di Sergio Di Cori Modigliani
“La rivoluzione è alle porte”.
Un’affermazione, questa, piuttosto grossa, che va dunque argomentata e spiegata.
La frase “la rivoluzione è alle porte” se pronunciata da un sindacalista provenzale a Marsiglia nell’ ottobre del 1958 avrebbe determinato risate collettive e una richiesta di immediato ricovero manicomiale. Ma la stessa affermazione pronunciata da un suo antenato contadino nell’ottobre del 1788, anche se lì per lì magari accolta con un certo scetticismo, sarebbe stata ascoltata. Comunque sia, ci sarebbe stata una subitanea curiosità. Il motivo è chiaro: “ce n’era la necessità”, se ne avvertiva l’urgenza, si captava nell’aria che la Storia, irrompendo nello scenario dell’immaginario collettivo della nazione, stava battendo un sonoro colpo traumatico e pretendeva una immediata accelerazione dei processi evolutivi.
E questo vale per ogni nazione, ogni etnia, ogni specifico momento storico.
Noi italiani, oggi, 30 maggio 2012 ci troviamo nel momento in cui “i tempi sono maturi”.
Una breve premessa per deludere i bombaroli.
Chi pensa –quando sente il termine rivoluzione- a una sollevazione popolare, e si arrapa subito allucinando trionfanti armate di lavoratori che corrono urlando per prendere possesso di Palazzo Chigi, sono fuori strada, fuori tempo, fuori di testa.
Chi pensa e ritiene –perché comunque qualcosa ha captato- che la “imminente rivoluzione” una volta tradotta nel sociale comporterà i fumosi fantasmi di banalità ideologiche, trasformate all’occasione in piatti slogan onnicomprensivi, si sbaglia di grosso. Chi poi ritiene che andare in giro ad incitare alla violenza, mettere bombe, sparare a non so chi, e prepararsi al “grande momento” vuol dire stare organizzando la rivoluzione è un deficiente, una persona disturbata, un volgare mistificatore, o ancora peggio (data la nuova moda) qualcuno che pesca nel torbido perché ha individuato una qualche modalità di aggruppare dei gonzi disperati, di farsi eleggere alle prossime elezioni con una lista civica furba, o proiettare sulla collettività la disperazione acquisita negli anni nell’aver visto esaurite le proprie aspirazioni individuali.
La rivoluzione di cui io parlo ha una sua millimetrica e matematica definizione; si chiama “Rivoluzione Culturale della Coscienza di Massa”.
Senza quella, l’Italia non ha nessuna possibilità di evitare la catastrofe verso la quale si sta avviando, come al solito, animata da imbonitori e sapientoni di cultura wikipediana di stoffa e stazza diversa: c’è di tutto, dagli ineffabili guerrieri della destra sociale agli indòmiti marxisti-leninisti. La scelta è variegata, multicolore, a seconda del proprio gusto esistenziale.
Senza la Rivoluzione Culturale, si piomba nel medioevo. Non c’è scampo.
E la rivoluzione culturale ha una sua particolarità intrinseca, unica nel suo genere, che la rende immediatamente riconoscibile: è originale, non può essere esportabile, ed è il legittimo prodotto di una specifica etnia, di uno specifico popolo, che sintetizza la tradizione, la sapienza, la caratterialità, l’eredità genetica, e “originalmente” inventa e crea un nuovo modello evolutivo che va bene a quella nazione.
Il fallimento tragico della teoria liberista che ha “inventato a tavolino” la globalizzazione, nasce da un errore intellettuale all’origine, di natura autoritaria e imperialista: l’imposizione di un modello unico a dispetto delle esigenze e autentici bisogni di singole collettività. I tedeschi, che sono davvero zucconi, non riescono a comprendere che ciò che va bene a Stoccarda e li’ funziona a meraviglia non è detto che funzioni a Saint Tropez o a Ravello. Perché la realtà, oggi, è complessa. La fine della modernità significa “la fine della linearità”.
