di Sergio Di Cori Modigliani
In memoriam.
sottotitolo:
"quando
l'Italia era davvero un grande paese e sapeva aprirsi i mercati mondiali a
colpi di qualità, creatività, abilità, gusto.
Ma
soprattutto: imbattibile talento".
E' morto
Franco Zeffirelli.
Aveva 96
anni.
I giovani
millennials di oggi, è molto probabile non sappiano neppure chi fosse.
E leggendo
la valanga di elogi funebri ci si può fare l’idea di un artista molto famoso,
pluripremiato dovunque, da noi (in Italia) accettato perché famoso, ma inviso
alle direzioni galattiche della cultura gestite dalla sinistra festivaliera.
Macchiato di indelebile colpa mediatica (non era di sinistra e detestava la
cultura di massa) era stimato e riverito fino all’inverosimile molto di più all’estero
che non in patria, dove –caso più unico che raro- non era accettato di buon
grado neppure dalla destra, poiché detestava Berlusconi e aveva definito
Gianfranco Fini “un cameriere che, secondo me, non sa neppure servire il thè”.
Se si parla
della sua vasta e ricca produzione oggi, si corre il rischio di essere
riduttivi e ridondanti: ha lasciato la sua indelebile firma dovunque.
E comunque.
Io lo voglio
ricordare oggi, condividendo con voi uno specifico momento della sua
prestigiosa e lunga carriera, che è anche una citazione biografica, ma
soprattutto una memoria di quando l’Italia era ancora una grande potenza
economica che sapeva (e poteva) imporre nel mondo il prodotto made in Italy,
grazie alla nostra migliore e imbattibile qualità, quella che stiamo perdendo
giorno dopo giorno: il plusvalore della migliore sintesi europea tra
competenza, talento, creatività e cultura dell’impresa.
L’evento cui
mi riferisco si è verificato nella terza settimana del mese di settembre dell’anno
1997.
A New York,
nel cuore della Manhattan che allora contava.
Era un anno
decisivo. Ci si stava lanciando verso la globalizzazione e l’industria tessile
cinese e l’industria della moda statunitense avevano deciso di scendere in
campo in maniera massiccia lanciando la sfida (nel tessile) all’Italia e (nella
moda) a Parigi e Milano, le uniche due capitali che contavano. A Manhattan, in
quel mese, si stava svolgendo la fiera mondiale del tessile, e
contemporaneamente la settimana della moda, la prima veramente importante per
gli Usa.
Stavano
tutti a New York.
Allora
abitavo a Manhattan e lavoravo come giornalista; tra le mie varie
collaborazioni ce n’era una per un meraviglioso settimanale del gruppo Rizzoli
(“Il Mondo”) che non esiste più dove mi occupavo di geo-politica e cultura d’impresa.
Quel giorno,
un mercoledì mattina, avevo un appuntamento alle ore 12 all’Ice (Istituto
Italiano del Commercio con l’Estero) con il responsabile organizzativo dell’ente.
Lo dovevo intervistare su due argomenti che avevamo già concordato: che cosa
stava facendo l’industria della moda e del tessile italiana per vincere la
concorrenza sia degli americani sia della novità cinese, e come l’Italia
intendeva gestire l’immagine del proprio paese all’estero per mantenere la
propria indiscussa leadership nel settore.
Era una
splendida mattina di autunno, soleggiata, un po’ ventosa, il momento climatico migliore
per passeggiare a New York. Poiché avevo delle piccole commissioni da sbrigare
(posta, banca, commercialista) ero uscito di casa molto presto per evitare di
arrivare tardi. Ero invece in netto anticipo. Alle 10.45 avevo già finito le
mie incombenze. E così, invece di prendere il solito taxi, decisi di andarci a
piedi attraversando il centro della città. Uscendo dall’ultimo appuntamento, a
pochi metri da lì, vedo uscire una coppia molto elegante che aveva in mano una
bandierina tricolore dell’Italia. L’immagine non mi colpì più di tanto. Dopo un
centinaio di metri, vedo uscire da un lussuoso condominio un gruppo di giovani,
vestiti molto alla moda, e tutti con una bandierina tricolore italiana che
sventolavano con aria allegra e rumorosa. Mi sembrò davvero una curiosa
coincidenza. Dopo dieci minuti, vedo la stessa scena con altre persone e dopo
cinquecento metri, passando per caso davanti alla celeberrima agenzia di
modelle Ford, vedo un nugolo di splendide ragazze ciacolanti che sventolavano
delle bandierine tricolori italiane in attesa che arrivasse il pullmino
limousine. Evidentemente, pensai, è accaduto (o sta accadendo) qualcosa che io
non so. Accelerai il passo e il numero di persone che camminavano agitando
bandierine tricolori italiane aumentava sempre di più. Morivo dalla curiosità
di sapere che cosa stesse accadendo e quindi feci gli ultimi 200 metri quasi di
corsa (a New York è normale, tutti corrono da qualche parte) per andare all’Ice
e chiedere che cosa stesse accadendo. Arrivai con un anticipo di circa mezz’ora.
Mi presentai alla segretaria e il direttore arrivò immediatamente. Portava con sé
un voluminoso pacco malamente incartato. “Meno male che è qui in netto
anticipo, è fantastico. Volevo avvertirla ma non sapevo come fare; l’ho
chiamata a casa ma lei era già uscito”. Mi prende per il gomito e mi spinge
verso l’ascensore. “Andiamo su, abbiamo fretta, dobbiamo correre”. Arriviamo
giù al pianterreno e senza darmi il tempo per parlare mi spinge verso l’esterno.
