giovedì 26 gennaio 2012

Vent'anni fa esplodeva Tangentopoli. Un giornalista de L'Espresso pubblica un libro intervistando De Benedetti. Sembra una favoletta per gonzi. In realtà lo è.

di Sergio Di Cori Modigliani

Vent’anni fa esplodeva Tangentopoli.

Un giornalista professionista de L’Espresso, Marco Damilano, ha appena pubblicato per l’editore Laterza un libro “Eutanasia di un Potere” nel quale racconta la storia di quei giorni intervistando a lungo l’ing De Benedetti.
Ne viene fuori un sorprendente racconto sulla fine della Prima Repubblica e sono piuttosto interessanti le continue confessioni di De Benedetti al suo giornalista, dalle confidenze di Gianni Agnelli all'incontro con Bossi ("Gli chiesi: "Voglio sapere da lei una sola cosa, dove lo mette il debito pubblico?" Mi rispose: "A Roma". Capii che non valeva più la pena di parlargli"), dalla guerra sulla Mondadori: ("Andreotti mi chiamò a Palazzo Chigi e mi disse: "Che cosa perdete tempo e soldi con gli avvocati? Ci pensiamo noi. Quando lei uscirà da questa stanza troverà nell'anticamera chi le può dare una mano". Uscii, ad aspettarmi c'era Luigi Bisignani".)  ai giudizi davvero spiazzanti: ("Consideravo Craxi un bandito con atteggiamenti fascistoidi. "Guardi", ti diceva, "lei di politica non capisce un cazzo". Ma negli anni Ottanta era difficile dargli torto nell'esigenza di modernizzazione del Paese").per arrivare all’analisi delle inchieste che travolgono l'intero establishment: "All'improvviso è crollato il sistema delle alleanze. Ognuno ha cominciato a giocare per sé perché ognuno aveva la coscienza sporca. Ci siamo trovati di fronte a Di Pietro che faceva paura. Cos'è rimasto di Tangentopoli? Niente. La bufera è passata. E in questa Italia immutabile, a lungo ha vinto Berlusconi"".

Così finì la Prima Repubblica


Ecco come l’editore presenta il libro:

Nel 1992-93, sotto la spinta degli avvenimenti, Tangentopoli appare una rivoluzione. La fine della Repubblica dei partiti, nata con la Costituzione del 1948, degenerata e affondata nella paralisi e nella corruzione. Un potere che sembrava eterno entra all'improvviso in agonia e cade in modo drammatico, tra arresti, cappi sventolati in Parlamento, attentati sanguinosi. Un crollo senza paragoni nelle democrazie occidentali che nei decenni successivi trova due narrazioni contrapposte. La prima recita: c'era un sistema che ben governava, un colpo di Stato architettato da forze oscure tramite le inchieste dei pm lo ha ferito a morte... La seconda replica: c'era un regime corrotto, arriva un pool di giudici buoni con un pm venuto dalle campagne a spazzarlo via... Oggi, a vent'anni dall'inizio di Mani Pulite, è possibile finalmente uscire dalle aule di tribunale e provare per la prima volta a scrivere la storia politica di quella classe dirigente e della sua rovina. Ripercorrere le scelte dei protagonisti dell'epoca: Graxi, Andreotti, Forlani, Gossiga, Agnelli, Gardini. Le voci dei testimoni, da Antonio Di Pietro a Carlo De Benedetti. I giornali, le trasmissioni, i film, la satira, le canzoni che accompagnarono la rivolta. Gli eroi, i barbari, i suicidi, i gattopardi. Per capire perché la rivoluzione giudiziaria non sia stata accompagnata da un vero cambiamento politico, istituzionale, morale. E perché abbia lasciato il posto all'avvento di Silvio Berlusconi.


L’aspetto più bello e interessante di questo libro consiste nella parte mancante, ovvero ciò di cui non parla.
Dopotutto De Benedetti è proprietario de L’Espresso ed è il datore di lavoro del giornalista che ha scritto il libro, ma che –naturalmente- vuole farci credere che è indipendente e libero da legami con il potere che conta.

Ma è un segno dei tempi.

Di originale ci sono alcune frasette di De Benedetti che sono un cibo gustoso per gli amanti del gossip politichese-finanziario, certamente non per chi ha bisogno di informazioni, ovverossia chi vuole sapere che cosa “stava per fare” Tangentopoli e “che cosa non è riuscito a fare” determinando la situazione nella quale noi ci troviamo, oggi, vent'anni dopo.

Pur raccontando –tra le righe, senza mai far nomi, per carità- che per evitare un totale vuoto di potere la magistratura evitò di allargare le indagini coinvolgendo i membri del partito comunista che erano stati collusi con il potere democristiano e socialista, il libro non spiega l’unico aspetto che poteva essere interessante: perché si sono fermati.

Ancora una volta viene offerto il consueto mito di un Bettino Craxi “cattivo e corrotto”, di una democrazia cristiana allo sbando, senza raccontare i cadaveri nell’armadio dentro i forzieri di Botteghe Oscure. C’è solo un tiepido accenno. Ed è bastato quello per far insorgere la vecchia guardia del PCI. Tant’è vero che una delle sue personalità più rappresentative, Emanuele Macaluso, che era stato direttore de L’Unità si è sentito subito offeso e ha scritto sul giornale che oggi dirige “Il Riformista”, un pezzo nel quale smentisce –il che è clamoroso- le tre righe nelle quali De Benedetti spiega come “Scalfari determinasse la politica del PCI”.