Certo, semplificarla aiuta a gestirla, manipolarla e indirizzarla. Ecco, perché la vogliono.
In questo senso, l’unica vera rivoluzione che c’è stata negli ultimi venticinque anni, è stato il libero web, perché lì vince la complessità. C’è un gigantesco mezzo –che si pone come mero strumento piatto, privo di qualità intrinseche se non quelle tecniche atte e adatte al proprio funzionamento- e la sua manifestazione è global, uguale per tutti: se non hai il computer e non hai l’accesso a internet non esiste. Ma una volta superata l’unica funzione globale, al proprio interno, ogni nazione, ogni etnia, ogni popolo, ogni individuo, se lo vive, se lo gestisce, se lo amministra, se lo gode, se lo sfrutta, a seconda delle proprie esigenze. Se noi andassimo a vedere dei blog iraniani o mòngoli o senegalesi, è molto probabile troveremmo delle caratteristiche peculiari molto dissimili da quelle che per noi, invece, nel nostro specifico italiano, sono consuetudine. E’ quello che nella teoria dei mass media si chiama “glocal”, la capacità di saper interpretare la globalizzazione applicandola al territorio specifico del bisogno locale.
Presentarsi con un gigantesco esercito in Iraq dicendo. “buon giorno signori, siamo venuti a regalarvi la democrazia” è stata una autentica follia. Basterebbe questo esempio (valido per tutti) per spiegare l’idiozia perdente da ancien regime di voler imporre il global nel local. Questo è stato ed è tuttora il liberismo. E’ perdente. Non funziona.
Noi italiani siamo all’alba della nostra rivoluzione culturale local.
Perché ce n’è la necessità. Urgente.
Non abbiamo scelta.
Se non la facciamo, scompariremo.
Ma in che cosa consiste la rivoluzione culturale? Come la si fa?
Si inizia dalla necessaria “rivoluzione vocalizia”.
Basta cambiare una vocale e una volta incorporato quel Senso, quel principio, quel Significato, quel valore, quell’effetto, è come aver preso la Bastiglia nel 1789.
Basta cambiare una vocale. Tutto qui.
E da lì, l’effetto domino, dilaga. Avviene un nuovo contagio sociale.
L’ispirazione mi è venuta parlando con mio figlio, un giovane uomo, che è appena ritornato da un viaggio di piacere e di esplorazione con alcuni suoi coetanei in Norvegia, da questi giovanotti definito un paese che sta avanti 100 anni rispetto a noi.
E’ stato il ricordo di un episodio antico, quando lui aveva due anni e mezzo.
La nonna, cioè mia madre, mi aveva costretto a invitare un pomeriggio una vecchia zia rincitrullita, alla quale bisognava far vedere i nipoti. Mio figlio stava seduto sul seggiolone in preda ad un vivo allarme perché la pappa era in ritardo. La zia era seduta e osservava. Io stavo lì a mescolare i cereali cercando di calmarlo (gli avevo anche ammollato il ciuccio perché non urlasse) spiegandogli che di lì a pochi secondi sarebbe arrivata la pietanza. Ad un certo punto la zia, con una vocetta da idiota fa “Danielino, ma tu che cosa vuoi fare da grande?”. Lui ascolta sgomento, si strappa il ciuccio di bocca e aprendosi a uno smagliante sorriso risponde: “Ma che domande! Io da grande voglio andare all’asilo”.
La zia, che era una poveretta, rimane sconcertata, dato che si aspettava il solito pompiere, astronauta, pilota di rally. Mi guarda e mi fa: “questo bambino è davvero strano”.
Va da sé che mio figlio aveva ragione. Lui pensava alla rivoluzione. Sapeva che passare dalla casa alla scuola voleva dire andare verso la socialità e diventare membro di una collettività di simili, il che è considerato da tutti i pediatri e psicologi del mondo la più grande rivoluzione della nostra esistenza. Essendo un pragmatico, lui aspettava quel grandioso momento di cui gli erano state spiegate le funzioni e le consuetudini.
