comme il faut.
Roland Barthes
di Sergio Di Cori Modigliani
Ogni libro è la continuazione di un altro libro, anche se l'autore, magari, neppure lo sa.
Intendiamoci, non è tenuto a saperlo, potrebbe anche trattarsi di un testo redatto 423 anni prima, e che l'autore ignorava fosse stato mai scritto.
Il grande Dostoevskij sosteneva (agli albori della sua carriera, dopo l'inatteso successo giovanile) di essere figlio di Eugene Sue, autore di un polpettone d'appendice, I misteri di Parigi, uscito a puntate sul Jounal des debats a Parigi, negli anni'40 del XIX secolo. I meandri della sua mente, per motivi francamente irrilevanti, avevano captato in quell'oscuro scrittore commerciale l'asse portante del clima della sua epoca, e come un poderoso fertilizzante aveva prodotto uno strabiliante frutto immortale.
Si è quindi, sempre, in quanto autori, figli di qualcuno, anche quando si è bastardi.
Stessa cosa per gli artisti visivi.
Lo sapeva molto bene Andy Warhol, un genio potenziale, che a metà degli anni'50 lavorava a Los Angeles come cartellonista per guadagnarsi da vivere: confessò a un suo intimo amico che non aveva nothing to look at and lo learn from (trad.it: "niente da guardare e da cui imparare"). E così, curioso e disperato come ogni artista è giusto che sia, si era licenziato, aveva preso tutti i suoi risparmi e si era fatto diecimila chilometri per andare a visitare la Galleria degli Uffizi a Firenze. Lì aveva trascorso ventuno giorni, andando ogni pomeriggio a osservare per ore le stanze del Botticelli. Quando decise di ritornare in patria, si trasferì direttamente a Manhattan in cerca di fortuna, ed è proprio in quel periodo che produce un centinaio di schizzi realistici che ritraggono Marilyn Monroe che esce nuda dalla schiuma dell'Oceano Pacifico. La nascita di Venere lo ossessiona e lui la vuole copiare di sana a pianta per celebrare la nascita di quello che lui sentiva avrebbe dovuto essere il rinascimento americano negli anni' 60, necessario strumento per andare oltre l'asfissiante maccartismo di quei tempi bui. Contrariamente alla vulgata corrente, che (in Italia) ha voluto vedere nel padre della pop art una specie di briccone ignorante con il cappello da cowboy, Andy Warhol era un artista di vasta cultura classica, che andava in giro per Manhattan portandosi in tasca delle cartoline dei quadri del Botticelli, in attesa di raccogliere gli insegnamenti del maestro fiorentino per adattarli ai suoi tempi. E' cosa nota che l'artista americano è considerato (anche se non da noi) il più colto conoscitore dell'arte italiana che l'America abbia mai avuto.
Anche Vincent Van Gogh aveva una sua personale ossessione che lo aiutava a lenire la sua sofferenza animica: le stampe giapponesi. L'arte dei suoi contemporanei ammetteva di non capirla nè lo interessava. Cercava qualcosa, ma non sapeva cosa, nè dove andare a cercarla. Era rimasto fulminato da due o tre immagini che aveva scovato per caso, mentre aiutava suo fratello Theo (reduce da un viaggio a Tokyo) a disfare le valigie; erano disegni stampati su un foglio di carta usato per avvolgere un paio di scarpe. Da lì inizia la sua ossessione per le stampe giapponesi e obbliga suo fratello a ordinargliele per posta. Quando arriva il primo pacco dal Giappone, prende le sue stampe e se le porta a letto, nascondendole sotto al cuscino. Trascorre lunghe settimane in preda a curiose allucinazioni prodotte dalla vista di quelle immagini. Erano gli antenati dei manga, disegnati con un tratto circolare (che in Europa non esisteva) e che Van Gogh trovò irresistibili. Non è certo un caso che il più costoso e famoso tra i suoi dipinti (I girasoli) da 40 anni si trova in Giappone dove è sempre stato sulla parete dell'ufficio privato del presidente della Mitsubishi Bank. Quando è morto, lo ha lasciato in eredità a una fondazione dell'imperatore che ha dato vita al Seiji Togo Memorial Sompo Japan Nipponkoa Museum of Art di Tokyo. In Giappone, a differenza che in Europa, Van Gogh è considerato il primo artista occidentale ad aver introdotto lo stile e il clima nipponico nel nostro continente.
Quando un giapponese vede i suoi quadri pensa a casa sua.
Stessa cosa avviene con i libri, siano essi romanzi o saggi.
Alcuni offrono una sensazione e una sensività familiare calda, e regalano un ritrovato tepore amicale e parentale. Purtroppo mi capita di raro con gli autori italiani, categoria quasi inesistente ormai, soppiantati da gente che scrive, che è tutto un altro dire.
L'ultima pescata, avvenuta una ventina di giorni fa, mi ha fatto un immenso regalo.
Si tratta di un autentico gioiello.
