venerdì 3 marzo 2017

Siamo un paese di schiavi o di schiavisti? Forse entrambi. Così collassa la democrazia. NOCAP


di Sergio Di Cori Modigliani


Uno spettro si aggira per l’Europa: è lo spettro di Ivan Karamazov.

Dalla cima impervia di quell’Olimpo surreale che sovrasta la culla del Sapere europeo, dove vivono i grandi eroi che nei millenni hanno forgiato, alimentato e prodotto l’immaginario collettivo del nostro continente, dove abitano per l’eternità i personaggi letterari nati dal talento e dal genio dei grandi artisti, si erge, al di sopra di tutti, il più inquietante fantasma mai inventato. Il suo grido, strillato a squarciagola nel lontano 1881, oggi più che mai ci ammonisce sulla imminente caduta dell’Europa e ci ricorda chi siamo, da dove veniamo. 
E di conseguenza, quali prospettive si aprano per il nostro immediato futuro.

“Se tutto è assurdo, allora tutto è lecito, ogni cosa è permessa”.

L’urlo disperato di Ivan Karamazov, nato dalla sublime penna del più grande romanziere che l’Europa abbia mai prodotto, Fedor Mickailovitch Dostoevskij, ci ricorda quale immane tragedia sia vivere in un mondo ormai privo di un significato di riferimento. Un mondo, quello nostro attuale, dal quale è stato sottratto il Senso e dove la realtà quotidiana è stata sostituita da una surrealtà imposta dall’oligarchia imperante, squallida impiegata al servizio di una fumosa comunità di finanzieri sovra-nazionali senza scrupoli, il cui piano politico strategico consiste nel definitivo abbattimento delle immense conquiste sociali, esistenziali e culturali, ottenute a fatica dalle quindici generazioni che ci hanno preceduto. Una vittoria, questa,  della quale ogni singolo europeo è andato giustamente sempre fiero, consapevole di aver raccolto la doviziosa eredità tramandata negli ultimi 300 anni da pensatori, filosofi, scrittori, scienziati, artisti che, dai tempi di John Locke e Voltaire, hanno posto le basi per fondare la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” nata dalla rivoluzione francese. Quei tre pilastri della compassione sociale, dell’intelligenza politica e dell’evoluzione psicologica, che sono e rimangono tuttora l’autentico fondamento della nostra cultura: la Libertà, l’Uguaglianza e la Fratellanza, sono stati il fondamento del Diritto Civico dell’Europa che ha dato vita alla democrazia politica. 
Per tre lunghi secoli i cultori dell'oligarchia hanno tentato di proporre un modello di scambio e un contratto sociale che veicolasse un'idea del mondo basata sull'assunto che esiste una classe superiore di indivudi, prescelti e selezionati per nobiltà di sangue, provenienza di censo, appartenenza a consolidate famiglie della burocrazia politica partitica attraverso la fondazione delle dinastie familiari legate ai partiti, i quali vanterebbero un privilegio acquisito tale da consentire loro la liobertà di poter decidere, gestire, amministrare, stabilire, legiferare e, quindi, determinare, la modalità esistenziale della vita di centinaia di milioni di persone.

La posta in gioco, oggi, è la più alta in assoluto mai giocata in Europa dal 1712.


L’obiettivo politico di questo sistema di potere consiste nell’allargare sempre di più la proletarizzazione sociale in modo tale da garantirsi un prezzo sempre minore dei servizi, un valore sempre minore del salario, l’allargamento sempre maggiore del bisogno producendo “totale dipendenza” (come nel caso della cocaina e del gioco d’azzardo) per avere accesso quindi alla possibilità di procurarsi manodopera a un prezzo sempre più basso, e così poter produrre la gigantesca mole di merci necessaria per garantire la sopravvivenza dei nuovi schiavi.



Tutto ciò, per commentare la più importante notizia del giorno in assoluto. Non riguarda nè Renzi nè Verdini, nè Grillo nè Salvini, nè lo stadio della Raggi nè i tesserati del PD. 

Riguarda la morte di due esseri umani, la fine di due esistenze disperate, di due schiavi, giovani del Mali che vivevano (si fa per dire) nel cosiddetto "Ghetto del Gargano" un luogo indegno, in provincia di Foggia, che serve come deposito umano di esseri che i caporali -al servizio degli agricoltori rapaci- usano a seconda delle loro esigenze lucrando ignobilmente sulla disperazione umana.  
Perchè in Italia esiste lo schiavismo.
Esiste la schiavitù.
Sotto gli occhi di tutti, e non è più accettabile non prenderne atto e non affrontare la questione.
La morte dei due schiavi maliani ci riguarda tutti. Nessuno escluso.
Non si può voltare la faccia dall'altra parte.