Tutto ciò per illustrare il necessario primo passo della “rivoluzione vocalizia”.
Bisogna cambiare una O.
Basta questo.
Immaginiamo noi stessi, noi italiani, come nazione civile (dato che siamo giovani perché la democrazia ha soltanto 60 anni) visualizzandoci come bimbetti all’asilo. Abituati a giocare, alla ricreazione, a disegnare, stiamo lì seduti al banco sulle nostre piccole sedie. Essendo bimbetti, si può dire “spaesati”. Essendo stati, invece, degli adulti infantilizzati va detto “irresponsabili”. E questa irresponsabilità ha comportato la fine di una illusione, la presa d’atto della realtà e ha quindi maturato i tempi. Perché la ricreazione non c’è più. Non c’è più neppure la merendina. Non solo. Per un magico trucco del destino (i bimbetti questo lo capiscono) la sedia si è rimpicciolita e quindi cominciano a far male i muscoli, si hanno vere e proprie difficoltà motorie quando si cerca di rialzarsi per andare a fare la pipì. C’è chi reagisce piagnucolando, chi fa i capricci, chi diventa violento, chi si deprime e ammutolisce. A seconda del carattere.
Noi siamo, per l'appunto, come figlio Daniele quando aveva 2 anni e mezzo: dobbiamo abituarci a pensare che la nostra prossima rivoluzione non è quella dei massimi sistemi (cioè: da grande voglio fare l'astronauta) ma quella realistico-pragmatica da scuola elementare della democrazia: "via i mafiosi dalle banche. Altrimenti il paese precipita".
Il linguaggio si trova nel nostro cervello nello stesso identico luogo nel quale opera il pensiero. A seconda dell’uso del linguaggio si producono dei pensieri A oppure dei pensieri B e così via dicendo. Usano gli stessi recettori neuronali. Bisogna cambiare il linguaggio per cambiare i pensieri. E quando si sono cambiati i pensieri si può cambiare la realtà. Questo vuol dire “rivoluzione culturale”: non si importano, non si acquistano al supermarket mediatico, non si trovano per strada ai semafori.
La rivoluzione vocalizia passa attraverso la sostituzione di una vocale. Da O a A.
Da Cosa Nostra a Casa Nostra.
Sembra poco, quasi ridicolo. Ma gli scienziati che si occupano di neurofisiologia confermano che si tratta di una rivoluzione.
Chi oggi protesta perché il 2 giugno non si abolisce la parata, non sa che cosa dice. E’ un demagogo o è disinformato. Non è possibile farlo.
Ma era possibile farlo il 28 gennaio 2012. Quando è iniziata la vera stretta.
Allora, Monti e Napolitano, insieme, avrebbero potuto organizzare una bella conferenza stampa e dire –preventivamente- “abbiamo deciso di annullare la parata per risparmiare 75 milioni di euro accantonandoli come fondo di intervento immediato nel caso di calamità naturali come quella della Liguria in questi giorni”. Non ci hanno pensato.
Perché la loro idea di repubblica è basata sull’applicazione di Cosa Nostra.
Il Ministero della Difesa è “cosa loro” e così anche le commesse –con relative tangenti- che la parata comporta coinvolgendo molte aziende che lucrano su quest’attività, nessuna delle quali ha mai partecipato a una gara d’appalto. Se fosse stata “Casa nostra” ci avrebbero pensato. Bisognava pretenderlo allora, oggi non si può più. Chi lo chiede oggi lo sa, quindi pesca nel torbido. E mi riferisco qui a diverse formazioni politiche furbe presenti (neanche a dirlo) tra le aziende appaltatrici.
E’ una semplice vocale: da O a A. La quale, se ripetuta come un mantra, può far scattare quella rivoluzione di pensiero senza la quale questo paese affonda.
