di Sergio Di Cori Modigliani
“Non ho paura di Berlusconi in sè. Ciò che mi mette
davvero paura è il Silvio Berlusconi in me”.
Giorgio Gaber. Milano 1995.
Ogni epoca ha i suoi slogan,
i suoi refrain, i suoi lemma, i suoi mantra, le sue parole d’ordine, che
diventano socialmente la “firma antropologica” di quella specifica epoca. Una
certa espressione assume il significato di sintesi e collante culturale che va
poi a costruire l’immaginario collettivo. Il fascismo pose le basi fondanti del
pensiero italiano con una frase che allora entusiasmò la collettività, una
espressione che nei decenni si radicò, affermandosi in maniera così profonda da
provocare l’attuale cancro mentale della nazione: “Io me ne frego”. Ancora regge e seguita a essere la base
strutturale del potere della destra italiana conservatrice.
Gli anni 50 produssero una
geniale sottolineatura della guerra fredda e delle sue necessità al fine di
garantirsi i soldi americani, con la benedizione del Papa, si intende. E nacque
il celebre motto “Cristo ti vede, Stalin no” una frase, questa, che veniva
tradotta dai preti nelle parrocchie per spiegare alla gente come il loro voto,
in realtà, venisse scrutinato direttamente da Dio, a differenza di quello dato
ai comunisti che veniva registrato soltanto dagli scrutatori. C’era in ballo il
Paradiso.
Ma dagli anni 50 in poi –ed
è ancora oggi così- ci fu un medium che più di ogni altro in assoluto divenne
un punto di riferimento fondamentale nella costruzione dell’immaginario
collettivo di tutti noi: il cinema. I dialoghi, i dettagli, i particolari delle
scene di alcuni film memorabili rimanevano impresse nella memoria e andavano ad
assommarsi al motto di quell’epoca. Dire a un francese o a uno svedese “In
Italia non esiste il divorzio, le mogli, lì, preferiscono ucciderle” era una frase
che non aveva alcun senso, al massimo poteva suonare come una battuta salace.
Ma ci pensò Pietro Germi, con un guizzo di geniale creatività tutta italiana, a
spiegare al mondo con “Divorzio all’italiana” come funzionava davvero la vita
da noi. Basti pensare che nel 1960, quando l’Italia assaporava il benessere,
l’economia avanzava al ritmo del +10% all’anno e l’Italia entrava nella
modernità, nel paese il femminicidio produceva una quantità annua di vittime
pari a un +756% di quello verificatosi nel 2011. E pochissimi, tra gli
assassini, finivano in galera. Quel film di Germi (una deliziosa commedia
leggera, leggerissima) presentato sotto forma di macabra farsa, finì per
allargare a livello di massa il dibattito sulla necessità di promulgare una
Legge per il divorzio.
In Italia, negli anni’70, le
femministe regalarono a tutti un meraviglioso slogan di poderosa forza “il
privato è politico”, una frase davvero splendida, che finì prima censurata, poi
annacquata e infine dimenticata, perché immersa in un contesto ideologico che
si riferiva soltanto a problematiche strettamente femminili e invece avrebbe dovuto
essere allargata per poter finalmente estirpare –proprio grazie all’invenzione
di questa frase azzeccata- il trionfale radicamento a livello di dna
psico-sociale della frase mussoliniana io
me ne frego.
Nel 1973 non esisteva
wikipedia, non c’era il web e la televisione ancora contava poco. La gente non
andava a caccia di “informazioni” (o “contro-informazioni”) ma andava al cinema
per informarsi. Perché un certo film specifico riusciva a spiegare al 100%,
davvero a tutti, gli sporchi giochi del potere occulto, con una forza
dirompente che oggi non ha nessun blogger, nessun sito, nessuna striscetta su
facebook, nessuna twitterata. Uno andava al cinema a vedere “I tre giorni del
condor” con Robert Redford e Faye Dunaway (entrambi belli, bravi e
affascinanti) e aveva l’opportunità di vedere che cosa combinava la CIA, anche
perché la superba sceneggiatura era stata scritta da un ex impiegato
dell’agenzia, il che voleva dire che, forse, quella storia poteva essere
perfino vera. Quantomeno veritiera.
