di Sergio Di Cori Modigliani
Qual è una frase, un proverbio, un detto comune che
più di ogni altro –tutti d’accordo- potremmo scegliere come il più
rappresentativo dell’immaginario collettivo nazionale? Difficile a dirsi,
perché se ci inerpichiamo su questa strada, ci accorgiamo subito che la storia
nazionale ci impedisce di ritrovarci, come popolo, in una sintesi comune. Mentre
donne e buoi dei paesi tuoi
(piuttosto desueto) è stato riesumato da Borghezio e Salvini per farne il cavallo
di battaglia della cosiddetta Padania, la piccola borghesia romana ha
riproposto ultimamente il chi va piano
va sano e va lontano, splendida truffa subliminale per incitare la
gente a non fare nulla o comunque accettare l’idea che le riforme vanno fatte
con il contagocce.
La hit parade sociologica è
stata di recente redatta da un interessante studio condotto dall’equipe
dell’esimio linguista Prof. Tullio De Mauro, che ci ha regalato anche delle
comiche sorprese post-moderne, laddove si segnalano delle novità
antropologiche, come quella dei dieci più importanti centri urbani
metropolitani d’Italia dove sembra che sia molto diffusa la pratica del “toy
boy”, l’amante giocattolo, il giovane bambolotto usa e getta, divenuto, in
quanto maschio, meta ambita di femmine cinquantenni in cerca di emozioni; tant’è
vero che –con enorme sorpresa dei ricercatori- è venuta fuori la riedizione
dell’antichissimo gallina vecchia fa
buon brodo, frase fulminante che alcune mamme competitive lanciano,
come sfida minacciosa, alle figlie adolescenti che le contestano urlando nel
corridoio di casa. Ma la vera sorpresa consiste nelle due frasi, al primo posto
ex aequo, che hanno ottenuto il massimo del consenso. Una rappresenta la resa
degli italiani, ormai avviati verso la fede e la speranza, extrema ratio di chi
ritiene di non aver più nulla da perdere, avendo rinunciato a qualunque forma
di lotta, di protesta, di opposizione; e questa categoria è ben rappresentata
dal chi vivrà vedrà (con
aggiunta di sospiro) un’espressione che tradotta corrisponde a qualcosa del
tipo: speriamo bene, staremo a vedere quando accadrà, non dipende da noi, non
possiamo che attendere gli eventi, ecc. Comunque sia, è un sintomo di passività
e di avvilimento collettivo. L’altra, invece, è la riesumazione di una frase
coniata diversi decenni fa e poi bandita a furor di popolo, dopo che diversi
intellettuali, luminari, professori, politici e giornalisti, avevano insultato
e dileggiato un famosissimo giornalista italiano che nel 1985 l’aveva riesumata,
sostenendo che ben rappresentava ciò che il popolo italiano era, senza farsi
soverchie illusioni. L’autore era Enzo Biagi e la frase era stata pronunciata
nel corso di una spiritosa trasmissione televisiva curata da Catherine Spaak,
in onda sulla Rai, che si chiamava “Harem” e si occupava di cultura, libri,
diritti delle donne e pari opportunità. Il format della trasmissione prevedeva
che in studio, ospiti della Spaak, ci fossero soltanto donne, appartenenti a
diversi schieramenti, età, professioni, ceti sociali. Alla fine, nascosto da un
telone, seduto su uno sgabello, c’era il “maschio fantasma” che veniva
interrogato su un certo argomento per sentire il punto di vista rappresentativo
di un uomo. E poi si svelava chi fosse costui. La frase improvvida di Biagi fu
la seguente: “Evviva er re de Franza, evviva o’re de Ispagna, purchè se magna:
questa è l’Italia”. Apriti cielo! Non soltanto se lo mangiarono vivo in studio
ma il giorno dopo venne identificato come un fascista populista, un
denigratore, un malvagio distruttore di quella unità nazionale ritrovata, che
in quel momento era tutta presa dal nuovo mantra dell’epoca “Milano da bere”
poi scomparso nel nulla e sepolto per sempre grazie a tangentopoli. Oggi, a
Milano, da bere c’è rimasta soltanto
l’acqua piovana delle falde inquinate -sia geograficamente che metaforicamente-
dalla ammorbante presenza della ‘ndrangheta. Neanche a dirlo, allora, fui tra
quelli che contestarono Enzo Biagi. Anche io, come italiano, mi sentii umiliato
nel mio ruolo di cittadino consapevole, all’idea che quella frase potesse
rappresentare la sintesi della identità nazionale, con la specifica “ecco ciò
che sono e vogliono gli italiani”.
Sono trascorsi, da allora,
ben 28 anni.
Nessun dibattito su questa
frase, non ce n’è alcun bisogno. E’ la hit parade 2013.
Il che vuol dire, con il
senno di poi, ammettere la mia serena ingenuità utopistica di allora e chiedere
scusa a Enzo Biagi, il quale, invece, evidentemente aveva ben capito in che
razza di paese stessimo vivendo e come si stava già evolvendo la situazione.