Basta vedere ciò che è accaduto nelle ultime 48 ore. Capisco che il terremoto sia la prima notizia in assoluto. Me ne rendo conto. E’ giusto che sia così. Ma come mai la seconda notizia non è quella A CARATTERI CUBITALI relativa alla Banca Popolare di Milano con relativo arresto del suo presidente e prove fornite dalla magistratura da cui si evince che tale banca, negli ultimi 20 mesi, ha avuto dalla BCE all’1% 14 miliardi di euro per ricapitalizzarsi e di questi ben 5 miliardi di euro sarebbero finiti nelle mani (o nelle tasche) della famiglia mafiosa dei Corallo legata al clan dei Santapaola?. Dunque, la BCE finanzia la mafia. Non lo sapevano? Ebbene, lo sanno adesso. Che cosa hanno da dire? Nessuno dice nulla? Nessuno ne parla? Nessuno fa domande? La questione non viene affrontata?
Se da Cosa Nostra si passa a Casa Nostra (e tale concetto viene incorporato e assimilato nella nostra mente) allora scattano delle domande elementari del tipo: “che possibilità abbiamo noi cittadini di avere dal ministero del tesoro e dell’economia una specifica garanzia per iscritto certificata dalla corte dei conti e dalla associazione bancaria italiana nella quale vengono date garanzie a correntisti e risparmiatori che i propri soldi non vengono consegnati alla mafia a propria insaputa? Che garanzia viene data ai cittadini che i miliardi che la BCE sta dando alle banche italiane non stanno finendo nelle mani dei clan mafiosi?”.
Voi lo sapete che siete mafiosi senza saperlo?
Voi lo sapete che i vostri soldi depositati la banca li dà alla mafia e quindi voi che lavorate e pagate la tasse, in realtà contribuite –a vostra insaputa- ad arricchire i clan mafiosi?
Non pensate che questa “scoperta” grazie al lavoro della giudice Di Censo, meriti un approfondimento e striscette su facebook e commenti e cortei e bandierone e improperi, prima che cali il consueto velo del silenzio omertoso di Stato?
Non vi scoccia l’idea di sapere che siamo tutti mafiosi a nostra insaputa?
Non pensate che il momento sia pronto per operare quella rivoluzione culturale che impone con la bava alla bocca e il coltello tra i denti che venga applicato il principio alchemico della rivoluzione vocalizia?
Come può essere passata sotto silenzio, una notizia del genere?
Com’è possibile che si prepara una nuova manovra con la scusa dello spread ai massimi di nuovo dato che la BCE ha riempito di soldi le nostre banche che seguitano a dire che i soldi non li hanno più? DOVE SONO ANDATI A FINIRE QUEI SOLDI?
Ultima domanda:
“Com’è possibile che una intera nazione si faccia rapinare senza neppure chiedere ragguagli sui ladri che stanno portando via i propri risparmi?
Le risposte degli aspiranti “rivoluzionari vocalizi” sono gradite.
Altro che spread.
Trascritto su Iniziativa Giovani, con la viva speranza che venga letto e interpretato come d'obbligo. Grazie Sergio.
RispondiEliminail problema stà proprio nella rivoluzione "vocalizia" che può significare cambiare una vocale oppure semplicemente fare le rivoluzioni vociando i miei inutili commenti sul web. Mi aspettavo che alla fine del post veniva fuori che la morale della favola fosse "alzatevi dal seggiolone e socializzate". Ma siccome la morale della favola non si spiega, ma la si deve capire da se, a me è arrivato questo messaggio. D'altronde anche ogni individuo all'interno della globalizzazione è anche glocal, e io nel mio glocal-brain ho maturato questo messaggio. Quando si è fisicamente assieme, in una piazza o in un palasport a parlare di cultura, economia e politica si aggiunge quel quid che fa la differenza, che turba i sogni ai proprietari della "cosa nostra local o global". In questo senso trovo interessante l'esperimento summit di Rimini organizzato da Barnand e (anche se meno partecipato) il convegno recente a Frosinone. La mia proposta di rivoluzione è di fare un convegno in ogni Regione italiana, finanziato dalle anime perse della rete. Ditemi un codice IBAN che faccio subito il versamento.