Le frasi nei film hanno
davvero cambiato la coscienza (e il subconscio) collettivo, e alcune frasi
declamate da occhioni imploranti, da bocche seducenti, da proprietari di spalle
possenti o lunghe gambe dinoccolate, hanno contribuito poi a creare e costruire
nuove mitologie distruggendone delle altre. Nascono anche grandi affari, perché
frasi e immagini producono suggestioni e attrattive che muovono milioni e
milioni di turisti, desiderosi di andare là, proprio in quel punto specifico,
su quella veranda particolare, con quella luce, per poter rivivere il magico
momento che l’attore/attrice di turno ci aveva regalato sullo schermo.
La città d’Europa che da 50
anni è leader, assoluta e incontrastata, come meta turistica, è Parigi. Non ha
rivali. Un divertente studio analitico di quattro anni fa, condotto da
un’equipe di sociologi californiani, aveva individuato le tre frasi più
ricorrenti, famose e ripetute del cinema americano dal 1956 al 2006. Al primo
posto assoluto c’è la frase “I’m going to Paris”: c’è sempre qualcuno, in un
film americano, indifferentemente maschio o femmina, che a un certo punto
dichiara che va a Parigi, senza alcun motivo. Al terzo anno di successo
televisivo, dopo un improvviso calo di consensi, il produttore di “sex &
the city” chiamò lo sceneggiatore e gli diede ordine di introdurre nella storia
la città di Parigi, pena il licenziamento. Grazie a Parigi, la serie aumentò
l’audience del 34%. Quell’anno specifico, circa 25 milioni di americani
andarono a Parigi in vacanza, dove ossessivamente chiedevano di andare a quel
ristorante e quel bar in cui andava Sarah Jessica Parker nella serie tivvù. I
francesi non sapevano neppure di che cosa parlassero, ma si informarono.
Qualche mese dopo, il sindaco di Parigi consegnava all’attrice americana le
simboliche chiavi della città: in un biennio aveva fatto aumentare il flusso
turistico statunitense verso la città di ben 40 milioni di unità, che avevano
prodotto una spesa di circa 60 miliardi di euro consentendo di portare in
pareggio il disastrato bilancio della città..
La seconda frase più famosa
e ripetuta è “I’m not on sale” (non sono in vendita) inconcepibile per una
etnia come quella italiana, basata sulla furbizia e sull’abilità, quindi sulla
vendita immediata di se stessi al miglior offerente.
La terza è “I’m on my way”
(me ne vado per la mia strada); anche questa inimmaginabile per gli italiani,
dato che questo è un paese dove la strada viene segnata e segnalata da qualcun
altro, molto spesso dal proprio partito. In Italia nessuno può andarsene per la
sua strada perché le consorterie hanno costruito diabolicamente una società
composta da strade che sono solo apparenti, in realtà dei vicoli ciechi e per i
più l’unica alternativa è l’ufficio passaporti per l’esilio volontario.
Il cinema, con le loro frasi
e i loro personaggi, ci parlano di noi, descrivono una società come essa è, la
mostrano e ne dimostrano il tessuto subliminale.
Così come fa anche la
letteratura.
In Italia, non più.
L’abbattimento del numero di
lettori in Italia va di pari passo con la proliferazione di gialli, thriller,
romanzi noir e mistery. Tutto ciò che non contiene il rischio di offrire un
panorama esistenziale reale, vivido, vero, autentico, di ciò che le persone
vivono. La “carne” è negata e censurata, così come viene censurata l’idea di
dar vita a personaggi verosimili o rappresentativi dell’autentico umore,
sapore, colore, dei cittadini reali. In tal modo, poco a poco, si spinge sempre
di più il lettore a diventare dipendente da tessiture di trame ordite
dagli editors a tavolino, con libri fatti in serie e
l’abbandono della comunicazione letteraria. Avviene lo stesso con il cinema italiano,
dove la realtà dello scambio sociale attuale non appare mai, se non in forma
caricaturale o raffazzonata. Nessuna persona al mondo, fuori dall’Italia, oggi,
guardando un qualunque film italiano può farsi una idea realistica e legittima
di ciò che sta accadendo nel nostro paese, di come vivono le famiglie, di come
viviamo tutti, di come avviene e si sviluppa lo scambio quotidiano. La stessa
cosa è per i romanzi. Avveniva allo stesso modo negli anni’30 quando sia i film
che la letteratura fornivano l’idea di un’Italia completamente diversa da
quella reale, con due uniche eccezioni: “Gli indifferenti” di Alberto Moravia,
nel 1929 e il film “Il conte Max” di Mario Camerini, del 1936, con Vittorio de
Sica, dove si insinua una certa critica sociale, tenue, leggera ma essenziale.