Ma l’immaginario collettivo
popolare cambia. Lo si può cambiare. Lo si può alimentare. Lo si può aiutare ad
evolversi. Le parole servono, per l’appunto, a questo. Un buon programma per
ciascuno di noi consiste nell’investire della creatività per coniare nuove
espressioni sintetiche che possano davvero essere una luce formativa per il
futuro dei nostri figli. Ogni popolo, ogni etnia, ogni cultura, ha le sue
espressioni linguistiche comunitarie. La loro importanza non è legata al fatto
che servono a comunicare, quanto piuttosto all’impatto che hanno nella
formazione della socialità collettiva e gli studiosi le identificano come un
sintomo rivelatore della struttura comportamentale di questa o quella nazione.
Non conosco la lingua tedesca e mi piacerebbe tanto conoscere una delle loro
forme dialogiche più comuni per definire se stessi: è probabile che contiene la
chiave di comprensione anche della loro politica. Ma conosco abbastanza bene
gli Usa perché vi ho abitato per diversi decenni. Nonostante l’enorme varietà
di etnie, culture e popoli mescolati, ne hanno una, di frase, che appartiene
all’intera collettività: chiunque l’ha fatta propria. “Fool me once, shame on you; fool me twice shame on me”. E’ la spina dorsale della loro psicologia e della loro
economia. Tradotto vuol dire “frègami una volta, e la vergogna è tua; frègami
due volte e la vergogna è mia”. E’ la costituzione dell’assunzione in proprio
della responsabilità individuale socio-psicologica, che contiene anche la
consapevolezza del loro essere un po’ ingenui e farlocconi, facili da
abbindolare. E quindi, da bravi protestanti, attribuiscono la colpa a chi li
manipola (la prima volta) approfittando della loro innocente dabbenaggine, e si
autoassolvono appellandosi alla buona fede. Ma non troverete mai nessun
americano disposto ad accettare passivamente l’idea di farsi abbindolare due
volte dalle stesse persone; perchè se lo fa, alla fine si arrende e recita il
mea culpa. Negli ultimi 150 anni, in Usa, non è mai accaduto che sia stato
rieletto un presidente che ha poi deluso le aspettative dei suoi elettori:
Roosevelt, Eisenhower, Reagan, Clinton, Obama (tanto per nominare solo quelli
degli ultimi 100 anni) hanno fatto ciò che ci si aspettava da loro. Con due
uniche eccezione: Nixon nel 1974, scoperto, smascherato e obbligato a
dimettersi coperto di infamia; George Bush jr. accusato dopo il suo secondo
mandato di aver mentito ai cittadini e quindi oggetto di disprezzo collettivo,
perchè –come scrisse allora Philip Roth su New York Times- “ci ha
inevitabilmente spinto a odiare noi stessi in quanto americani, proprio perché
siamo stati così stupidi da votarlo di nuovo, noi non possiamo che prendercela
con la nostra natura di autentici farlocconi: e odiando noi stessi stiamo
creando le basi psicologiche per determinare una nuova crisi economica”. Roth è
un geniale romanziere e di economia non sa nulla, né ha mai avuto pretese.
Quando scrisse questo articolo, alcuni economisti lo presero un po’ in giro, ma
ci fu, invece, uno sconosciuto avvocato dell’Illinois che prese la palla al
balzo e con magnifica retorica usò quell’articolo come base dei suoi discorsi
elettorali, citando anche (non a caso) il famoso proverbio da me summenzionato,
per richiamare i suoi concittadini ad assumersi le responsabilità in prima
persona. Si trattava di Barack Obama. “Se vi fate fregare anche questa volta,
la responsabilità sarà soltanto vostra: noi possiamo cambiare”.
Tutto ciò come commento
spensierato sulle elezioni che si terranno domani e lunedì in 706 comuni
italiani, sulle quali non nutro grandi speranze. Anzi. La mia cautela
elettorale mi ha stimolato questo post, spingendomi a porre ai miei lettori il
seguente quesito: “come è possibile che gli italiani votino il candidato A che
promette la cosa B e dopo cinque anni, avendo toccato con mano che la cosa B
non è diventata reale, lo rivota; visto che questa volta promette la cosa C. Ma
cinque anni dopo, lo stesso candidato di dieci anni prima, il quale non aveva
realizzato la cosa B e neppure la cosa C, prospetta l’idea della cosa D e
riesce a essere votato ancora una volta”. E così via dicendo.
Come è possibile, secondo
voi, che si verifichi un meccanismo mentale come questo?
Propongo, pertanto, di
prendere a prestito la frase americana, perché ritengo che per un po’ possa e
debba essere utilizzata con enorme vantaggio della collettività.
Votiamo per chi ci pare, ma
non facciamolo per abitudine, per vizio, per consuetudine, per tradizione.
Combattiamo l’Alzheimer
sociale che ci sta rovinando l’esistenza.
In attesa di coniugare, noi,
intera collettività nazionale, una nuova frase originale,.una espressione
figlia di un neologismo, un proverbio inedito, tutto italiano, che ci consenta
di poterci identificare anche e soprattutto come comunità di adulti pensanti.
Senza sorpresa, inoltre, la
splendida ricerca dell’equipe del prof. De Mauro rivela e rileva che gli
italiani stanno diventando “la prima etnia analfabeta dell’Unione Europea”:
sempre minore il numero di lettori, di studiosi, di acculturati. Depressione,
ignavia e indifferenza in aumento. Con la allarmante nuova moda, già
incorporata nella massa nazionale che vive in rete, basata sull’idea che per
sapere come stanno le cose basta andare su wikipedia.
Cominciamo da qui,
a cambiare l’dea di nazione.
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