Ecco il suo commento:

De Benedetti
e i partiti

di Emanuele Macaluso
Ieri il Fatto ha pubblicato una pagina con le anticipazioni del libro di Marco Damilano, Eutanasia di un potere, consistenti nell’intervista data da Carlo De Benedetti all’autore.
Ne parlo nell’editoriale di questo giornale perché affronta un tema, il rapporto tra partiti e Poteri più o meno forti, cui parla l’editore dell’Espresso e di Repubblica, riferendo fatti che si sarebbero verificati negli anni settanta-ottanta. C’è un pezzo dedicato a Craxi che l’ingegnere considerava «un bandito con atteggiamenti fascistoidi» a cui però negli anni 80 era «difficile dare torto nell’esigenza di modernizzazione», parla delle tangenti che lui e altri erano «costretti» a pagare all’amministratore del Psi, Balzamo. E accenna come cinicamente Craxi si fece largo tra Pci e Dc. Racconta anche di una riunione, fatta in casa Formenton con il ministro democristiano Marcora, «con Pirelli, Lucchini, Romiti e l’establishment milanese» per discutere la candidatura a segretario della Dc di De Mita. Il quale - udite! udite! - quando fu eletto «chiamava Scalfari tutte le mattine: c’era una sudditanza impressionante…». E chiarisce: «Scalfari pensò di potere gestire De Mita e, attraverso di lui, la Dc. Fino a quel momento aveva provato a gestire il Pci e c’era riuscito». Il Pci di cui si parla era quello con Berlinguer segretario. Chi conosce la storia di quel partito sa bene che questa influenza scalfariana sul Pci fu certo tentata (ne ho parlato anche su queste colonne ricordando le mie polemiche col fondatore di Repubblica negli anni in cui dirigevo l’Unità), ma è ridicolo pensare che Scalfari «gestisse il Pci». Non gestì nemmeno la Dc, anche se ebbe un rapporto forte con De Mita. Dc, Pci e Psi erano partiti forti con un rapporto con i loro iscritti ed elettori, e non potevano essere «gestiti» da altri.
Tuttavia, ecco la ragione per cui scrivo questo editoriale: un ricco signore che in passato, e ancora oggi, esercita un “potere forte” nel mondo economico e in quello dei media, manifesta una concezione padronale della politica, al punto da ritenere che Scalfari (cioè il suo gruppo) «gestisse» la Dc e il Pci.
Il tema, però, è di grande interesse: non solo da un punto di vista storico, ma politico e attuale. In questi anni abbiamo avuto un partito padronale che ha governato il paese. E l’ha governato con la politica e con enormi mezzi usati anche per ottenere, e mantenere, un alleanza (la Lega) e un potere nel mondo dell’economia e dei media.
È il caso più evidente e clamoroso, anche perché a un certo punto, nel cuore di una crisi politica, Berlusconi ha operato senza mediazioni, direttamente e personalmente. Ma altri non sono rimasti con le mani in mano come si usa dire. Non penso che il gruppo De Benedetti, in questi anni, abbia «gestito» il centrosinistra, ma l’opera per fornirgli una cultura politica, e a volte di suggerire comportamenti e iniziative, non è mancata.
I partiti oggi sono fragili, i gruppi dirigenti deboli per acquisire e mantenere una forte autonomia. Ma il problema posto, quello del ruolo dei partiti e del loro rapporto con i poteri più o meno forti, è aperto. Anche perché nonostante la crisi un partito con un forte padrone c’è ancora.


Il Libro in questione appartiene alla tradizione del giornalismo asservito italiano.
E’ l’ennesima occasione persa. Ma non covavo certo né illusioni né aspettative.
E’la descrizione fatta a metà, l’analisi di parte, l’auto-censura preventiva che finisce per scontentare chiunque abbia fame di verità, ed essere di gradimento soltanto a quei personaggi che allora, con sconcertante abilità camaleontica, riuscirono a riciclarsi sostenendo di rappresentare un’alternativa al potere che Tangentopoli voleva abbattere per sostituirsi in maniera più subdola e più nascosta dei predecessori. Praticando lo stesso stile di vita. E di politica.
Come abbiamo visto dai risultati, anche più micidiale.
Leggerlo o non leggerlo è uguale.
Non c’è una informazione, una notizia originale, un’idea. Nulla.

Ne parlo qui perché lo considero un prodotto interessantissimo della Surrealtà del Paradosso in cui viviamo: un giornalista della cosiddetta opposizione scrive un libro sulla stagione di Tangentopoli, vent’anni dopo, presentando una realtà dell’Italia come se, dal 1993 a oggi, la nostra nazione sia stata lanciata verso una stagione nuova abbattendo e abolendo i privilegi, le ruberie, la corruttela.
Leggendo questo libro si è portati a pensare (è l’obiettivo dichiarato dell’autore) che la cosiddetta prima repubblica finì ed esplose travolta dalla corruzione di pochi, per dar vita a una seconda repubblica che aveva imparato la lezione politica, e che ha consentito un’Italia diversa.

Ma dove vivono i colleghi de L’Espresso?
Capisco perché a loro piaccia Mario Monti.
Capisco perché Silvio Berlusconi ancora gongola.
Capisco, oggi, perchè PDL e PD firmano mozioni a firma congiunta.



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