Il suo nome è "I sentieri delle ninfe" sottotitolo: "nei dintorni del discorso amoroso".
L'autore è Fabrizio Coscia.
L'editore è Exòrma di Roma.
Il prezzo è 14,90 euro.
A questo punto, di solito, è d'obbligo specificare subito la denotazione di appartenenza del libro: saggio, romanzo, pamphlet, memoriale, ecc. E' una direttiva perentoria degli editori.
E qui abbiamo subito la prima squisita sorpresa (lo si capisce già a pagina 3).
Siamo in presenza della perfetta esecuzione di una commistione di generi, che impone immantinente nel lettore una attività creativa soggettiva, tale da spingerlo verso l'immersione nel territorio liquido dei libri veri, ovverossia quei rari testi che dovrebbero essere definiti come una carta geografica dell'esistenzialità, una mappatura necessaria (nonchè imprenscindibile) per comprendere che si tratta di un viaggio, di un percorso, di una passeggiata colta nei meandri della sensualità letteraria.
Come dire: si va da qualche parte.
E' dotato anche di una sua poderosa magia originale, ragion per cui, se lo si legge alle ore 15 senza aver preso ancora il caffè del primo pomeriggio, si può pensare di star leggendo l'interpretazione di un critico d'arte, ma se si rileggono le stesse identiche pagine alle ore 23, magari dopo un'ottima cena e un'inattesa sorpresa di amorosi sensi soddisfatti, allora si pensa di star leggendo un sensuale romanzo di stampo sudamericano, forse un parente del Vargas Llosas de la ciudad y los perros (ciascun libro ha il diritto di di avere i parenti che gli va di avere) per poi accorgersi la mattina dopo alle 11 -nel riprendere le stesse identiche pagine- che si tratta invece di un pamphlet politico, decisamente un baedeker ispirato dal primo Wilhelm Reich su come educare se stessi per contrastare il fascismo oggi.
Nella dichiarazione di paternità familiare (confessata dall'autore nel sottotitolo) che annuncia di voler raccogliere l'eredità di quell'epico frammento di un discorso amoroso di Roland Barthes, c'è una proposta per i nostri tempi, robusta, e finalmente utopistica: riattivare le fila del nostro immaginario collettivo erotico, avendo identificato la mostruosa decadenza dei nostri tempi come un effetto della incapacità di saper leggere la realtà della nostra vita -e quindi gustare, godere, sorprendersi, fantasticare- perchè si vive immersi in una realtà sempre più sessuofoba dove l'idea di base della pornografia ha preso il sopravvento e l'egemonia sull'erotismo e quindi sull'amore, cercando di eliminarli.
Non a caso siamo quotidianamente pregni di odio convulso contro qualcuno.
Nel presentare la terza edizione del suo "la rivoluzione sessuale", nel 1935, a Vienna, poco prima di scappare via, il biologo-psichiatra Wilhelm Reich aveva definito lo stato dell'arte in quello specifico momento storico come un teatro in cui "il fascismo e il nazismo, che stanno per distruggere l'Europa, sono il frutto di una pianificata organizzazione strategica della repressione sessuale che allontana dall'erotismo e dalla ricerca dell'espressione della libertà dei sensi per offrire un panorama di odio e di violenza.....ci attendono tempi bui in cui la libertà di stupro e di accanimento fisico diventeranno norma consuetudinaria ai danni delle femmine, inevitabile esplosione dell'impotenza maschile generata dalla produzione di odio, da cui l'innamoramento per le armi piuttosto che per le modalità di seduzione".
In questo senso, il libro di Coscia, può essere letto anche come un pamphlet politico, un baedeker pedagogico per combattere la parte più pericolosa del fascismo in agguato oggi: quella dentro di noi.
Perfettamente in linea con i suoi parenti austriaci (Reich) e francesi (Barthes) l'talianissimo Coscia legge per noi la Storia dell'Arte come la risoluzione di un enigma antico che ruota tutto intorno alla figura della imago, l'oggetto carnale della passione dell'artista.
Per aiutarci a penetrare nel discorso amoroso, l'autore usa come strumento di viatico conoscitivo l'idea delle "ninfe", entità semidivine, la cui caratteristica naturale consiste nel volersi sempre sottrarre ma contemporaneamente attrarre, diventando quindi il parametro sentimentale di un'ossessione della nostalgia, proprio perchè è giocata sull'assenza. Non soltanto riesce a non essere mai noioso o pomposo nella sua dotta esamina, tutt'altro. Ci fa vivere sulla nostra pelle (tanto per fare un esempio) l'ansia del pittore francese Pierre Bonnard per la sua compagna-modella, la donna più dipinta nella storia dell'arte, e noi ne seguiamo le tracce quasi si trattasse di un libro giallo, ma sul più bello, la storia vira e sfonda da un'altra parte fantasmagorica, finendo addirittura per diventare narrativa personale e sfondando nell'auto-biografico. Ma non si tratta di un volo pindarico, nè di un trucco letterario, bensì una necessità stilistica che l'autore firma con la sua propria carne e il suo proprio sangue, mostrandoci addirittura in maniera sfacciata la fotografia delle gambe di colei che siamo autorizzati a pensare si tratti di una certa Linda, essendo stato il libro dedicato a lei in quanto ninfa compagna musa amica.