Di solito, a questo punto, sottolineo la latitanza censoria della stampa cartacea.
Questa volta, invece, è il contrario.
E' il web a non parlare più di tanto della indegna questione, mentre sul cartaceo abbondano ottimi servizi che raccontano la verità dei fatti.  Il web e i social stanno diventando sempre di più soltanto delle utili piattaforme propagandistiche a uso e consumo di militanti e attivisti partitici, per tirare la volata a questo o quel leader, a questo o quel logo.
La situazione si è paradossalmente capovolta rispetto a quella che era nel 2011.

Qui di seguito un breve pezzo di un giornalista (non famoso) pubblicato sul corriere della sera oggi e poi diffuso in rete sul sito on line del quotidiano milanese.

Impone delle riflessioni dalle quali non possiamo sottrarci. 

          La Schiavopoli del Gargano
      Di là le spiagge e il divertimento
      di qua solo sfruttamento

Nel Gran Ghetto di Rignano, nella provincia più calda d’Europa, vivono in estate 3mila centroafricani provenienti da Senegal, Mali, Burkina Faso: schiavi dei campi e schiave degli uomini. Nella Casbah delle baracche, tra bar e market, tutto è gestito dai caporali


C’è un promontorio che divide il bene dal male, a Rignano Scalo. Un promontorio di nome Gargano: di là le spiagge e il mare che, insieme a quelle del Salento, fanno della Puglia una tra le regioni più glamour per il turismo. Di qua, nell’entroterra, una Schiavopoli che resiste da più di 20 anni. La chiamano Gran Ghetto, per distinguerla dalle altre schiavopoli sparse nel Tavoliere delle Puglie, la più grande pianura italiana dopo la Padana, in particolare dal Ghetto dei bulgari, quello dei bianchi. Il primo a Nord di Foggia, nel territorio del Comune di San Severo, il secondo a Est, in territorio di Manfredonia.
Il Gran Ghetto è la città degli incubi. Schiavi dei campi e schiave degli uomini vivono lì. Per fortuna — unica consolazione — nel ghetto dei neri non ci sono bambini. Chissà, forse perché ai caporali non è venuta ancora in mente un’idea per sfruttarli al meglio. Circa 3mila persone nel periodo estivo, quello della raccolta dei pomodori da luglio a settembre, qualche centinaio di abitanti — fino a 700 — in inverno, per raccogliere broccoli e finocchi. Provengono dall’Africa centrale: Senegal, Mali, Burkina Faso. Gli schiavi dei campi, gli uomini, sono sfruttati per la loro forza. Il listino prezzi, per i braccianti africani e neo-comunitari (complessivamente ventimila nella provincia di Foggia a fronte dei quattrocentomila a livello nazionale) è identico: il trasporto con il furgone costa cinque euro a testa e per ogni cassone da tre quintali — pagato 4,5 euro — il caporale trattiene cinquanta centesimi. Nei furgoni — nel caldo della provincia più torrida d’Italia (fino a 47 gradi in estate, soltanto Siviglia e l’Andalusia in Europa raggiungono quelle temperature) — si stipano anche in venti: considerando che ogni bracciante riesce a riempire fino a quindici cassoni, il caporale incassa per ogni trasporto 250 euro al giorno (100 per il trasporto e 150 per il “pizzo” sui cassoni. Spesso riesce a farne due, di viaggi, e l’incasso arriva a 500 euro. E se il lavoro abbonda, paga un autista 50 euro e per ogni viaggio aggiuntivo incassa altri 200 euro.

Le poche donne presenti nel Gran Ghetto hanno un solo incarico: prostituirsi. I clienti sono italiani: si muovono da Foggia o San Severo (il Ghetto è più o meno a metà tra le due città distanti tra loro 25 chilometri) lungo la Statale 16, percorrono un paio di chilometri di sterrato e nel buio della sera si infilano nelle baracche. Nella Casbah del Tavoliere dove c’è di tutto: market, ristoranti, parrucchieri, gommista e meccanico. Tutto rigorosamente gestito dai caporali, i “capinero” come li chiamano i braccianti, anche loro africani. Che adesso potrebbero essere messi fuorigioco dalla decisione della Regione Puglia di sgombrare il Gran Ghetto: negli stabili pubblici, a San Severo, i caporali non potranno più gestire i traffici (di braccianti e schiave) o, perlomeno, sarà tutto molto più difficile. Per questo gli africani non vogliono lasciare Rignano: la loro Schiavopoli, all’ombra del promontorio, garantisce loro anche il lavoro. Da schiavi, ma lavoro. Per questo l’inferno, a volte, diventa l’unico posto dove poter continuare a vivere.

Michelangelo Borrillo
pubblicato sul corrieredellasera.it
il 3 Marzo 2017 (ore 11:38)
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