Basterebbe pensare che in Italia, tra il 1933 e il 1940 sono stati prodotti ben
457 film e circa 800 romanzi di cui non rimane traccia alcuna per il loro
scarso valore e l’interesse nullo delle descrizioni, se non per coloro che si
dedicano alla ricerca storica d’archivio.
Finita la premessa, veniamo
al post di oggi.
Ieri ho visto tre film alla
tivvù (rai) diversissimi tra di loro, eppure tutti e tre legati da un
sottilissimo filo. Il primo è un film italiano del 1959, il secondo un film
italiano del 1978, il terzo un film belga del 2008. Quindi tre epoche diverse.
D’estate la rai tira fuori dai propri archivi vecchi film che ripropone al
pubblico e quindi è possibile vedere (o rivedere) delle pellicole di un tempo
lontanissimo. Quello del 1959 è un film diretto da Leopoldo Trieste “Il peccato
degli anni verdi” con Maurice Ronet, Sergio Fantoni, l’esordio di Raffaella Carrà
(una piccolissima parte) e una indimenticabile Alida Valli. Film in bianco e
nero, è un film con una storia all’apparenza piatta e piuttosto banale. Una
diciassettenne di buona famiglia che frequenta un collegio di suore a Milano
viene sedotta da un maturo ricco rampollo, di professione playboy e poi
abbandonata. Il fatto è che lei è incinta, oltre che anche innamorata. Va da
lui e in preda al furor geloso lo ricatta sotto la minaccia di denunciarlo
essendo lei minorenne. Lui cede e paga firmandole un succosissimo assegno.
Sembra una storia attuale dei tempi nostri. E invece no.
L’idea della sceneggiatura
consiste nel fatto che la ragazza l’assegno non lo incassa. E si fa capire
che non lo incasserà mai. Si rifiuta.
Non ha nessuna intenzione di incassarlo. Vuole che venga riconosciuto e
accettato il suo principio che è sentimentale e non materiale: l’ha fatto per
vendetta d’amore. Si incontrano le famiglie. Due sono le possibili soluzioni,
anzi tre: matrimonio, aborto a Londra, oppure lei ragazza madre (con relativo
scandalo) e lui pagherà per sempre il mantenimento di entrambi. E così si
dipana la storia, mentre sullo sfondo si intravedono gli anni’60 che stanno
arrivando, i mutamenti degli umori, la nascita di un nuovo livello di
consapevolezza. Il playboy rimane turbato, non è un mascalzone, bensì un
farfallone, il che è fondamentalmente diverso e quindi, dopo un po’, si
dichiara disposto al cosiddetto matrimonio riparatore. Ma è la ragazza che non
vuole. Perché parla con la madre. Sono dieci minuti di dialogo e di splendida
recitazione da parte di Alida Valli, nella parte della mamma comprensiva e
accudente, che confessa alla figlia di aver sposato suo padre soltanto perché
lui era ricco e lei era bella e povera, condannando se stessa all’infelicità
perenne. Una Alida Valli meravigliosa, davvero superba, che regala cinque
minuti di travolgente intensità e bravura. E così, le due donne, in una loro
intimità ritrovata, compiono un atto, per quei tempi, davvero inconcepibile.
Mandano a quel paese tutti. La giovane sceglie e decide di andare a vivere
all’estero, lontana, e si terrà il figlio da sola. La madre va con lei.
Scelgono di sottrarsi al meccanismo e insieme vanno per la loro strada. Diciamo
così, una scelta americana.
Il film venne letteralmente massacrato
dalla critica. Non venne censurato perché non ne esistevano le ragioni
tecniche, ma fecero in modo che stesse nelle sale soltanto pochi giorni e
nessuno ne parlasse né dibattesse sull’argomento. Era il finale a sconvolgere
la morale di quell’epoca. Soprattutto l’idea che esistono delle alternative,
basate sulla indipendenza, sull’autonomia del giudizio, su una visione del
mondo non necessariamente basata sul danaro, sulla morale convenzionale,
sull’interesse materiale.
