sabato 25 maggio 2013

Cambiamo il linguaggio: è così che cambiamo l'Italia. E ricostruiiamo un nuovo immaginario collettivo.



di Sergio Di Cori Modigliani

Qual è  una frase, un proverbio, un detto comune che più di ogni altro –tutti d’accordo- potremmo scegliere come il più rappresentativo dell’immaginario collettivo nazionale? Difficile a dirsi, perché se ci inerpichiamo su questa strada, ci accorgiamo subito che la storia nazionale ci impedisce di ritrovarci, come popolo, in una sintesi comune. Mentre donne e buoi dei paesi tuoi (piuttosto desueto) è stato riesumato da Borghezio e Salvini per farne il cavallo di battaglia della cosiddetta Padania, la piccola borghesia romana ha riproposto ultimamente il chi va piano va sano e va lontano, splendida truffa subliminale per incitare la gente a non fare nulla o comunque accettare l’idea che le riforme vanno fatte con il contagocce.
La hit parade sociologica è stata di recente redatta da un interessante studio condotto dall’equipe dell’esimio linguista Prof. Tullio De Mauro, che ci ha regalato anche delle comiche sorprese post-moderne, laddove si segnalano delle novità antropologiche, come quella dei dieci più importanti centri urbani metropolitani d’Italia dove sembra che sia molto diffusa la pratica del “toy boy”, l’amante giocattolo, il giovane bambolotto usa e getta, divenuto, in quanto maschio, meta ambita di femmine cinquantenni in cerca di emozioni; tant’è vero che –con enorme sorpresa dei ricercatori- è venuta fuori la riedizione dell’antichissimo gallina vecchia fa buon brodo, frase fulminante che alcune mamme competitive lanciano, come sfida minacciosa, alle figlie adolescenti che le contestano urlando nel corridoio di casa. Ma la vera sorpresa consiste nelle due frasi, al primo posto ex aequo, che hanno ottenuto il massimo del consenso. Una rappresenta la resa degli italiani, ormai avviati verso la fede e la speranza, extrema ratio di chi ritiene di non aver più nulla da perdere, avendo rinunciato a qualunque forma di lotta, di protesta, di opposizione; e questa categoria è ben rappresentata dal chi vivrà vedrà (con aggiunta di sospiro) un’espressione che tradotta corrisponde a qualcosa del tipo: speriamo bene, staremo a vedere quando accadrà, non dipende da noi, non possiamo che attendere gli eventi, ecc. Comunque sia, è un sintomo di passività e di avvilimento collettivo. L’altra, invece, è la riesumazione di una frase coniata diversi decenni fa e poi bandita a furor di popolo, dopo che diversi intellettuali, luminari, professori, politici e giornalisti, avevano insultato e dileggiato un famosissimo giornalista italiano che nel 1985 l’aveva riesumata, sostenendo che ben rappresentava ciò che il popolo italiano era, senza farsi soverchie illusioni. L’autore era Enzo Biagi e la frase era stata pronunciata nel corso di una spiritosa trasmissione televisiva curata da Catherine Spaak, in onda sulla Rai, che si chiamava “Harem” e si occupava di cultura, libri, diritti delle donne e pari opportunità. Il format della trasmissione prevedeva che in studio, ospiti della Spaak, ci fossero soltanto donne, appartenenti a diversi schieramenti, età, professioni, ceti sociali. Alla fine, nascosto da un telone, seduto su uno sgabello, c’era il “maschio fantasma” che veniva interrogato su un certo argomento per sentire il punto di vista rappresentativo di un uomo. E poi si svelava chi fosse costui. La frase improvvida di Biagi fu la seguente: “Evviva er re de Franza, evviva o’re de Ispagna, purchè se magna: questa è l’Italia”. Apriti cielo! Non soltanto se lo mangiarono vivo in studio ma il giorno dopo venne identificato come un fascista populista, un denigratore, un malvagio distruttore di quella unità nazionale ritrovata, che in quel momento era tutta presa dal nuovo mantra dell’epoca “Milano da bere” poi scomparso nel nulla e sepolto per sempre grazie a tangentopoli. Oggi, a Milano, da bere  c’è rimasta soltanto l’acqua piovana delle falde inquinate -sia geograficamente che metaforicamente- dalla ammorbante presenza della ‘ndrangheta. Neanche a dirlo, allora, fui tra quelli che contestarono Enzo Biagi. Anche io, come italiano, mi sentii umiliato nel mio ruolo di cittadino consapevole, all’idea che quella frase potesse rappresentare la sintesi della identità nazionale, con la specifica “ecco ciò che sono e vogliono gli italiani”.