“Dobbiamo andare a piedi, è qui vicino, non più di 500 metri. E’ una sorpresa.
Si fidi. Non faccia domande. Vedrà, vedrà!”. Lo seguo morendo dalla curiosità.
Arriviamo nella zona del cosiddetto “garment centre” un mini quartiere dove
sono concentrati tutti i magazzini, depositi, show room, di imprese e aziende
operanti nel tessile. Arriviamo a un incrocio e giriamo per un vicolo. Entriamo
attraverso una porticina di ferro pesante e saliamo su un enorme ascensore monta-carichi.
“noi stiamo su, al 24 esimo piano, e un piano più su c’è la terrazza dove
stiamo andando”. Una volta arrivati,
entriamo in un gigantesco loft, circa 400 metri quadri, pieno zeppo di casse di
legno, la maggior parte delle quali erano aperte con una trentina di persone
che andavano avanti e indietro prendendo i pacchi che c’erano dentro e
portandoli verso un altro ascensore. “Questo è il nostro deposito, è proprietà
del consolato, quindi siamo già in Italia. Qui arrivano tutte le merci degli
espositori sia della fiera che delle sfilate di moda. Paghiamo tutto noi,
abbiamo organizzato tutto noi”. Attraversiamo parte del loft e il direttore
apre una piccola e pesante porta di ferro chiusa con pesanti chiavistelli.
Oltre la porta c’era una scala a chiocciola. Ci inerpichiamo per la rampa e
arriviamo sulla terrazza del palazzo. Usciamo all’aperto e il direttore mi fa: “Ha
letto il Times, oggi?”. Gli rispondo “non ancora”. Prende il pacco voluminoso e
lo appoggia per terra, lo apre e tira fuori due grossi involucri di pelle, dei
porta binocoli, sui quali era stampato lo stemma della repubblica italiana. Prende una copia del giornale e me lo mostra. “Guardi
qui, prima pagina” e mi mostra un articolo il cui titolo era “When Italians
bring us to Paradise: the way things must be done” (trad.: “Quando gli italiani
ci portano in Paradiso: questo è il modo in cui le cose vanno fatte”). Ed era
un lungo articolo sulla prima al Metropolitan Opera House della Turandot di
Puccini. Tenore: Luciano Pavarotti; regista, costumista e scenografo: Franco
Zeffirelli; direttore d’orchestra della New York Symphonic Orchestra: Riccardo
Muti. Era una lunghissima dichiarazione d’amore per il Bel Paese, con una
speciale aggiunta relativa alla impeccabile e sontuosa messa in scena di
Zeffirelli, la descrizione dei tessuti usati, il perché, da dove provenivano,
chi li produceva, chi ci lavorava. Quella Turandot venne definita “la vetta
sublime dell’arte del melodramma, coniugata al canto e alla direzione musicale
prodotta da una nazione che oggi è leader nel mondo per gusto, cultura e stile”.
Il direttore
mi strappa il giornale mentre sto leggendo. Mi mette in mano uno dei due porta
binocoli. “Avanti su, è l’ora, andiamo”. Apro il contenitore di cuoio e tiro fuori
un binocolo. Lui si avvia verso la fine della terrazza che dava
proprio sulla Fifth Avenue,
l’arteria
che attraversa il centro di Manhattan. Una folla enorme di persone assiepata dietro
le transenne, agitando le bandierine tricolori italiane. Il direttore guarda l’orologio
“Ecco, stanno arrivando”. Sbuca da una curva una limousine scoperta dentro alla
quale c’era il sindaco di New York che saluta con la mano. Dietro di lui un’automobile
scoperta con il comandante dei vigili che saluta. Poi una ventina di poliziotti
in motocicletta e infine, molto lentamente arriva una grande limousine
scoperta. Davanti, accanto al guidatore, Luciano Pavarotti, in piedi, la mano
sinistra al tergi-cristallo, e l’altra che sventola un fazzoletto bianco salutando.
Dietro, seduti, Riccardo Muti, immobile come una statua di pietra e Franco
Zeffirelli con gli occhi gonfi come due cocomeri che piangeva spudoratamente
con una copiosità che non pensavo potesse esistere. Dalle motociclette dei
poliziotti c’erano degli altoparlanti che diffondevano l’aria “nessun dorma”.
La
gente sembrava impazzita.
Il
direttore aspetta che l’automobile sia sgusciata via, mi tocca il braccio e mi
fa: “Questa è la risposta per l’intervista. Questo è ciò che facciamo e come lo
facciamo. Questa è l’Italia: tre artisti, uno settentrionale, uno centrale e
uno meridionale che hanno messo su tutto ciò. Oggi, l’Italia che produce ha
Manhattan e il mondo che conta ai propri piedi, in adorazione. Grazie a loro
stiamo ricevendo ordini e prenotazioni superiori del 350% alle più rosee
previsioni. Abbiamo fatto un rapido calcolo: tutto ciò produrrà almeno un 10%
del pil nel 1998. Questo gigantesco casino l’ha messo in piedi Franco
Zeffirelli. Sono 4 mesi che sta qui a
rompere i coglioni a mezzo mondo, ci ha fatto diventare matti, ma valeva la
pena. Pensi che ha fatto venire da Prato e da Arezzo 25 giovani operaie per far
cucire a mano le gonne delle figuranti con tessuti molto pregiati non facili
certo da vendere. Le sei aziende che producono quei tessuti, tutte qui
presenti, hanno ricevuto ordini per il prossimo triennio e hanno già chiuso perché
più di così non si può vendere. Eccolo, il nostro plusvalore. Ecco come si fa”.
In
memoriam per la morte di un grande maestro.