RispondiEliminaquesto sì che mi piace per davvero, e lo dico sul serio; è la base del concetto di "assemblea permanente", c'è da pensarci su (nel senso di pochi secondi) e poi attivarsi
Eliminal’idea di finanziare think tank o comunque occasioni per il confronto e l'accrescimento personale l’hai lanciata tu, caro Sergio, nel post:
Eliminahttp://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2012/05/paolo-barnard-propone-lunica-geniale.html
hai scritto “Se veramente volete fare qualcosa di propulsivo, mettete su un gruppo che si occupi UNICAMENTE di trovare la strada vincente per andare a bussare in Confindustria e spiegar loro che devono investire immediatamente qualche milione di euro per lanciare dei think tank italiani”.
Mi chiedo perché dobbiamo bussare alle porte di Confindustria! Confindustria non è quella della precarizzazione del lavoro? apriamo un conto corrente (rigorosamente in una banca di credito commerciale e non una banca d’affari, anzi… magari apriamo un conto in Goldman Sachs, a sfregio!!) apriamo il portafoglio, racimoliamo i piccioli… tanto ci hanno lasciato solo i piccioli, ma tante monetine fanno un capitale! una volta partiti il nostro capitale sarà la cultura. Anche io sono serio. Attendo quel codice IBAN.
Sono daccordo anche io, bisogna riprendersi i luoghi pubblici, riaggregarsi, guardarsi e comunicare con le emozioni sommandole alle parole. Un'esperienza come quella di Frosinone, che ho potuto apprezzare via web, andrebbe moltiplicata almeno nel format. Sono disponibile a collaborare.
EliminaCiao Alessandro,
RispondiEliminase può interessarti esiste già qualcosa di questo tipo, sotto forma di duplice incontro mensile (un pomeriggio a bologna ed uno a Vicenza). Parliamo di come migliorarci come persone e come professionisti, di finanza, di futuro.
Lo facciamo da 3 anni con la consapevolezza che lavorando su noi stessi possiamo di conseguenza cambiare la società (molti sono imprenditori, quindi questo ha un impatto ancora più forte sul territorio). Se vuoi venire sei mio graditissimo ospite (così come lo è Sergio, a cui ho già fatto l'invito), basta che mi mandi un tuo contatto a f.cotza@winnergroup.it
Diceva un tizio che la base del buon governo e' il favoritismo.
RispondiEliminaNo. Non era matto. Intendeva una cosa semplice.
Vai al governo con i tuoi uomini e TE NE VAI con i tuoi uomini.
Qui restano tutti. Anzi visto che tutti si portano dietro i suoi uomini, poi quando se ne vanno li lasciano li. E come tutti questi uomini che loro si portano dietro a loro volta si portano dietro i loro uomini non hanno neanche bisogno di andarsene, rimangono anche loro li. Tutti assieme appassionatamente. E come tutto e' avvenuto grazie a "me lo fai questo favore" e questo favore e' un legame a nessuno "scoccia l’idea di sapere che siamo tutti mafiosi".
“Com’è possibile che una intera nazione si faccia rapinare senza neppure chiedere ragguagli sui ladri che stanno portando via i propri risparmi?" e' una bellissima frase ma la parola "intera" che ne sostiene il senso drammatico e' completamente sbagliata e fuorviante. Parafrasando Hemingway, stravolgendo il titolo di un suo famoso libro: "Contare o non contare" o sei tra chi conta o sei tra chi non conta. E se conti quando fai le marachelle non ti viene fatta pubblicita' se non conti come il finto cieco la prima pagina e' tutta per te. Pagata
naturalmente da quelli che non entrano nella parola "intera".
Adesso facciamo assieme un grande vocalizzo.
Ohhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!!!!!!!!!