Sono trascorsi, da allora, ben 28 anni.
Nessun dibattito su questa frase, non ce n’è alcun bisogno. E’ la hit parade 2013.
Il che vuol dire, con il senno di poi, ammettere la mia serena ingenuità utopistica di allora e chiedere scusa a Enzo Biagi, il quale, invece, evidentemente aveva ben capito in che razza di paese stessimo vivendo e come si stava già evolvendo la situazione.
Ma l’immaginario collettivo popolare cambia. Lo si può cambiare. Lo si può alimentare. Lo si può aiutare ad evolversi. Le parole servono, per l’appunto, a questo. Un buon programma per ciascuno di noi consiste nell’investire della creatività per coniare nuove espressioni sintetiche che possano davvero essere una luce formativa per il futuro dei nostri figli. Ogni popolo, ogni etnia, ogni cultura, ha le sue espressioni linguistiche comunitarie. La loro importanza non è legata al fatto che servono a comunicare, quanto piuttosto all’impatto che hanno nella formazione della socialità collettiva e gli studiosi le identificano come un sintomo rivelatore della struttura comportamentale di questa o quella nazione. Non conosco la lingua tedesca e mi piacerebbe tanto conoscere una delle loro forme dialogiche più comuni per definire se stessi: è probabile che contiene la chiave di comprensione anche della loro politica. Ma conosco abbastanza bene gli Usa perché vi ho abitato per diversi decenni. Nonostante l’enorme varietà di etnie, culture e popoli mescolati, ne hanno una, di frase, che appartiene all’intera collettività: chiunque l’ha fatta propria. Fool me once, shame on you; fool me twice shame on me”. E’ la spina dorsale della loro psicologia e della loro economia. Tradotto vuol dire “frègami una volta, e la vergogna è tua; frègami due volte e la vergogna è mia”. E’ la costituzione dell’assunzione in proprio della responsabilità individuale socio-psicologica, che contiene anche la consapevolezza del loro essere un po’ ingenui e farlocconi, facili da abbindolare. E quindi, da bravi protestanti, attribuiscono la colpa a chi li manipola (la prima volta) approfittando della loro innocente dabbenaggine, e si autoassolvono appellandosi alla buona fede. Ma non troverete mai nessun americano disposto ad accettare passivamente l’idea di farsi abbindolare due volte dalle stesse persone; perchè se lo fa, alla fine si arrende e recita il mea culpa. Negli ultimi 150 anni, in Usa, non è mai accaduto che sia stato rieletto un presidente che ha poi deluso le aspettative dei suoi elettori: Roosevelt, Eisenhower, Reagan, Clinton, Obama (tanto per nominare solo quelli degli ultimi 100 anni) hanno fatto ciò che ci si aspettava da loro. Con due uniche eccezione: Nixon nel 1974, scoperto, smascherato e obbligato a dimettersi coperto di infamia; George Bush jr. accusato dopo il suo secondo mandato di aver mentito ai cittadini e quindi oggetto di disprezzo collettivo, perchè –come scrisse allora Philip Roth su New York Times- “ci ha inevitabilmente spinto a odiare noi stessi in quanto americani, proprio perché siamo stati così stupidi da votarlo di nuovo, noi non possiamo che prendercela con la nostra natura di autentici farlocconi: e odiando noi stessi stiamo creando le basi psicologiche per determinare una nuova crisi economica”. Roth è un geniale romanziere e di economia non sa nulla, né ha mai avuto pretese. Quando scrisse questo articolo, alcuni economisti lo presero un po’ in giro, ma ci fu, invece, uno sconosciuto avvocato dell’Illinois che prese la palla al balzo e con magnifica retorica usò quell’articolo come base dei suoi discorsi elettorali, citando anche (non a caso) il famoso proverbio da me summenzionato, per richiamare i suoi concittadini ad assumersi le responsabilità in prima persona. Si trattava di Barack Obama. “Se vi fate fregare anche questa volta, la responsabilità sarà soltanto vostra: noi possiamo cambiare”.

Tutto ciò come commento spensierato sulle elezioni che si terranno domani e lunedì in 706 comuni italiani, sulle quali non nutro grandi speranze. Anzi. La mia cautela elettorale mi ha stimolato questo post, spingendomi a porre ai miei lettori il seguente quesito: “come è possibile che gli italiani votino il candidato A che promette la cosa B e dopo cinque anni, avendo toccato con mano che la cosa B non è diventata reale, lo rivota; visto che questa volta promette la cosa C. Ma cinque anni dopo, lo stesso candidato di dieci anni prima, il quale non aveva realizzato la cosa B e neppure la cosa C, prospetta l’idea della cosa D e riesce a essere votato ancora una volta”. E così via dicendo.
Come è possibile, secondo voi, che si verifichi un meccanismo mentale come questo?
Propongo, pertanto, di prendere a prestito la frase americana, perché ritengo che per un po’ possa e debba essere utilizzata con enorme vantaggio della collettività.
Votiamo per chi ci pare, ma non facciamolo per abitudine, per vizio, per consuetudine, per tradizione.
Combattiamo l’Alzheimer sociale che ci sta rovinando l’esistenza.
In attesa di coniugare, noi, intera collettività nazionale, una nuova frase originale,.una espressione figlia di un neologismo, un proverbio inedito, tutto italiano, che ci consenta di poterci identificare anche e soprattutto come comunità di adulti pensanti.
Senza sorpresa, inoltre, la splendida ricerca dell’equipe del prof. De Mauro rivela e rileva che gli italiani stanno diventando “la prima etnia analfabeta dell’Unione Europea”: sempre minore il numero di lettori, di studiosi, di acculturati. Depressione, ignavia e indifferenza in aumento. Con la allarmante nuova moda, già incorporata nella massa nazionale che vive in rete, basata sull’idea che per sapere come stanno le cose basta andare su wikipedia.

Cominciamo da qui, a cambiare l’dea di nazione.

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