Il secondo film è di venti anni
dopo. Si chiama “Amori miei”, è del 1978 e presenta un’Italia completamente
diversa. Siamo sempre a Milano e sempre nella media-alta borghesia. Regista del
film è Steno (Vanzina padre). Protagonisti Johnny Dorelli, Enrico Maria
Salerno, Monica Vitti, Edwige Fenech. La storia è davvero esile: una donna è
sposata e infelice, ma il marito le sta simpatico e gli vuole bene quindi non
vuole divorziare; così si trova un altro che sposa falsificando i documenti e
diventa bigama, facendo la spola dall’uno all’altro. Rimane incinta e fa in
modo –con dei trucchi- affinchè i due si conoscano e diventino amici, così
possono finire tutti insieme appassionatamente. Quando il film uscì,
soprattutto per il fatto che si avvaleva della presenza della Vitti e di
Salerno, ebbe davvero buone critiche, considerato allora, con aristocratica
bonomia ipocrita, un buon prodotto per le masse, perché “ interpretava gli
umori dei tempi e dell’epoca”. Guardandolo oggi, 35 anni dopo, invece, lo si
legge in tutto un altro modo e saltano agli occhi alcuni aspetti antropologici
che preannunciano l’Italia che verrà. Il film, in verità, è una scusa piatta e
banale per farci vedere la Fenech nuda. Si parla di escort e si presenta il
mondo futuribile dell’Italia che questo film non soltanto preannuncia ma
stimola e vagheggia. Un mondo composto da belle donne sempre nude, vogliose e
disponibili subito, purchè si paghi e molto e prima e in contanti, perché
questo vuol dire essere moderni ed evoluti. Un mondo dove il mercatismo
sostituisce la sentimentalità, la furbizia prende il posto della lealtà, e la
discriminante è tra i conservatori vecchio stampo, ovvero chi crede nell’amore,
nella fedeltà, nella creatività, nella lealtà e i veri progressisti, ovvero chi
aspira ad avere la possibilità di potersi pagare a prezzo carissimo delle
prostitute –nel film vengono chiamate “amiche accompagnatrici”- con mogli
compiacenti purchè ci sia qualcuno che paghi conti salati e vacanze, perché
questo è il senso della vita nella modernità, e nel nome della libertà si
introducono i concetti base del liberismo più deteriore e volgare, basato
sull’idea che le donne sono finalmente autonome, indipendenti, sessualmente
libere (e sempre disponibili) ma a condizione di pagarle molto; e quindi
bisogna far soldi per averle; non vanno rispettate più le regole, ma bisogna fare tanti soldi per poterselo
permettere.
Questa considerazione mi ha
prodotto un pensiero che è, in verità, un’argomentazione usata spesso da quelli del PDL in funzione
filo-berlusconiana, ovverosia: non è vero che Berlusconi ha cambiato l’Italia
involgarendola, annebbiandola, avvilendola, l’Italia era già così, ma non aveva
il pudore di dirselo. Lui ha avuto il “coraggio” o l’abilità di interpretare la
realtà e renderla palese, tutto qui.
Io penso che mai Paul
Newman, Robert Redford e Meryl Streep, o in Gran Bretagna Vanessa Redgrave e
Lawrence Harvey o in Francia Yves Montand e Jeanne Moreau avrebbero mai
accettato di partecipare a una operazione cinematografica del genere. Ma in
Italia sì, e non fu l’unica. Questo fu il primo di una lunga serie che diede
inizio alla promozione di scribacchini al posto di sceneggiatori e di
cinematografari al posto di produttori e di registi. Avvenne proprio in
quell’anno l’inizio della mattanza, ovvero l’acquisto di intellettuali,
artisti, registi, scrittori, attori, giornalisti, che poco a poco hanno
cominciato a imporre il danaro come valore e come parametro al posto di altri
valori. L’anno del delitto Moro. Era un anno quello in cui c’era un governo di
larghe intese, allora definito “governo ad ampio sostegno nel nome della
responsabilità”. C’era un governo DC-PSI-PSDI-PRI con l’appoggio esterno del
PCI, il quale, con la caratteristica ipocrisia della sinistra italiana, consentiva
loro di stare al governo, votare le leggi ma dire ai propri elettori che non ci
stavano. L’unica opposizione veniva dal MSI e dai radicali.