E' anche una storia d'amore, quindi.
Forse, chi lo sa, è la storia d'amore dell'autore, perchè no?
E quando scatta nel lettore l'inevitabile meccanismo del curioso voyeur, il libro vira di nuovo e finiamo nella camera da pranzo della Lolita di Nabokov, la più proverbiale tra le ninfe del nostro tempo, ma non c'è tempo per accomodarsi a occhieggiare le sue moine perchè il viaggio ci porta invece dalle parti della eterea Laura del Petrarca e le immagini si susseguono vorticose e quando pensiamo di aver capito che cosa stia accadendo, siamo finiti dentro "Solaris" il celebre film di fantascienza russo e altre immagini (questa volta cinematografiche) si aggiungono senza mai confonderci. Perchè esse sono come un solvente, necessario per diluire la tela del nostro immaginario.
Dice, infatti, l'autore, verso il finale (pagina 155) per chiarire apertamente che cosa stia facendo:
"Ancora un'altra foto (perchè è proprio di ciò che tratta questo libro, ovvero delle immagini e di che cosa si afferra, si percepisce, si scopre davanti alle immagini; che cosa si affronta e si rischia quando le guardiamo)....."
e poco oltre....."chi si avventura nei dintorni del discorso amoroso sempre si espone a perdere una rotta. Lo fa, cioè, con la consapevolezza di potersi smarrire, perchè, in un certo senso, è quello il vero obiettivo dell'intrapresa del viaggio. Nella parola "discorso" è implicito il senso del movimento, del passare da un luogo all'altro; ma vi è anche quello dello "scorrere", del fluire. Qualcosa che ci riconduce, ancora una volta, alla natura liquida che hanno in comune la scrittura e le Ninfe, come se non si potesse scrivere d'altro se non d'amore".
Un bellissimo viaggio, questo libro, che consiglio a tutti.
Dotato di leggerezza calviniana e di corroborante utopia sentimentale.
Un prodotto italiano, anzi, decisamente partenopeo. Un po' come le porcellane di Capodimonte. Due sono gli echi di memoria che mi ha ispirato, uno di vita vera vissuta e l'altro mediato dalla tivvù perchè si trattava di una intervista che ho avuto la fortuna di vedere in diretta quando ancora vivevo e lavoravo in California. Accadde circa 25 anni fa, quando (già molto malato) Federico Fellini venne a Los Angeles a ritirare l'oscar alla carriera. Rilasciò al Larry King show una lunghissima intervista di un'ora e mezza, mai vista in Italia. Fu uno dei rari momenti in cui, all'estero, mi sono sentito orgoglioso di essere italiano. Fellini fu superbo. Alla fine, in chiusura, Larry King gli chiese: "In conclusione, se ci riesce a farlo con una frase perchè il tempo è scaduto, mi potrebbe dare la sua definizione di erotismo? Qual è, per lei, la punta massima dell'erotismo?". Fellini non ci pensò neppure un attimo. Rispose d'istinto: "Non ho alcun dubbio al riguardo. Il massimo, consiste nell'andare a un appuntamento con una nuova amante ardentemente desiderata, sperando proprio che lei non arrivi mai".
L'altro memento riguarda la mia interpretazione de "I sentieri delle ninfe" che mi ha ricordato i tempi, 40 anni fa, quando lavoravo come critico teatrale al corriere della sera e avevo incontrato uno dei più grande teatranti d'Italia, un autore e interprete meraviglioso che io avevo sostenuto e spinto considerandolo in Italia, nel 1977, il numero 1: Leo De Berardinis. Insieme alla sua compagna di vita e di palcoscenico, Perla Peragallo, era riuscito in una impresa a dir poco impossibile, oltre che impensabile: aveva costruito uno spettacolo sintetizzando in una armoniosa unità Eduardo De Filippo e Samuel Beckett, in una edizione epica per il teatro italiano.
Questo libro mi ha regalato quel particolare sapore partenopeo, l'imbattibile capacità della cultura napoletana di saper sintetizzare generi apparentemente incompatibili producendo un risultato originale, come aveva fatto in musica, ai suoi tempi, Pino Daniele.
A dimostrazione dell'invidiabile buon stato di salute della Napoli creativa che pensa, sempre in grado da secoli di sorprenderci.
Lo consiglio ai giovani millennials curiosi, amanti dell'arte e della vita.
E se qualcuno tra di loro, sempre così sintetici, mi incitasse a definirlo con un'unica frase, direi: finalmente un libro intellettualmente arrapante.
Cibo gourmet per i palati che verranno.
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