E così cominciò la
compravendita dei talenti e dei pensanti nel nome delle larghe intese, perché
allora –come i quotidiani dell’epoca annunciavano- eravamo in una situazione di
emergenza economica che giustificò tutto. Da allora, poco a poco, iniziò la
deriva. E a poco a poco scomparve prima l’industria cinematografica, poi quella
culturale, e infine spuntò il politico Berlusconi quando ormai i giochi erano stati
fatti.
Oggi, l’industria
cinematografica ed editoriale italiana non ha più mercato.
Pochi mesi prima che questo
film venisse prodotto eravamo ancora leader su entrambi i fronti. “Amori miei”
è, in questo senso, un film antropologicamente interessante.
Il terzo film è un prodotto
belga, del 2008. Si chiama “Il matrimonio di Lorna” ed è stato sceneggiato e
diretto dai fratelli Danderre. Presentato a Cannes nel 2008, ha vinto la Palma
d’oro (meritatissima) per la migliore sceneggiatura, dopo che i due avevano già
vinto per la regia nel 2005 con il film “Les enfants”. E’ un film che si svolge a Liegi e ci
racconta le esistenze vere in Europa alla vigilia della crisi economica che ci
ha travolti. Segue, mostra e racconta il disagio sociale di una giovane 25enne
attraverso una storia lineare che contiene delle originali idee di scrittura
cinematografica. Un film intimista, scuro, quasi claustrofobico, come è la vita
dei protagonisti, con un bellissimo finale poetico pieno di speranze e di
ottimismo sul futuro di tutti noi. Oltre alla vittoria a Cannes, questi due
bravissimi registi/scrittori hanno ottenuto anche un ulteriore (quanto
insperato) importante premio: quello per il migliore prodotto culturale di
diffusione della francofonia. Il premio francese, invece della consueta targa,
medaglia, invito ai talk show e consueta
narcisistica visibilità (inutile) televisiva, è stato un contratto
cinematografico a scatola chiusa per il loro futuro lavoro. I due autori hanno
investito, negli ultimi quattro anni, il cospicuo assegno, per realizzare circa
15 documentari e 10 corti di 15’ ciascuno sui temi del disagio sociale europeo,
da proiettare nei licei francesi per avviare un dibattito pubblico.
Quest’attività ha comportato la nascita di circa 150 micro-aziende di giovani
produttori di materiale visivo per un’assunzione complessiva di circa 3.000
giovani disoccupati specializzati in scienze della comunicazione, scienze dello
spettacolo e attività legate alla produzione di prodotti visivi
multi-mediatici. L’unica condizione posta dal governo francese è consistita
nell’imporre la lingua francese, vietando l’uso di quella belga, fiamminga o
vallone che sia. E loro hanno accettato, ponendo la condizione che venga sempre
specificata la loro nazionalità belga, per impedire di finire come il loro
grande immortale maestro, l’imbattibile Georges Simenon, che il mondo intero
pensa sia francese mentre invece lui era belga e i francesi li disprezzava.
Come ha detto Jacques Chirac nel 2002, quando era presidente, “se in Francia
avessimo avuto nel ventesimo secolo un genio assoluto del teatro come Luigi
Pirandello, a quest’ora, parlerebbero francese in tutta l’Europa”. Una battuta
al fulmicotone. Vera, verissima.
Il primo atto politico della
nuova presidenza Hollande (il vecchio Chirac è suo personale consulente) è
stato quello di aumentare dell’11% il budget di spesa relativo a cultura, arti
visive e multi-mediatiche, innovazione tecnologica, scienza, e soprattutto
diffusione di attività artistiche che diffondano la lingua, il pensiero, le
tradizione della cultura francese. Il primo atto del governo Letta non è certo
stato in questa direzione, in un paese come il nostro che è considerato
dall’Unesco top leader mondiale incontrastato, in quanto sede di insostituibili
e impareggiabili tesori.
Questi tre film sono legati
da un filo sottile e, nella loro diversità, hanno qualcosa in comune e ci
possono insegnare qualcosa.
Il primo film ci spiega
l’humus che di lì a breve avrebbe prodotto la grande stagione del cinema
italiano (1960-1975) che portò l’industria cinematografica nazionale al secondo
posto nel mondo; soltanto a Roma occupava circa 170.000 addetti. Un film che
mostra, inoltre, la differenza tra un film con una grande attrice e un film
senza. I cinque minuti di Alida Valli producono una intensa emozione che
trasforma una esile trama in un delizioso atto politico di denuncia della
morale piccolo-borghese. Nel secondo film nessun attore è in grado di produrre
alcuna emozione nel pubblico, se non il titillamento inevitabile grazie alle
piacevoli forme fisiche della Fenech. Chi ha costruito quel film, dando inizio
a un trend, ha compiuto un atto politico selezionando a tavolino dove e come
fosse necessario provocare delle reazioni emotive nello spettatore. Un film che
preannuncia la Grande Stagione Italiana delle tette e dei glutei, della
promozione di cretineria e furberia, del definitivo abbattimento di
qualsivoglia riferimento culturale. Un film pedagogico: ha insegnato agli
italiani ciò che dovevano fare ed essere. E gli italiani hanno appreso la
lezione.
L’ultimo film, mostra e
dimostra il ritorno in Europa de “il privato è politico” lanciando un trend di
tradizione che sta furoreggiando in tutto il continente con la totale latitanza
della nostra nazione.
Di questo bisognerebbe
parlare in parlamento.
Meglio di no.
Sarebbe inutile: nella
migliore delle ipotesi si finirebbe per ottenere dei soldi che andrebbero
gestiti dai partiti che finirebbero per promuovere le loro clientele. Meglio
non eccitare il loro appetito potenziale.
Ma qualcosa è necessario
fare: per esempio, costruire un fronte compatto di produttori creativi e
rivolgersi ai settori più avanzati del mondo imprenditoriale al fine di
promuovere attività che creino lavoro, occupazione e consentano di far
ripartire il paese. E’ nel loro interesse, è nel nostro, è nell’interesse
dell’intera collettività.
Soprattutto dal punto di
vista culturale. Che diventa automaticamente politico e quindi esistenziale.
Non è certo un caso che la
grande mattanza è iniziata proprio sulla cultura.
Il resto è stata una ovvia
conseguenza.
Se scegli di nutrire un
paese a forza di glutei e tette, nel momento in cui arriva sulla scena il più
grosso produttore di questi elementi, il paese è pronto ad abbracciare il suo
pusher culturale.
Dobbiamo liberarci da queste
psico-droghe.
Caro Sergio,
RispondiEliminatu mi ricordi mia nonna materna,analfabeta,ma argutissima.
Soprattutto la ricordo,vestita nei suoi fagotti tradizionali,lucani,setacciare metodicamente il campo di grano duro,senatore Cappelli,che quasi circondava il nostro minuscolo borgo ,nella Capitanata,il granaio d'Italia.Allora.
Lei ""spigolava"" a velocità incredibile ,riempiendo il sacchetto che le pendeva su un fianco,di sghimbescio,per non ostacolare quella meravigliosa operazione di raccolta.Importantissima soprattutto per la sopravvivenza del pollaio di nonna.Incitandomi ad imitarla.
Tu le assomigli molto.Con la stessa arguzia e destrezza,spigoli qualsiasi campo,con poca simpatia per i numeri,ma facendoli quadrare quasi sempre.
Invariabilmente ,vivaddio,riempi il sacchetto necessario alla sopravvivenza della gioia del pensiero non compulsivo.
Leggi e dipani i fili sottili ed ingarbugliati che ,come indistruttibili ragnatele,assediano ,strozzandolo ,il nostro essere.La nostra possibilità di visione.
Rendendo visibile,l'occultato.
Cerchi di liberare il pensare incatenato,impedito dal bisogno compulsivo di una qualsivoglia droga ,che si aggiunga all'alcool,alle sostanze stupefacenti,agli antidepressivi e tranquillanti.Così stigmatizzi la berluscanizzazione,che ha prodotto una vera e propria devastazione della bellezza,quell 'osceno che ha ecclissato l'erotico.E con esso l'eros e l'eroe.
Con la complicità di una sinistra non intellettuale becera come mai storicamente fu,ed una sinistra itellettuale divenuta intellettualoide e venduta al miglior offerente.
Esclusi i meravigliosi uomini " non in vendita".
Come te e quelli che ,vera spina dorsale del Paese,tenacemente,contro qualunque tentativo di abbattimento od occultamento, restano consapevoli e desti,risvegliando le coscienze drogate.
Grazie per aver ricordato l'affermazione amaramente vera e profetica di Giorgio Gaber,e per rendere questa estate una esperienza arricchente.A.
Ti ringrazio sentitamente: l'idea di essere stato accorpato a una saggia contadina mi onora davvero. Grazie!
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RispondiElimina<<..>> La seconda cosa che ti succede quando vai al cinema è che te vai al cinema a vedere un film sulla rivoluzione, vieni fuori che ti sembra di aver fatto la rivoluzione. Allora, dopo, vai a casa come uno che ha appena fatto la rivoluzione. Cosa deve fare, uno che ha appena fatto la rivoluzione? Niente. Va a letto. A riposarsi. Che te hai un bel dire, dopo, Scantatevi, che vi stanno sfruttando. Che fate una vita di merda, scantatevi. Quelli ti guardano come se loro fossero Robespierre e Marat. E tu, un deficiente. Ti guardano come si guarda un matto. Loro, convinti di aver fatto la rivoluzione, pensano che sei tu, il matto. Li senti, come dicono Ho visto il film su Sacco e Vanzetti? Lo dicono come se fossero andati in America a bruciarsi davanti al tribunale, per Sacco e Vanzetti.
E la letteratura?
La letteratura no. La letteretara, ti sveglia. Ti fai delle domande, con la letteratura. Che li ho visti, gli studenti di russo del secondo anno. Si vedeva, da come entravano in facoltà, che avevano appena letto "Delitto e castigo". Si vedeva, da come piegavano la testa, che pensavano Ma io, sono un insetto? Cosa farò, io, nella mia vita? Una vita da cimice o da Napoleone? Dopo, di solito, si scordano. Fanno carriera. Al massimo fondano un cineclub, dopo. <<..>>
di Paolo Nori da "Bassotuba non c'è", DeriveApprodi; 1999.
akueo
splendida citazione
EliminaÉ da un po' di tempo che penso le stesse cose. Vedo films dove l'eroe combatte, contro tutto e contro tutti, contro la sfiga, contro il tempo, contro la qualsiasi. Poi alla fine vince, e se muore lo fa dopo aver vinto, e se muore senza aver vinto lascia qualcosa ai sopravvissuti perchè vincano loro anche per lui. Poi sotto le coperte se è inverno, altrimenti sopra il lenzuolo d'estate, prima di addormentarti pensi che è così che si deve fare, ed è così che farai... da domani. La mattina dopo ti alzi e aspetti che arrivi la sera per imparare, dal prossimo eroe, come sarà il tuo domani.
EliminaÉ da un po' di giorni che ho deciso di alzarmi presto, non che mi alzassi tardi, ma ho deciso di alzarmi un po' prima così da rubare tempo alla sera che è l'ora tipica in cui appaiono i miei eroi.
Straordinario 'sto blog, Sergio.
Splendido post. Condivido in pieno.
RispondiEliminaA me il ritiro in campagna dell'attuale governo prima dell'insediamento, mi ha fatto subito pensare a Todo Modo di Elio Petri.
Mentre proporrei una frase dei Kinkaleri, gruppo teatrale di Prato che considero una delle attuali eccellenze del panorama culturale contemporaneo italiano. La frase è: "Is it my world?".
http://www.kinkaleri.it/
Grazie Sergio
e grazie Kinkaleri
MM
Concordo; il gruppo Kinkaleri è un'ottima realtà tutta nostra
EliminaSalve, mi scusi se vado fuori tema, ho letto con piacere alcuni articoli che ha pubblicato in merito a Papa Francesco, mi interesserebbe sapere cosa ne pensa di questo articolo:
RispondiEliminahttp://coscienzeinrete.net/politica/item/1414-arrestato-un-alto-prelato-sta-veramente-cambiando-qualcosa-il-colpo-di-stato-va-avanti-bene,-ma…
Grazie
sì conosco le argomentazioni di Carotenuto; io preferisco sottrarmi alla teoria complottista e pensare che stiamo in mezzo a una lotta tra predatori e uomini liberi, e che in tale lotta sono tutti trasversali: il mondo è complesso, è per questo che non è facile districarsi
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